Giulio Paolini. L’autore che credeva di esistere

Osservare il silenzio comporta pur sempre affermare qualcosa.

Caro Giulio,
ieri ho ricevuto il tuo bellissimo volume. È stata veramente una grande sorpresa, grazie. Una ragione in più per rinnovarti l’invito a rilasciarmi un’intervista per «Arte e Critica». Già qualche mese fa, quando scrissi a Maddalena per proportela, avevo in mente un’idea precisa che trova ora una conferma nel più che intrigante titolo: L’autore che credeva di esistere. Mi piacerebbe affrontare con te proprio questo dato dell’esistenza, di un modo di essere nella storia. Ricordo bene alcune ore trascorse insieme a Verona, quando con Giorgio Cortenova preparavamo la tua mostra a Palazzo Forti, a parlare di postmoderno, delle sue possibili interpretazioni, delle sue possibili implicazioni.
Un caro saluto. Roberto
27 settembre 2012

Caro Roberto,
lascia anzitutto che ti esprima il mio sincero grazie per quanto mi scrivi e che rinnova un rapporto amichevole ma caduto in letargo da tempo.
Devo però subito precisarti le mie riserve, la mia contrarietà all’ipotesi di un’intervista intesa alla lettera, ossia come scambio verbale tra due voci a confronto e poste l’una di seguito all’altra.
Mi riferisco alle intenzioni subito annunciate nelle prime pagine de L’autore che credeva di esistere, dove appunto affermo di volermi sottrarre, senza mezzi termini, al demone della comunicazione, oggi ritenuta di suprema necessità, ma che invece – a mio parere – invade abusivamente e usurpa il terreno consacrato alla parola oracolare dell’opera d’arte. Parola non sempre condivisibile – sono il primo ad ammetterlo – ma che non può e non deve essere considerata come interlocutoria, utile contributo alla ricerca e alla conoscenza. Da parte mia, rivendico all’opera un’irrinunciabile, assoluta inutilità e addirittura il “valore” di spreco.
Questo non significa, caro Roberto, che voglia sottrarmi alla tue attenzioni e interpretazioni. Semplicemente non ho niente da dire (nel senso effettivo, fonetico del termine) anche se dico e scrivo (come qui e ora) in forma diretta e personale, ma non come discorso affidato al flusso corrente della comunicazione nei confronti della quale, come già detto, mi pongo in rigorosa astensione.
Arrivo persino a prospettare il titolo – scusa l’invasione di campo – del tuo testo: Nessuna intervista, o anche Osservare il silenzio, o Nulla da dichiarare… E anche a invitarti a citare tra virgolette estratti dal libro appena pubblicato, brani dalla mia ultima intervista («La Repubblica», 16 luglio scorso), di questa stessa lettera o passaggi dalle nostre prossime conversazioni. Tutti elementi intesi come reperti e ingredienti di un tuo lineare resoconto.
A proposito del gorgo dell’informazione e dei canali della comunicazione, oltretutto sottoposti al dogma del politically correct di marca anglosassone, credo occorra rintracciare delle regole, ipotetiche ma capaci d’individuare una direzione… Il primato assoluto del silenzio è la sola via d’uscita (o punto d’arrivo) in grado d’invertire la rotta e disporci all’ascolto.
L’arte è essa stessa dialogo (col Tempo, con la Storia) e dunque non può e non deve proporsi al dialogo con altre discipline, fingere o presumere di disporsi alla ricerca di una verità che già possiede o crede di possedere. Non può e non deve aggiornare o rimettere in questione la “verità” che la guida. Non è un edificio in continua ricostruzione o restauro, un cantiere aperto, ma un itinerario segreto, senza meta né luogo né data.
Il mondo (dell’arte) è colmo, saturo di voci e gesti clamorosi dettati dal “determinismo” degli autori e dalle loro missioni salvifiche o fondamentaliste, comunicate e tramandate innalzando la bandiera dell’“arte che salverà il mondo”. Performance, prediche, precetti e invocazioni… voci tese a proporre (o imporre) soluzioni non richieste e soprattutto non necessarie alla sacrosanta autonomia della bellezza “impassibile” che Winckelmann già attribuiva alla sfera dell’arte. Voci – compresa la mia insistente e contradditoria esortazione al silenzio – che il Tempo provvederà a ridimensionare o persino a dimenticare. Precetti e invocazioni che dovrebbero cedere il passo all’osservanza delle regole del gioco, a principi “superiori” ascritti cioè a qualcosa di preesistente: che non siano per esempio quei modesti accorgimenti che in politica permettono di annunciare “passi avanti”, rimediati in una traiettoria priva di punto di fuga. “Segnare il passo” è invece la frase in codice, la parola d’ordine che consente all’autore di tenere le distanze e non alzare la voce.
