Nel proporre a Cesare Viel questa conversazione, avevo in mente diverse cose.
Mi sarebbe piaciuto snodarla lungo diversi piani. Il primo, più evidente e immediato, si sarebbe dato ascoltando la sua viva voce; immaginavo che seguendo le sue dichiarazioni si sarebbe potuta trovare qualche chiave speciale per penetrare il senso del suo lavoro.
Un secondo piano, di particolare interesse per me, si sarebbe determinato automaticamente da un confronto tra noi, presi come espressione di due diverse generazioni: la mia formata negli anni Settanta e, seppure attiva già alla fine di quel decennio, identificata con gli Ottanta; la sua attiva già nei primissimi anni Novanta, ma di fatto formatasi negli Ottanta. L’ipotesi che volevo avanzare era che queste due generazioni non condividono soltanto la contemporaneità ma anche il reagire, seppur diverso, agli anni Sessanta/Settanta.
Un altro piano si sarebbe determinato nel raccordo con l’effervescente, quanto poco riconosciuto, ambiente culturale genovese che, seppure in modo più o meno latente, ha fuso nel tempo i diversi ambiti del sociale, del politico e dell’arte. Terreno fertile, dove il lavoro di Viel, che genovese non è, è gettato, immerso.
Poi, la modalità con la quale di fatto è avvenuto lo scambio – e cioè in forma scritta anziché orale –, il rallentamento che ha subito a causa di fattori ambientali e la difficoltà di calarlo dentro la particolare stratificazione genovese in assenza di un altro interlocutore congeniale al progetto – figura che a dire il vero abbiamo cercato con davvero poca insistenza – hanno modificato il proposito iniziale.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere. Del resto, forzare la conversazione verso una ricostruzione storica, o indugiare troppo sulle diversità generazionali nelle scelte di linguaggio avrebbe messo una seria ipoteca sul senso e sul significato del lavoro di Viel in rapporto alla contemporaneità. Insomma, mi pare di poter dire che si è lasciato che dominasse un laissez-faire in linea con lo spirito globalizzato del nostro tempo, che ci fa perdere di vista continuamente le nostre radici (ecco lo spirito degli anni Ottanta?), considerate un intralcio alla libera circolazione.
Ciò nonostante, a molte delle questioni presupposte è stata data una risposta, seppure in forma carsica. Argomenti come la fuga, o la deriva, il pensiero in movimento, o il sé sono stati messi sul tappeto. Temi che, se notoriamente hanno caratterizzato la modernità, ripresi in seno all’arte assumono valori autonomi che vale la pena di continuare ad indagare, soprattutto se pensiamo l’arte, come scriveva Fabro negli anni di formazione di Viel, come il luogo più spirituale che ci sia, ancor più della religione.
Nel tempo in cui è durato lo scambio con Cesare, molte letture, per un verso o per l’altro, mi hanno ricondotto al suo lavoro, ai suoi temi, ma anche ai suoi gesti, alle forme insieme aeree e concrete delle sue performance. È la riprova dell’esistenza di un habitus culturale con il quale volenti o nolenti dobbiamo fare i conti.
Tra le cose non citate nel nostro scambio, mi piace fare emergere una immagine da Il mestiere di giornalista che Furio Colombo ha dedicato allo strumento dell’intervista. Parla di Professione reporter di Antonioni (1974), del protagonista che, di fronte al mondo, esprime la volontà di ritrarsi, di lasciare che la vita emerga con i suoi fatti, non per un’astratta ricerca di obiettività quanto piuttosto per dare spazio a quell’energia che si sprigiona dalla materia, dalle relazioni, da tutto quello di cui è fatta la realtà. Ancora una volta è il cinema a fornire un modello che ci consente di cogliere il senso del lavoro di Viel, non soltanto dei primissimi lavori, in cui per le strade della città con un microfono in mano intervistava la gente incontrata per caso su questioni di ordine quotidiano, ma più in generale del suo modo particolare di essere artista, di essere un io in ascolto dell’altro, di se stesso…
Il giorno Mon, 27 Nov 2017 alle ore 16:25, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
in questi giorni non ho avuto molto tempo da dedicare al progetto per Genova (di cui abbiamo parlato a voce), però ho ripreso in mano il libro di Lippolis, tanto per rinfrescarmi la memoria, e devo dartene atto, il tuo suggerimento è davvero calzante. Lui stesso rappresenta quella continuità “situazionista” che mi era venuta in mente nelle prime riflessioni cui ti accennavo durante la nostra conversazione telefonica.
