Ai tempi della collaborazione con Giorgio Cortenova a Palazzo Forti, tra la seconda metà degli anni ottanta e i primi novanta, realizzammo una serie di eventi espositivi sul tema della continuità storica tra figure, gruppi, tendenze. Un’idea che si inscriveva perfettamente nel lavoro che caratterizzava l’attività della Galleria Civica di Verona fin dalla sua apertura. In particolare proposi un progetto da dedicare a Burri e Kounellis, mi pareva potesse rappresentare un’occasione per tornare a ragionare su quanto successo nell’arte dagli anni cinquanta in poi.
Ai miei occhi i due artisti erano accomunati oltre che dal loro giganteggiare nel panorama internazionale, dall’essere inseriti nella continuità di quella che ancora allora si poteva definire la tradizione dell’avanguardia. Come non vedere una continuità tra i sacchi di iuta ricuciti e le rose di stoffa fissate con gli automatici, tra le plastiche, e ancor più tra i legni combusti e certo uso del fuoco e del carbone? E che dire non solo dei materiali usati, i sacchi, i legni, i ferri, ma anche di una certa fisica performatività. Anche in questo senso era infatti individuabile una continuità tra un Burri che spara al barattolo di birra, eleggendolo poi a scultura (foto pubblicate nel ’59) o che con il cannello acceso brucia le plastiche (chi non ricorda le fotografie di Amendola) e il Kounellis che si fa fotografare con in bocca un supporto con su una candela accesa o un cannello acceso. Tutti fatti governati dalla logica immanente dell’azione che si trasforma in evento artistico, ma accomunati, qui sta il punto, da una memoria arcaica.
Incontrai Kounellis e gli accennai della mostra e delle idee che avevo, lui ascoltò senza un commento – Jannis sa essere molto enigmatico – ma intuivo dietro il suo silenzio un assenso. Non voleva esporsi, era giusto, ma quell’ipotesi lo intrigava. Insomma, credetti di dover procedere. Così, all’inizio dell’estate del ’92, andai a trovare Burri nella sua casa studio a Beaulieu, sulla Costa Azzurra. Mi accolse con cordiale ospitalità e dopo i soliti convenevoli arrivammo al perché della mia visita. Gli esposi le ragioni che mi avevano spinto a pensare quella mostra. Mi ascoltò con grande attenzione, ma per tutta risposta cominciò a parlare in modo animato di quanto avrebbe partecipato volentieri ad una mostra che lo avesse messo a confronto con Rauschenberg e di come si sarebbe impegnato per dimostrare la sua superiorità.
La rivalità con il più giovane statunitense era nota, si raccontava che l’artista statunitense fosse arrivato a Roma all’inizio degli anni cinquanta, che avesse incontrato Burri e ne avesse apprezzato i lavori.
Da parte mia, non raccolsi il suggerimento, perché il mio progetto aveva tutt’altro intento, mi interessava ragionare più che nei termini del confronto, in quelli della continuità.
La mostra che avevo in mente rispondeva ad una ragione storica, voleva cercare i punti di contatto piuttosto che le divergenze tra due esperienze che, tese al limite, potevano essere prese come paradigmi artistici e comportamentali di due generazioni susseguenti poste sul finire del Movimento moderno.
E poi, a quella data, non ero nemmeno così sicuro dell’esito di un confronto Rauschenberg / Burri. All’inizio degli anni novanta il mondo si stava rovesciando: proprio mentre si decretava il superamento del moderno, la fine delle grandi narrazioni (Lyotard), che nell’arte può equivalere a dire la fine dell’avanguardia, con tutti i suoi propositi di fondare una società estetica (Menna), si registrava la massima diffusione dei linguaggi che l’avevano caratterizzata (oggettuali, materici, poveristi, ecc.). Mentre la pittura, con il suo pesante carico di tradizione, di valori estetici e quant’altro, veniva definitivamente travolta dall’anti-form.