L’arte non dice, non sa cosa dire… non sa, non può ragionare, ma neppure intende evadere del tutto dal terreno che ci è concesso (o imposto) di praticare. Arte e follia intrattengono rispettosi rapporti di buon vicinato, conducono esistenze autonome pur occupando locali adiacenti, correttamente separati anche se situati nello stesso edificio. Non condividono quindi intenti e imprese in comune: l’asse di equilibrio che sostiene le figure e i volteggi acrobatici degli esercizi quotidiani dell’arte potrebbe cedere sotto il peso insostenibile della vita vissuta. Seppure un’intesa momentanea varrebbe ad accendere qualche illusoria ipotesi di scambio e sovrapposizione, i due pianeti continueranno a ruotare indisturbati nelle loro orbite distinte e concluse. Se ogni frase, ogni parola tende a congiungersi (a precedere o a seguire) a quanto già detto o si dirà (e questo vale anche per ogni punto, linea o figura di un disegno), allora il Tempo è come la falsariga sulla quale si dispongono la luce abbagliante di una visione o il vuoto cieco del buio. O come la cadenza di una partitura musicale, la recita ininterrotta di un’orazione o l’eterna durata del silenzio.
L’attitudine dell’artista sembra ripercorrere gli stessi parametri che contraddistinguono una vocazione, qualcosa d’impenetrabile e misterioso simile a un raptus o a un’ossessione.
Eremita o cenobita? Il ruolo (o il destino) dell’autore resta in bilico, in andata o ritorno, tra due polarità apparentemente contrapposte e inconciliabili: è proprio da una soglia invalicabile che è dato toccare, abbracciare il mondo intero, intatto, così com’è, non conteso o controllato da chi lo abita e lo possiede.
È tutto per ora… e ovviamente resto in attesa delle tue impressioni.
Un caro saluto, Giulio.
9 ottobre 2012

Caro Giulio,
ho iniziato a sfogliare e a leggere L’autore che credeva di esistere. Ce l’ho qui, accanto a me, sul tavolo da lavoro, però poi, nella libreria di casa, ho scorto un tuo precedente libro, Quattro passi. Nel museo senza muse. Scorrendo l’indice, l’attenzione è caduta sul capitolo “Fuori programma”, in particolare sul paragrafo C come Conversazione. Leggendolo mi sono soffermato naturalmente sulle tue affermazioni, ma successivamente ha preso corpo un’intuizione tutta da verificare: un fil rouge lega Passeggiata nel museo a L’autore che credeva di esistere, una sorta di slittamento tellurico ancora non evidente in superficie.
C come Conversazione, come ricorderai, raccoglie un botta e risposta realizzato in differenti occasioni tra te e vari interlocutori. Due domande in particolare mi hanno colpito, la prima: «Cosa pensava del ruolo dell’artista negli anni Sessanta? Era un ruolo più sociale o più marginale?»; la seconda: «Cosa pensava delle dimostrazioni di studenti durante il sessantotto e l’autunno caldo?». Riporto queste domande perché mi pare cerchino di rompere quello che potrebbe essere definito il circolo vizioso dell’opera.
Uso questa immagine facendo eco al libro di Pierre Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, dove l’autore parla in modo insistente della teoria dell’Eterno Ritorno. Mi rendo conto del rischioso arbitrio di estrarre dal quel corposo volume la seguente affermazione: «Dunque la ricchezza del Ritorno consiste nel voler essere altro da quello che si è per diventare quello che si è», ma come non cogliere una certa vicinanza con quell’autore di cui tanto spesso tu hai parlato?
Certo è che quelle due domande introducono nella circolarità dell’opera un elemento temporale che lascia intravedere la possibilità di assegnare al tuo lavoro, oltre che un valore artistico, anche un valore storico.