Per quanto riguarda noi due, mi piacerebbe iniziare una conversazione scambiandoci considerazioni, temi e problemi di questi ultimi vent’anni. Detta così, me ne rendo conto, suona piuttosto presuntuosa, ma se lo facessimo raccontando le nostre esperienze? È solo un’idea, tanto per scaldarci un po’… del resto non ti ho chiesto nemmeno se hai voglia di farla.
Un caro saluto
Roberto
Il giorno Tue, 28 Nov 2017, alle ore 10:34, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
mi piace molto l’idea di fare con te una conversazione su diverse questioni che via via emergeranno dal nostro dialogo a tappe.
Per iniziare ti lancio una prima suggestione molto rudimentale intorno alla dimensione della fuga. Fare fuga, fare spazio. Costruire una situazione di fuga. Si va alla deriva all’esterno, così come all’interno di sé. Più ci si apre alle relazioni più si va in profondità, e viceversa. Scusami, in questo momento della mia esistenza vivo dentro un procedere aforistico, ellittico, frammentario. Un andare a singhiozzo, a sussulti. Poi pause di silenzio. Intervalli di vuoto. E poi di nuovo pensieri in movimento. In azione. Respiro corto, respiro lungo. Allenamento al silenzio e al respiro. Allenarsi a stare nella situazione. Qua e là lampi, scosse, di consapevolezza. Tutto si disperde nell’aria, nei suoni. Nei passi. Nei salti. E tutto si concentra. Fa spessore. Resistere. Non scappare dalla situazione, stare. E nello stesso tempo cercare vie di fuga, come strade alternative. È contraddizione?
Ti mando questa immagine di un’azione di corsa per gli spazi della Facoltà di Lettere a Genova, il 13 novembre 2015, in occasione di un convegno sulla medialità/intermedialità, e un link di una video documentazione di un’altra mia azione recente, dell’ottobre 2016, per la Giornata del Contemporaneo, presso la Casa Museo Asger Jorn a Albisola Mare (SV), in collaborazione con Paola Valenti, sempre dell’Università di Genova. Entrambi questi lavori hanno a che fare con la questione “situazionista” dell’andare alla deriva (sia esterna, sia interna a sé).
A presto,
Cesare
Il giorno Thu, 30 Nov 2017 alle ore 11:28, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
Credo che nella stessa scelta di fare arte ci sia la precondizione alla fuga. È già connaturato in essa il desiderio di costruire uno spazio (spazio esistenziale e spazio sociale). Diventa molto interessante, dunque, porre al centro del fare arte tale tema, è un raddoppiamento, una fuga nella fuga.
In fondo, l’arte intesa come fuga, è ciò che caratterizza la stessa modernità, penso alla fuga nell’alterità, nella follia, nel diverso, nell’irrazionale, oggi di nuovo persino nell’esoterico. Per chiarire, dico che per modernità intendo quell’esperienza che si è alimentata complessivamente di progresso e di utopia. Nel progresso c’è l’idea stessa di novità e di cambiamento, ma è dentro l’utopia che mi pare si possa scorgere il principio della fuga, fuga in avanti.
Ma oggi progresso e utopia hanno ancora corso? Avverto nelle tue parole il senso dello stare, non a caso parli di resistenza, parli di vie di fuga, al plurale. Ti chiedi se è contraddizione? Direi di sì, ma come non caderci in questa nostra epoca paradossale (quel che appare è e quello che è non appare)? Abbiamo perso tensione verso il futuro, non ci crediamo più. Per questo non posso fare altro che condividere il tuo procedere aforistico, ellittico e frammentario. Eppure un’indicazione di possibile soluzione mi sembra di poterla intravedere nei tuoi ultimissimi lavori. Mi riferisco a Verso Jorn (2016) dove, sul fondo, mi pare ci sia il desiderio di ritrovare un’origine, un punto di ri-partenza. Forse, non è un caso che tale performance (dimmi se è giusto definirla in questo modo) venga dopo Infinita ricomposizione (2015), ispirata all’opera di Matisse, dove forme e colori vengono destrutturati e ricomposti nel nostro spazio (esistenziale e sociale) contemporaneo. Sarebbe eccessivo leggere questa tua ultima fase come una fuga dalla fuga, come un voler riposizionare il tuo lavoro, ora la dico grave, dentro una certa tradizione?