Nella non breve visita che gli feci, Burri aveva chiesto notizie degli artisti della mia generazione, nata artisticamente tra la fine degli anni settanta e l’inizio del decennio successivo. Artisti con i quali avevo attraversato quella che allora si chiamava ancora “militanza critica”. Su tutti, la sua curiosità si appuntò in particolare su Bruno Ceccobelli e le ragioni emersero nel corso della conversazione: lo incuriosiva il loro essere conterranei, erano entrambi umbri.
La cosa mi incuriosì, perché se da una parte Burri cercava il confronto, la competizione internazionale, dall’altra si dimostrava legato alla sua terra, ma non tanto per ribadire un genius loci, una possibile matrice, quanto per un sentimentalismo più immediato.
Mi resi conto, comunque, che Burri era tutt’altro che interessato alla continuità storica, al senso della tradizione, seppure di quella che Adorno aveva indicato rimanere viva nella trasmissione da una mano all’altra, da una generazione all’altra.
Burri, tutto teso ad affermare dell’arte i valori assoluti, quante volte aveva ripetuto che non aveva nulla da aggiungere a proposito di quella che continuava a chiamare pittura, nonostante fossero spesso accumuli di materiali: le muffe, i catrami, le plastiche, ecc.?
«Le parole non mi sono d’aiuto – affermava – quando provo a parlare della mia pittura. Questa è un’irriducibile presenza che rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione».
A lui non interessavano né il contesto storico né le condizioni sociali nelle quali il suo lavoro si svolgeva. Non gli interessava nemmeno alcuna fenomenologia, la sua opera era semplicemente il risultato della sua dote eccezionale, pur sempre naturale, che naturalmente dialogava con l’universale, era semplicemente la condizione naturale di uno spirito che, senza tempo, virava verso la dimensione classica.
Quanto proponevo gli poteva sembrare una manovra tattica, un assist che lui non voleva concedere: il valore assoluto mal si addice alla relatività, ad ogni forma di vicinanza. Eppure, è proprio dal confronto con gli altri, come ha dimostrato abbondantemente la mostra che chiude la celebrazione del centenario, che Burri mostra la sua grandezza come precursore di sensibilità ma soprattutto come costruttore di valori.
Oggi, a distanza di oltre vent’anni, penso che il confronto che si dovrebbe fare (chissà se sarà mai possibile) è tra Burri, Rauschenberg e Kounellis. Nati a distanza di una decina d’anni l’uno dall’altro, essi rappresentano una staffetta ideale per spiegare la seconda metà del secolo scorso, tutto teso tra form e antiform. E immagino Kounellis fare un assist a Burri, a riconfermare la vitalità della forma.
Arte e Critica, n. 86/87,autunno – inverno 2016/2017, pp. 70-71.
BURRI V/S RAUSCHENBERG… AND KOUNELLIS. A TESTIMONY
At the time of the collaboration with Giorgio Cortenova at Palazzo Forti, between the second half of the eighties and the early nineties, we realized a series of exhibition events on the theme of historical continuity between figures, groups, tendencies. An idea that had perfectly suited the work that characterized the activity of the Galleria Civica in Verona since its opening. Specifically, I proposed a project to be dedicated to Burri and Kounellis, which seemed to me an occasion to start reflecting again on what had happened in art from the fifties onwards.
To my eye the two artists had in common, in addition to their standing out on the international scene, their being included in the continuity of what even then could be defined the avant-garde tradition. How could one not see a continuity between the resewn jute sacks and the fabric roses attached with press-studs, between the plastics, and even more between the burnt wood and a certain use of fire and coal? And then not only the materials used, the sacks, woods, irons, but also a certain physical performativity. Also in this sense, one could in fact recognize a continuity between Burri shooting a beer can, then defining it as sculpture (photographs published in ’59), or burning plastic with a lighted blowtorch (who does not remember the photographs by Amendola) and Kounellis who lets himself be photographed with a support in his mouth with a lighted candle or a lighted blowtorch on it. All facts that are governed by the immanent logic of action that is transformed into artistic event, but united, and this is the point, by an archaic memory.