In tal senso si potrebbe riprendere la tua risposta a quelle domande: «Personalmente ritengo che il ruolo dell’artista sia sempre e allo stesso tempo sociale e marginale – e spieghi – sociale nel senso che è lui (solo lui) a legare il proprio nome a quel poco (davvero poco) che resta, al di là del frastuono del quotidiano».
Rileggo anche l’inizio di Quattro passi, e mi pare di scorgervi altre conferme al mio ragionare. Infatti, scrivi nell’abbrivio: «Ho compiuto sessant’anni. Né troppi né pochi: abbastanza, o non abbastanza, per trovarmi in condizione di scorgere all’orizzonte la parola fine».
In questa proposizione ci sono due elementi che restituiscono il dato importante del trascorrere del tempo, e anche se tu cerchi di riassorbirlo con l’assegnare alla parola fine un diverso genere, non riesci ad evitare del tutto il rischio di un resoconto: «…attribuirsi, sottoscrivere un fine come senso o scopo della propria esistenza può risultare una condizione più ingrata, o terribile, che accettare magari serenamente la fine».
Certo è che la viziosità del circolo o la virtuosità della linea, dipendono esclusivamente dalla morale in cui vogliamo credere.
Per quanto sia diventato démodé il lavoro dello storico dell’arte, decantato prima nella figura del critico e poi svanito definitivamente in quella del curatore, c’è da domandarsi se dietro questo negare valore alla storia non si nasconda una possente ideologia.
Se c’è, andrebbe rivelata, interrogandosi seriamente sul lascito ai contemporanei, per quel poco che resta, dell’eredità modernista.
E con questo forse esprimo implicitamente un giudizio sul tuo lavoro, individuandolo già come modernista. E se così fosse, di quale modernità si tratta? Non certo di quella che ha condotto alle dimostrazioni del sessantotto e all’autunno caldo. Che hai già detto: «Le sopportavo e le subivo con un certo fastidio… come manifestazione di un clima primitivo, della necessità di isolare un nemico… la rivoluzione al self-service».
Riporto con precisione di punteggiatura la tua risposta, per cercare di mettere in evidenza quella che a me sembra una questione capitale, ovvero la necessità di indicare, anche se in modo approssimativo, come compete a questo scambio a distanza, di quale modernità si tratti.
Noi del resto, ancora oggi, viviamo il frastuono del quotidiano di una generazione, quella a cui appartieni, che ha contribuito, in un modo o nell’altro, a determinare quelle trascorse stagioni. Persino oggi i giovani, che pure hanno subito il ripristino di un qualche valore gerarchico, non senza contraddizioni, riconoscono nel lavoro della tua generazione un ruolo maestro. E certo anche questa problematica si deve porre nell’elencazione del lascito ai contemporanei.
È con queste considerazioni che mi accingo a leggere L’autore che credeva di esistere.
Un caro saluto. Roberto
22 ottobre 2012

Caro Roberto,
scusa l’interferenza, imprevista e forse inopportuna, che mi porta a riprendere la parola nel nostro dialogo a distanza. La dinamica di un carteggio prescrive, come in ogni forma di dialogo, interventi a tempi alterni e dettati dai rispettivi riscontri e contributi.
Come scrivevi nel tuo messaggio del 22 ottobre scorso, avresti iniziato a leggere L’autore che credeva di esistere proprio in quei giorni: giusto quindi lasciartene il tempo…
L’urgenza che ora mi coglie è motivata dal crescente sconcerto che provo e riprovo di fronte all’assillante e grottesca preoccupazione espressa dalla quasi totalità del mondo dell’arte contemporanea per i destini del mondo (quello vero) e dalla necessità per noi di prenderne responsabilità e farcene carico.
Quale vanità e, soprattutto, quale smisurato senso di superiorità e onnipotenza! Dunque noi, infinitesimi abitanti dell’Universo, dovremmo ergerci a difensori di quanto ci tocca: e sottolineo la frase per affermare la nostra marginalità, e non certo la centralità, in una cosmogonia che peraltro ignoriamo del tutto.
È, in due parole, lo scandalo della politica: della presunzione – a dir poco – che ci autorizza, davvero ci fa credere autori di una storia nella quale ci muoviamo da semplici attori o comparse, senz’arte né parte… E non parlo soltanto della comprensibile e legittima indignazione provocata dalle nostre vicende nazionali ma, in generale, della scelta libera e professata di “fare politica”: imperdonabile concessione che la nobile condizione dell’essere affida alla diabolica avidità dell’esserci.