A presto
Roberto
Il giorno Thu, 7 Dec 2017, alle ore 12:09, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
cerco di rispondere alle tue sollecitazioni, e parto dall’ultima riguardo ai miei lavori più recenti: quello su Jorn e quello su Matisse. Entrambi hanno nel titolo un rimando al divenire, alla dimensione di un percorso che continua: “verso Jorn” e “infinita ricomposizione”. Sono indicazioni, pratiche direzionali, inviti al movimento, il preciso intento di stare dentro un flusso. È una corrente alternata, fatta di stasi, momenti di pausa e immobilità, e momenti di ripresa del movimento, del processo. Come un respiro. La fuga è sia una via prospettica (una costruzione compositiva, un progetto, un disegno), sia una forma di deriva, e di accettazione dello smarrimento. Rischio e avventura di una continua perdita di sé. In fondo penso che il disegno, il progetto che conta realmente per me, è il risultato di un movimento imprevisto, impensato. Quell’angolo, quella zona, che mi ero dimenticato di illuminare. Quella parte dello spazio che mi era sfuggita. Forse è questo per me, ora come ora, ciò che resta dell’utopia. Un’intenzione di utopia, un desiderio.
Vorrei che la mia opera fosse come una corrente d’aria che ti faccia voltare all’improvviso con la netta sensazione di aver sentito passare qualcuno o qualcosa. Non so se questo sia il solco di una certa tradizione artistica, culturale. In parte sì. Ma i nomi da fare sarebbero diversi e molteplici e forse anche tra loro contraddittori.
A presto,
Cesare
Il giorno Thu, 7 Dec 2017, alle ore 17:25, Roberto Lambarelli ha scritto:
Ciao Cesare,
ti leggo con piacere. Nei prossimi giorni vorrò dare un seguito a quanto scrivi. Nel frattempo ti auguro un buon lungo we. Con Daniela ne approfittiamo per andare a Lisbona a incontrare qualche amico. Genova, però, ci è rimasta nel cuore. A proposito, questa mattina ho inviato una mail a Leonardo Lippolis; ti terrò informato su eventuali sviluppi.
Un caro saluto e a presto
R
Il giorno Fri, 8 Dec 2017, alle ore 18:58, Cesare Viel ha scritto:
Che meraviglia Lisboa! Una città che amo molto. Per certi aspetti con qualcosa di simile a Genova.
A presto!
Buon week end!
Cesare
Il giorno Wed, 20 Dec 2017, alle ore 12:03, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
sono tornato da Lisbona con un piccolo souvenir per te. È una frase di Fernando Pessoa che dice: “O homem é do tamanho do seu sonho”. Nel viaggio di rientro, però, ho avuto qualche esitazione, chiedendomi di quale sogno parlasse esattamente. In quel momento, forse anche per la situazione in cui ho ritrovato la citazione, ho pensato ai sogni come attività onirica. Ma non potrebbe nascondere anche un riferimento a qualche forma di utopia? Un uomo è grande come la sua utopia, suona bene, oppure come le sue ossessioni, oggi suona bene anche questo. Ho pensato, comunque, che quella frase ti potesse piacere. Anche tu, una volta, hai scritto che i sogni vanno presi sul serio, ma credo tu li intendessi in modo diverso o almeno hai sviluppato quel punto di partenza in altro modo.
Tra le tante definizione di Pessoa, ne ho trovata una che lo individua come un io poetico disertore del mondo. La sua particolarità di autore ortonimo ed eteronimo, lo sdoppiarsi in diversi autori, ognuno con un proprio stile, del resto, mi sembra sia lontano dal tuo modus. La tua mi appare come una posizione diversa, se non addirittura opposta, là dove egli sfugge tu concentri. In ogni caso, quella frase continua a sembrarmi un buon punto per portare avanti questa nostra riflessione.