I met Kounellis and I mentioned the exhibition to him and the ideas I had: he listened to me without comment – Jannis can be very enigmatic – but I felt that behind his silence there was an assent. He didn’t want to expose himself, he was right, but that hypothesis intrigued him. In conclusion, I realized that I had to proceed. Therefore, at the beginning of summer ’92, I went to visit Burri at his house-studio in Beaulieu, on the French Riviera. He welcomed me with warm hospitality and after the usual courtesies we arrived at the aim of my visit. I told him the reasons that prompted me to conceive that exhibition. He listened to me with great attention, but his only answer was to start to speak heatedly about how he would have willingly participated in an exhibition that would have compared him with Rauschenberg and about how he would have done his best in order to prove his superiority. The rivalry with the young American was known, it was said that the American Artist had arrived in Rome in the early fifties, that he had met Burri and had appreciated his works.
Personally, I didn’t follow his suggestion because my project had a completely different intent, I was more interested in thinking in terms of continuity rather than in terms of comparison. The exhibition I had in mind was driven by a historical reason, it aimed to search for the points of convergence rather than the divergences between the two experiences that, stretched to the limit could be considered as artistic and behavioural paradigms of two subsequent generations located at the end of the Modern Movement. And then, at that time, I was not even so sure of the result of a comparison Rauschenberg / Burri. In the early nineties, the world was totally changing: just when the overtaking of the modern was decreed, the end of grand narratives (Lyotard), that in art can be the same to say the end of the avant-garde, with all its intensions to found an aesthetic society (Menna), the maximum diffusion of the languages that characterized it (objectual, material, of Arte Povera, etc.) was registered. While painting, with its heavy burden of tradition, of aesthetic values and so on, was definitively overwhelmed by anti-form. In the not so short visit that I made to him, Burri had asked about the artists of my generation, which was artistically born between the late seventies and the beginning of the subsequent decade. Artists with whom I had experienced what was then still called “critical militancy”. Among everybody, he focused his attention particularly on Bruno Ceccobelli, and the reasons for this emerged during the conversation: he was intrigued by their being from the same region, they both came from Umbria.
This intrigued me, because if on the one hand Burri looked for comparison, international competition, on the other hand he proved to be attached to his native land, but not so much as to reaffirm a genius loci, a possible matrix, but rather for a more immediate sentimentalism. I realized, however, that Burri was anything but interested in historical continuity, in the sense of tradition, albeit the tradition that Adorno had indicated as remaining alive in the transmission from one hand to the other, from one generation to another. How many times had Burri repeated, intent on affirming the absolute values of art, that he had nothing to add about what he continued to call painting, although the works were often accumulations of materials: molds, tars, plastics, etc.? “Words cannot help me – he said – when I try to speak about my painting. This is an irreducible presence that refuses to be translated into any other form of expression.”
He was interested in neither the historical context nor the social conditions in which his work was carried out. He was not even interested in any phenomenology, his work was simply the result of his exceptional talent, still natural, which naturally conversed with the universal, it was simply the natural condition of a spirit that, timeless, turned towards the classical dimension. What I proposed could seem to him a tactical move, an assist that he didn’t want to receive: the absolute value badly fits relativity, any form of closeness. Yet, it is precisely in the relationship with others, as the exhibition that closes the celebration of the centenary of his birth has abundantly proved, that Burri showed his greatness as a precursor of sensitivity but above all as builder of values. Today, after more than twenty years, I think that the comparison that one should make (I wonder if it will ever be possible) is among Burri, Rauschenberg and Kounellis. Born within about ten years of each other, they represent an ideal handover to explain the second half of the last decade, entirely stretched between form and anti-form. And I imagine Kounellis providing an assist for Burri, to reconfirm the vitality of form.
Arte e Critica, no. 86/87, Autumn – Winter 2016/2017, 70-71.