Scusa la sortita extraterritoriale che nell’effluvio dell’informazione di ogni giorno mi pare giustificata e comprensibile. Tornando a noi, al nostro limitato ma infinito dominio separato, quello dettato dall’arte e dai pensieri che suscita, mi ritiro e attendo le tue considerazioni su quanto vorrai a tua volta confidarmi.
Un caro saluto, Giulio.
12 novembre 2012

Carissimo Giulio,
non posso essere che d’accordo con te. La storia va oltre il nostro volere, ben oltre ciò che è in nostro potere. Ciò nonostante, è proprio questa condizione che mi spinge a chiederti una testimonianza, con la speranza di cogliere una possibile via di verità. Solo così è forse possibile ridimensionare quella parte di falsità insita in ogni interpretazione (com’è noto, interpretare è come tradurre e tradurre è come tradire).
Cerco di farlo ora, proprio ora, che dichiari la tua uscita di scena. Capisci subito che mi sono avventurato nella lettura de L’autore che credeva di esistere. L’ho fatto e sono rimasto fulminato, come avrai capito, già dalla prima riga, proprio là dove affermi, appunto «l’uscita di questo libro coincide, in certo senso, con la mia uscita di scena».
La tua uscita di scena appunto, non della tua opera, che rimane consegnata alla storia. Opera della quale vorrei rivendicare oggi più che mai la centralità, che se non è quella di una possibile cosmogonia, lo è almeno quella della sua Weltanschauung (uso il termine tedesco pensando alle teorie di Fiedler), della sua implicita visione del mondo.
Dopo tanti anni di intenso lavoro, la tua opera può essere oggi considerata come un excursus che, seppure rappreso nella sua circolarità linguistica, o forse proprio in virtù di questa, è in grado di raccordare due diverse culture, quella della neo-avanguardia, legata alla tua giovinezza, a quella attuale postmoderna, propria alla tua maturità.
Per questo mi sembra necessario che prima di uscire di scena – per continuare ad usare la tua metafora – tu debba concedere almeno un bis, dare una indicazione che permetta di ritrovare il filo perso di un discorso che progressivamente e inesorabilmente è passato dal boom economico alla decrescita.
Lo so, lo hai detto e sottoscritto tante volte che non ti senti autorizzato a parlare per conto della tua opera. Ma a noi, almeno per il momento, sarebbe sufficiente l’attestazione dell’individuo, anche poche dichiarazioni da mettere a confronto con l’immagine dell’artista che si riflette nell’opera. Stabilire a posteriori, insomma, quella relazione tra uomo, artista e opera che tu stesso indicavi nel Giovane che guarda Lorenzo Lotto.
Sono passati giusto cinquant’anni dalle tue prime prove. Cifra considerevole, che richiama alla mente Duchamp quando affermava che dopo cinquant’anni l’opera smette di vivere a causa delle mutate condizioni storiche che ne fanno perdere i riferimenti. Se questo potrà essere anche vero, lo è per la sua visione dell’arte: arte e vita. Ma non è detto che lo sia per tutti, anzi, sicuramente non lo è per l’altra metà del mondo, alla quale sento di poter dire che tu appartieni.
Dunque, per il futuro, perché ci si possa addentrare nell’interpretazione della tua opera omnia avverto il bisogno del tuo apprezzamento “storico” di quel percorso.
È il tuo essere schivo, questa tua professata appartenenza alla compagnia di Bartleby e degli “autori del No”, dichiarata dal L’autore che credeva di esistere, a renderti oggi così interessante, almeno ai miei occhi, ma penso di potere parlare a nome di una sempre più folta schiera di quanti riconoscono l’importanza dell’opera a discapito di quel “teatro” dell’arte che pure ha avuto nel corso dell’ultimo cinquantennio e più un ruolo protagonista.
Credo e spero, con questo, di cogliere il senso profondo delle ultime affermazioni dell’Autore, che conclude con un epilogo – come altro sennò? – con il quale, in senso etimologico, tendi a commuovere: «Les jeux sont faits, rien ne va plus: l’opera è lì ma non la vediamo. Possiamo soltanto intuirne l’esistenza dietro l’ultima pagina».