Un abbraccio
Roberto
Il giorno Wed 20 Dec 2017, alle ore 19:18, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
Ben tornato da Lisbona. Che bel regalo hai inviato portandomi questa bellissima frase di Pessoa, la riscrivo inadeguatamente in italiano: “L’uomo è la dimensione/la misura del suo sogno”. È una frase ricca di risonanze, di più significati. Come tutto Pessoa, d’altronde. In un certo senso è anche una frase inquieta, nel senso che ti attrae e ti turba allo stesso tempo. Ti dice qualcosa ma anche ti lascia sospeso a mezz’aria, un po’ in ansia, in attesa di un pensiero ulteriore che non intravvedi ancora all’orizzonte. Le città di mare producono questo senso di sospensione, di galleggiamento, di vuoto. Antonio Tabucchi (che ha insegnato lingua e letteratura portoghese all’Università qui a Genova a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta) parlava molto dell’inquietudine nell’arte di Pessoa, e dello scopo che l’arte in generale ha di produrre inquietudine, echi e domande senza risposta. Ho imparato ad amare e a conoscere la bellezza e l’utilità della dimensione dell’inquietudine grazie a Tabucchi e a Pessoa. E aggiungo qui anche Saramago, di cui ho visitato la casa e la biblioteca a Lanzarote, dove si era trasferito nell’ultimo periodo della sua vita. Tutti e tre hanno affrontato il pericoloso e straordinario ambito del sogno, dell’identità, dello smarrimento e della fuga. Detto questo poi, certo, ci sono delle inevitabili differenze tra i modi di intendere la questione del ruolo e della figura dell’artista. Ad esempio, per me il sogno è come la verifica della validità di un’idea, di un progetto creativo. Se un progetto a cui sto pensando mi appare in parte in sogno sotto altre forme, altre sembianze, che però sono attinenti e collegate al progetto, è come se ottenessero una “vidimazione” in più. Una sorta di lasciapassare nel mondo diurno. In questo senso leggo anche la frase di Pessoa che mi hai trascritto. E poi c’è la questione delle diverse identità in Pessoa e del suo disertare il mondo: sono sicuramente elementi che condivido e che mi intrigano, ma dici bene: dove vedi fuga in Pessoa in me vedi invece quasi l’opposto, e cioè condensazione, concentrazione. Sì, posso dirti che mi sento debitore anche di un pensiero dell’immanenza, della responsabilità politica del “partire da sé” (come ho imparato dal Femminismo). Un pensiero critico del posizionamento in un contesto, dal quale non si può sfuggire se non sbagliando e rischiando di diventare astratti, insinceri, fintamente neutri e illusoriamente universalistici. L’identità, la soggettività che mi interessa sviluppare attraverso le mie performance, le mie installazioni, è profondamente relazionale, situata in un qui e ora, è il risultato di uno scambio continuo. Poi è naturalmente anche aperta, incerta, sempre in movimento. Ma mi interessa molto l’aspetto della presenza, del peso dei corpi reali nello spazio, in un luogo fisico preciso. Voci, corpi, gesti in situazione e in relazione fisica tra loro.
A presto!
Cesare
Il giorno Fri 29 Dec 2017 alle 11:47, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
nelle stesse ore del ritrovamento del frammento di Pessoa, avevo con me Il decennio dell’io di Tom Wolfe. Le sue pagine sono a volte un po’ frivole, ma spesso capaci di condensare nella cronaca le direttrici di un’epoca. Il decennio dell’io è un lungo racconto che rappresenta nel modo più faceto lo spirito del suo tempo, gli anni Settanta. Lo stesso narrato, che so, da Christofer Lasch ne La cultura del narcisismo o, nella sua estensione, nell’Io minimo, seppure con ben altre complessità.
Nelle pagine di Wolfe ho trovato un richiamo a Ingmar Bergman, ma non, come nel tuo caso, alle sue procedure, alle sue verifiche – per esempio la possibile conferma di un’idea, di un progetto creativo attraverso i sogni – quanto alle dirette conseguenze prodotte dai suoi film. Wolfe testimonia di due coppie che dopo aver visto Scene da un matrimonio, suggestionate da quello scavare dei protagonisti all’interno del rapporto, dei sentimenti, mandano in frantumi la loro relazione.
Mi piace pensare questo aneddoto come la dimostrazione di una ricaduta dell’arte nella vita, una testimonianza di come essa sia in grado di esprimere le tensioni di una determinata congiuntura storica, se non addirittura di una civiltà.
Trovo, in questo senso, una continuità tra quel film e la storia della fine del rapporto tra Pietro Consagra e Carla Lonzi, che quest’ultima volle rendere di pubblico dominio dando alle stampe Vai pure, la trascrizione della registrazione “del momento di riepilogo di una relazione sui punti inconciliabili di due individui che sono due culture”.
Voglio dire che il problema delle identità e delle relazioni con l’altro da sé, che pure trova negli anni Settanta il suo punto di massima tensione, è di certo una costante della modernità e, come testimonia ampiamente il tuo lavoro, anche della nostra epoca. Naturalmente, bisogna riconoscere le debite differenze. Se gli anni Settanta sono stati l’espressione di un crudo realismo interpretabile come il progetto situazionista di superamento dell’arte (so che quella cultura è dentro il tuo bagaglio formativo), l’epoca attuale, chiamiamola pure postmoderna o ultraliberista, vive altre contraddizioni, altre limitazioni.