A noi è sufficiente, almeno per il momento, intuire l’opera dietro quell’ultimo velo. Semmai sarà la storia a lacerarlo definitivamente. Ma anche per questo dobbiamo chiedere aiuto, se non all’Autore, almeno al suo doppio, affinché ci indichi un codice, una via di uscita dal labirinto del linguaggio. Ma questo è forse chiedere troppo a chi professa l’imperativo di «liberare il linguaggio dalla sottomissione a essere operativo, funzionale… a intenderlo come transitivo».
Non credo che ci sia verso per farti arrischiare una scomunica per comunicazione, eppure sarebbe estremamente interessante che l’individuo Paolini ci parlasse del tempo che ha vissuto, sarei pronto anche a delle provocazioni storiche. Sarei pronto a riconoscerti un ruolo nella nascita dell’Arte concettuale e l’anticipo su Kosuth. A vedere la tua influenza sui tuoi contemporanei, su Alighiero e Boetti, o le sintonie con Jannis Kounellis ma anche, se non soprattutto, una tua inesorabile opposizione al pop-style, questo nonostante certe analogie di tecniche e materiali, l’uso del collage, del prelevamento degli oggetti, della fotografia e via dicendo.
Un caro saluto, Roberto.
9 dicembre 2012

Caro Roberto,
è recente la notizia della decisione di Philip Roth, anche sottoscritta da Imre Kertész (entrambi premi Nobel o roba del genere) di dare addio allo scrittura e a ogni futura forma di pubblicazione. L’uno prescrive anche di distruggere il proprio archivio dopo la sua morte; l’altro invece di conservarlo e documentarlo per i posteri.
Mi chiedo: non sarebbe più puntuale e opportuno da parte di un autore attuare almeno in extremis una scelta che corregga l’equivoco condiviso fino a poco prima? Perché fino a ieri ci si credeva autori, si credeva cioè di esistere dando voce al brusìo della mente piuttosto che concedersi al silenzio estatico dell’anima? E perché tanto solennemente compiacersi di annunciare la propria assenza?
Già prima di loro, del resto, a cominciare da Rimbaud fino a Forster e a Salinger, l’autore s’è sempre sentito costretto ad avere un posto al quale potersi sottrarre. Come annota Valerio Magrelli («La Repubblica», 16 novembre 2012) a proposito della sindrome di Bartleby, descritta da Enrique Vila-Matas, «Non si scrive per sé, bensì per gli altri, e in questo senso smettere di scrivere significa sospendere il contatto con quell’Altro per eccellenza che è il lettore. Ecco la ragione per cui, rinunciando alla pagina, un autore non cancella tanto il se stesso futuro, quanto la sua futura relazione con il pubblico, e dunque tace, si arrende, volge le spalle alla comunità di cui fa parte e che rimarrà orfana della sua voce».
Tutto, o quasi, sembra dunque destinato a sparire ma anche allo stesso tempo – e si tratta davvero del Tempo – a permanere. Mi torna in mente la famosa immagine, suggerita originariamente da Parmenide a Emanuele Severino che oggi la riferisce, della candela accesa, della fiamma che crediamo di poter spegnere con un soffio ma che “in verità” rimane ancora e sempre accesa… Come quando mi trovo a considerare e a ripetere “il mio primo (e ultimo) quadro”. O le parole a conclusione del breve racconto La rosa gialla dove Jorge Luis Borges riferisce gli ultimi istanti di vita dell’illustre poeta Gianbattista Marino: «Allora accadde la rivelazione. Marino vide la rosa, come poté vederla Adamo nel Paradiso, e sentì che essa stava nella propria eternità e non nelle sue parole e che noi possiamo menzionare o alludere ma non esprimere e che gli alti e superbi volumi che formavano in un angolo della sala una penombra d’oro non erano (come la sua vanità aveva sognato) uno specchio del mondo, ma una cosa aggiunta al mondo».
Echi e riflessi… Due libri, posti l’uno accanto all’altro nello scaffale del mio studio, recitano sul dorso Les artistes américaines & le Louvre (Hazan ed., Paris 2006) e Americani a FirenzeSargent e gli impressionisti del Nuovo Mondo (Marsilio ed., Venezia 2012). I due titoli illustrano vicende ed episodi di una stagione ormai trascorsa, animata da una rispettosa ed elegante devozione, come in Henry James, ma anche da un innocente e sereno candore disposto ad ammirare da lontano i nostri tesori del passato. Questo stesso candore sarà però capace, in seguito, di formulare le voci più pure e chiare che in epoca recente ci sono pervenute di ritorno (da Pollock a Jasper Johns fino a Cy Twombly).