Intuisco, dunque, le esigenze che ti spingono alla coerenza, come a una militanza, sui temi già evocati. Capisco la necessità di assumere in te l’onere di indicare una possibile risoluzione delle conflittualità degli opposti o dei diversi, di ricercarla finanche negli interstizi, nelle ombre.
La mia esperienza, segnata dalla traumatica uscita dall’epoca dell’illusione dell’avanguardia, tra fine Settanta e primi Ottanta, mi ha portato a considerare non solo le possibili e contraddittorie circostanze del far convivere diverse culture, ma anche lo scorgere, dietro il costante permanere delle differenze, lo spirito del tempo. In questo senso, mi pare di intravedere, dietro il tuo agire immanente, qualche barlume di trascendenza, magari anche soltanto nella forma dell’indicibile urgenza a fare arte, a dirsi artista. Ne avverto qualche indicatore negli ultimi lavori.
Dopo il sogno, lo smarrimento e la fuga, non si potrebbe scorgere anche la possibilità di ritrovare quel terreno comune dove radicano le nostre radici, la nostra (intendo di umani) urgenza creatrice?
A presto
Roberto
P.S.: tran tran + festività + influenza, ecco le ragioni del rallentamento del mio interloquire. Spero che tu stia bene e che abbia trascorso dei buoni giorni.
Dopo un primo scambio di mail, non ho ricevuto più risposta da Lippolis. Tu hai qualche notizia? In ogni caso, conto di scrivergli nuovamente nei prossimi giorni.
Il giorno Sun, 31 Dec 2017 alle ore 19:19, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto
Intanto ti e vi faccio i migliori auguri per il nuovo anno.
Bella la tua ultima mail (anche le altre, naturalmente), appena posso ti rispondo.
A presto!
Cesare
Il giorno Tue, 2 Jan 2018 alle 13:10, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
sono in Sicilia da qualche giorno e rientrerò a Roma per l’Epifania. Qui ho difficoltà di connessione con il cellulare e solo oggi ho potuto leggere la tua email.
Anche se con un po’ di ritardo, faccio tanti auguri a te e alla tua compagna anche da parte di Daniela.
Un caro saluto
Roberto
Il giorno Mon, 9 Jan 2018, alle ore 18:37, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto!
Grazie degli auguri!
Sono rientrato anch’io da poco e ho iniziato a riprendere il lavoro, presto mi accingerò a scriverti, le tue sollecitazioni sono sempre molto dense, appropriate e stimolanti, scusami per il ritardo.
A presto
Cesare
Il giorno Wed, 10 Jan 2018 alle 17:52, Roberto Lambarelli ha scritto:
Ciao Cesare,
grazie per il messaggio e a presto.
R
Il giorno Fri, 12 Jan 2018 alle ore 14:07, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
intanto ti invio in versione pdf e anche in word la scansione di un mio intervento di qualche tempo fa sul Situazionismo uscito su una rivista milanese di Giulio Ciavoliello per l’anniversario dei 50 anni dall’uscita del testo La società dello spettacolo. Mi sembrava importante inviartelo come materiale utile alla nostra riflessione, in questo intervento mettevo insieme il mio personale sguardo teorico sul Situazionismo con personali elementi biografici, creando così una sorta di cortocircuito emotivo un po’ da “deriva situazionista”…, spero lo troverai utile…
a presto con la mia ulteriore risposta alla tua mail, questi i dati bibliografici del mio articolo: Ripensare il Situazionismo, anche, in “Combo”, rivista d’arte contemporanea, numero 1, artshow edizioni, Milano, autunno 2007 (pagg.106-115).
Cesare
Il giorno Tue, 16 Jan 2018 alle ore 12:10, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
mi ha fatto piacere ricevere il tuo testo che, purtroppo, non sono ancora riuscito a leggere. È un cercare di schivare continuamente imprevisti e scadenze e tutto il resto che ben conosci, ma mi riprometto di farlo prestissimo. Nei giorni passati ho anche pensato che potrebbe essere utile leggere, piuttosto che vedere, cioè riascoltare, le registrazioni delle tue performance. Hai una trascrizione, almeno delle ultime, da farmi leggere?
Ho pensato inoltre ad una piccola serie di interventi nella quale incastonare, per così dire, la nostra conversazione: dal Museo Sperimentale di Battisti alla Casa Museo di Jorn e poi l’attività delle gallerie, la Bertesca, Saman, Locus Solus fino alla Pinksummer, e ancora qualche altra cosa, per esempio l’attività della Costa&Nolan. Tutte cose sulle quali riflettere ancora. Mi piacerebbe parlarne a voce, spero di tornare presto a Genova.
Dunque, a presto.
Roberto
Il giorno 23/gen/18, alle ore 10:33, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
Finalmente ho un po’ di tempo adatto per riflettere e scriverti. Nel tuo ultimo intervento hai raccontato della complessità, delle differenze ma anche di certe continuità tra le tensioni degli anni Settanta e l’oggi, e timidamente accennavi a un possibile spazio, nel mio lavoro più recente, per una qualche apertura verso un trascendente.
Premetto che non ho alcuna fede in nessuna dimensione religiosa costituita, continuo a sentire in me la forza del materialismo storico (anche in quest’epoca super-iper-post moderna), ma altrettanto forte sento la necessità di una spoliazione, un’accettazione radicale, un trovarsi faccia a faccia con se stessi, per quello che si è diventati, qui e ora, semplicemente, se questo è trascendenza allora sì. La chiamerei dimensione transpersonale, uscire da sé, per tornare in sé. In carne e ossa, nello spazio e nei suoni del presente, nel vuoto e nel silenzio della mente. L’indicibile si può dire.
A presto!
Cesare
Il giorno Wed, 24 Jan 2018 alle 11:34, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
d’accordo, ho forse messo troppa carne al fuoco. Anche a me la parola trascendenza incute qualche timore, così come la parola “spirituale”, credo dipenda dal fatto che esse alludono a qualcosa che va oltre il limite del conoscibile, ma spesso interpretato in senso magico-rituale o religioso. Per questo tu preferisci la parola transpersonale, ne capisco le motivazioni in un rapporto tra te e gli altri. Ma se giro la cosa dal mio punto di vista, di osservatore che guarda al mondo, sia pure quello ridotto dell’arte, che cerca di interpretare la moltitudine che abbiamo davanti, allora avverto l’esigenza di altri strumenti. La moltitudine non è la somma dei singoli, ma qualcosa di più, qualcosa di inafferrabile.
Il fallimento delle pretese della sociologia, così come dell’urbanistica, di progettare il divenire, la dice lunga in questo senso. Tu affermi che l’indicibile si può dire. Cosa intendi?
Un caro saluto
R
P.S. Grazie per i materiali che hai inviato. Mi riprometto di leggerli e ascoltarli quanto prima per introdurre delle considerazioni nel nostro scambio.
A proposito di Lippolis, nella seconda mail che gli ho inviato a metà dicembre gli scrivevo, tra l’altro: “…vorrei pensare Genova secondo un flusso temporale ma anche come uno snodo, come un luogo di raccordo e di irradiazione di idee e di persone. Mi piacerebbe che tu, se ti andasse, ci ‘accompagnassi’ a scoprire qualcosa che ritieni possa essere collocato dentro questo quadro d’interessi”.
Il giorno Wed, 24 Jan 2018 alle ore 15:28, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
Ok, d’accordo. Non disdegno affatto neanch’io la dimensione cui stai pensando. Anzi. Ricordo che Sol LeWitt aveva dichiarato che gli artisti concettuali in fondo sono dei mistici. La strategia della fuga, del nascondimento, dell’ombra indica questa direzione.
A proposito di spirituale, c’è una bella storia che ho trovato in un libro/intervista all’attuale Dalai Lama. Questa storia, che risale al 1920, viene da lui riferita al giornalista che lo interroga sulla differenza tra il vedere le cose in un modo comune e il vedere le stesse cose in un modo non comune.
Cito esattamente: “Uno stimato maestro buddhista, Serkhong Rinpoche, aveva fatto parte di una delegazione di sei persone in udienza presso il precedente, e tredicesimo, Dalai Lama. Per molti anni questo maestro aveva dedicato alla meditazione cinque o più ore al giorno. Secondo i tibetani, aveva purificato la sua mente. Cinque dei sei uomini che quel giorno avevano visto e ascoltato il Dalai Lama avevano avuto con lui un normale incontro. Pur essendo nella medesima stanza nello stesso momento, il sesto uomo, il maestro Serkhong Rinpoche, invece, non aveva visto il Dalai Lama come un semplice uomo, ma aveva scorto in lui il bodhisattva Chenrizi. E invece di conversare con il tredicesimo Dalai Lama, aveva ascoltato in lui Chenrizi mentre impartiva insegnamenti segreti intorno a una pratica di meditazione. Ciò era avvenuto mentre gli altri presenti (che non avevano purificato la propria mente) avevano visto solo un uomo davanti a loro che parlava di affari di stato. Ci possono dunque essere due modi di vedere la stessa cosa: uno è quello delle persone che hanno una comprensione pura, sviluppata mediante la pratica spirituale, e l’altro è meramente convenzionale. In questi casi particolari (eventi rari, ma importanti), entrambi i modi di vedere sono veri, entrambi sono reali, ma uno è comune e l’altro è non comune.” (da: Thomas Laird, Il mio Tibet. Conversazioni con il Dalai Lama, ed. it. Mondadori, Milano 2008, p.13).