Tutto l’opposto, vivaddio, delle tenebrose e conflittuali teorie propagandate fino a ieri dai più incalliti autori nostrani (ad esempio Joseph Beuys). Il che mi porta a constatare come alla luce dell’oggi le ultime propaggini dell’arte cosiddetta concettuale, soprattutto anglosassone, corrotta e compromessa dall’attenzione al “mondo reale” e dai parametri relativi al consumo sociale, sia deprivata della forza centripeta della sua ragione essenziale e svenduta alla forza centrifuga del suo impatto sul pubblico.
L’attenzione – voglio dire – è ormai rivolta ai dati di una sociologia dell’arte che incarna il vero e proprio “peccato mortale” compiuto ai danni dell’essenza primaria, della vocazione “archeologica”, dello scavo in profondità nella dimensione unica sempre uguale e sempre diversa che anima la sfera dell’arte.
In ultimo, a conferma di quell’ottica equivoca e arrendevole, leggiamo le valutazioni di Camille Paglia («The Wall Street Journal») a denuncia dell’“aspetto culturale” che l’arte non saprebbe più cogliere nel mondo di oggi. Argomenti dei quali – devo ammettere – poco o nulla c’importa data la esclusiva considerazione che conserviamo per una dimensione dell’arte che non si pone in relazione con null’altro che non sia la sua propria intima e incommensurabile necessità. Ancor meno siamo concordi nell’ammettere la supremazia, nei confronti delle arti visive, di opere architettoniche «audaci, originali e di stupefacente bellezza realizzate da Frank Gehry, Rem Koolhaas, Zaha Hadid».
Che altro aggiungere?
Che tutto sia sempre e soltanto questione di tempo?
Tutta la pittura, persino quella cosiddetta figurativa, non riflette la realtà ma la disegna, la precede (come si usa dire «ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale»).
Quella mela dipinta da Cézanne, quella bottiglia di Morandi… non sono l’eco, la sopravvivenza di quei rispettivi oggetti ma li annunciano e appunto li precedono: «la natura imita l’arte» proprio come diceva Oscar Wilde. L’arte vorrebbe cioè sottrarsi al diritto di pedaggio da corrispondere al Tempo, a Saturno, suo implacabile esattore, convertendosi al culto di Giano, custode di quella soglia aperta sul prima e sul dopo, visti l’uno sull’altro, in trasparenza…
Parlare della Storia e dell’Arte significa per me percorrere due traiettorie parallele ma distinte: se la Storia attraversa il Tempo, l’Arte, semplicemente, a qualsiasi epoca appartenga e a qualsiasi latitudine si trovi, lo abita; pur apparendo sempre diversa è sempre uguale a se stessa e dunque sempre “contemporanea”.
Unità (di Tempo e di Luogo)…
Un’ultima osservazione. Sì, osservare, guardare per credere, chiudere gli occhi e riaprirli nell’attesa di veder apparire qualcosa di diverso, ovvero uguale a quel che vedevamo prima di questa inutile quanto necessaria verifica. Quasi un cerimoniale, tutto implicito e rivolto a quei rituali illusori che ci consentono di considerare tempi e luoghi perduti e ritrovati. Che tuttavia non ineriscono quell’unità di Tempo e di Luogo consacrata al trionfo della rappresentazione.
«È l’opera, adesso, a immaginare l’autore. Ciò che si rivela allo sguardo è dunque un momento anteriore a ogni possibile definizione, oltre il quale tutte le definizioni saranno invece possibili. L’intervallo che ci separa dall’immagine è l’eternità che si consuma nell’attesa dell’inizio. […] L’artista è lontano, ad ammirare il silenzio delle costellazioni».
Dopo tanto tempo – trent’anni sono trascorsi da quelle mie frasi (1983), tutto è rimasto uguale dato che Tempo e Luogo non mutano, sono e restano uguali a se stessi.
Come a teatro: buon divertimento!
22 gennaio 2013

Arte e Critica, n. 73, gennaio – marzo 2013, pp. 42-47.

Roberto Lambarelli
Roberto Lambarelli
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