Trovo questa storia molto illuminante anche per la questione spirituale nell’arte contemporanea, se uno ha uno sguardo allenato alla pratica riesce a vedere e a sentire che in quello che sta osservando o in quello cui sta assistendo si rivela qualcosa che tocca sfere emozionali invisibili e indicibili. Per questo affermo che in arte l’indicibile si può dire così come l’invisibile si può vedere, occorre concedersi la possibilità che questo accada. Per aprirsi a questa opportunità non comune si deve fare pratica, è una facoltà che richiede pazienza e tempo, e non si acquisisce una volta per tutte, ma si deve sempre essere disposti a ricominciare, sempre disposti a farsi meravigliare, a conservare dentro di sé la possibilità di mantenere aperto il canale emotivo e cognitivo del principiante. Certo è una forma di allenamento continuo, una forma di accettazione nei confronti del proprio perenne apprendistato. In questo senso mi sento di poter dire, senza paura di sembrare esaltato e/o ridicolo, che l’arte raggiunga un livello laico di percorso iniziatico.
Mi fermo qui per il momento. Sempre per il momento.
Il giorno Thu 8 Feb 2018, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
per dirti che mi pesa un po’ che siano passati molti giorni dalla tua mail. Scadenze, imprevisti e altri progetti cui attendere mi impediscono la solerzia che vorrei mettere nel nostro scambio. Se tutto va bene, nei prossimi giorni va in stampa City e ti scrivo.
Un abbraccio. R
Il giorno Thu 8 febbraio 2018, Cesare Viel ha scritto:
Capisco perfettamente Roberto. Non c’è problema. Le giuste conversazioni sono, o dovrebbero essere, quelle che abitano il tempo con agio, non quelle che si rincorrono nell’ansia. Queste pause fanno parte – sono momenti – del dialogo.
Un abbraccio
Il giorno Sun 8 Apr 2018 alle ore 12:47, Cesare Viel ha scritto:
Ciao Roberto,
Come stai? Spero tutto bene.
Mi mancano le nostre conversazioni via mail. Chissà se riusciamo a riprendere il filo sospeso a mezz’aria.
Ti scrivo un elenco, a cui sto pensando in questi giorni, di ingredienti per fare una performance:
A) unire quotidianità e metafisica
B) lasciare tracce di spazi tra i gesti
C) unire il lato del sé con il lato dell’altro da sé
D) non allontanare il disagio
E) fare una sosta nel vuoto
F) spostare qualcosa da qui a là
G) “qui” e “là” sono entrambi momenti del presente
H) far uscire dalla propria mente qualcosa nella realtà dello spazio
I) la realtà che riguarda l’esterno della propria mente è anche la realtà di qualcosa che entra in relazione con gli altri
L) tutto si sposta, dopo un po’
M) ancora…
A presto
Cesare
Il giorno Mon, 9 Apr 2018 alle 20:56, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
sono rientrato ieri notte da Pescara, dove per le strade un manifesto con il ritratto di Pinot Gallizio, con tanto di cappello e orecchini in stile zingaresco, annunciava la mostra di Luca Vitone. Preso tra i due, non potevo non pensare anche a te e alla nostra conversazione rimasta in sospeso.
Ed ecco che per una coincidenza dovuta a chi sa quale energia, questa mattina trovo la tua mail. Credo, dunque, di non potermi, ma neanche volermi, sottrarre a ripartire da qui.
Come avrai capito, la mostra di Luca, alla Fondazione Zimei, nostri cari amici, è incentrata sulla figura di Gallizio, il viaggio nomadico e, sullo sfondo, naturalmente, la sua partecipazione alla temperie situazionista.
Ti ho già chiesto della tua formazione, abbiamo parlato anche della tua tesi di laurea su Asger Jorn, così come a suo tempo ci siamo detti della particolare attrazione che Genova, la Liguria, ha esercitato sugli artisti situazionisti e in particolare sull’artista danese.
Ecco, vorrei ripartire da qui, dalla tua esperienza tra città, artisti e una certa tradizione, con l’obiettivo di tentare di ricostruire la genealogia che ti ha portato a privilegiare, sugli altri modi espressivi, la performance.
A prestissimo
Roberto
Il giorno Tue 10 Apr 2018 alle ore 22:54, Cesare Viel ha scritto:
Certo! Quando vuoi. Bella questa coincidenza nomadica Vitone-Gallizio.
A presto
Cesare
Il giorno Wed 30 May 2018, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
da quel che ci siamo fin qui detti, emerge, mi pare di poter dire, che il tuo lavoro si dipani attraverso una serie di temi: il diverso, l’altro ecc. ecc., come diverse facce del tuo modo di essere. Eppure, mi sembra di individuare un dato costante, come una sorta di cartina di tornasole, o se vogliamo dirla in altri termini, un sistema di verifica. Lo desumo da quel tuo intervento su “Combo”, dove unisci i tuoi interessi per la vicenda situazionista alla tua esperienza personale e familiare. Può quest’ultima rappresentare il centro di controllo e verifica di quanto vai facendo?
Il dare parola agli altri, penso alla forma-inchiesta che hai utilizzato nelle prime performance, non era comunque un modus per verificare te stesso? Insomma, non potremmo dire che il tuo Io, il soggetto creatore, trovi una ragione nel rapporto con l’altro, dentro la genealogia della creazione artistica, che potremmo considerare un qui fuso con l’altrove?
Il giorno Mon, 4 Jun 2018, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
sì, per me il soggetto è già da subito relazionale. Fin dalla nascita siamo in relazione con gli altri, reali o immaginari, presenti o trapassati. Il nostro stesso nome di battesimo, che ci identifica così profondamente, è stato stabilito da altri, prima di noi. Il nostro è un processo di adattamento continuo, una “infinita ricomposizione”. Siamo attraversati dagli altri; identità plurali già da bambini, circondati da un teatro performativo di voci, presenze, affetti e gesti. Il processo artistico può e deve affrontare questa dimensione della pluralità, nel divenire dei linguaggi e delle pratiche espressive.
Il giorno Mon, 9 Jul 2018 alle 13:03 Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
gli eventi che si sono succeduti in questi ultimi mesi mi hanno letteralmente travolto. Dopo mesi di preparazione per dare seguito ad una decisione presa non dico con leggerezza ma con una certa velocità, stiamo per andare ad abitare in una nuova casa. Non solo, ma abbiamo deciso di trasferire anche lo studio in un altro appartamento più grande e più vicino al nuovo luogo di residenza. Fatti straordinari che, come puoi immaginare, lasciano un segno profondo. Se un trasloco è uno degli eventi più traumatici nella vita di un adulto, due assieme sono un delirio.
Ecco, stiamo vivendo il nostro delirio.
Questo per spiegarti l’incapacità/impossibilità di portare avanti la nostra impegnativa conversazione. Impegnativa, dico, perché cercava le ragioni culturali del fare fuori dalla dimensione storico-cronachistica.
In queste ultime settimane ho provato a rileggere quanto ci siamo scritti, e penso che possa avere non dico una esaustività ma sicuramente una sua ragione, una sua unità.
Ora, dal momento che abbiamo rimandato l’uscita del fascicolo previsto per giugno/luglio a ottobre/novembre, ti proporrei di rivedere assieme quanto ci siamo fin qui detti e di prendere in considerazione la mia proposta di inserire immagini e alcuni brani scelti da tuoi scritti. In tal modo, potremmo pensare di pubblicare il tutto per il prossimo numero, a inizio della nuova stagione.
Che ne dici?
A presto
Roberto
Il giorno Tue, 10 Jul 2018 alle ore 10:41, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
Ah! I traslochi! Come vi capisco. Sono nuova fonte di energia, ma anche grandi passaggi di stress acuto, veri e propri lutti.
Alla fine del tunnel comunque c’è la luce. Ci siamo passati anche noi, qualche anno fa, e me ne ricordo ancora.
Per venire a noi: buona idea quella che mi proponi, sono d’accordo. Il nostro ragionar per mail in fondo può essere letto e pubblicato come uno spaccato di una serie di riflessioni in corso, una finestra che si apre sul divenire di un lavoro in atto. Per il num di ott/novembre assolutamente.
A presto dunque.
E buon trasloco.
P.S.: Di Chandra Livia Candiani, una poetessa milanese, è uscito da poco per Einaudi il suo ultimo libro di poesie Fatti vivo. Afferma: “Scrivo per abitare, leggo per traslocare”, mi sembra che ci riguardi a pieno, in tutti i sensi. Non trovi?
Cesare
Il giorno Thu, 12 luglio 2018 alle ore 10:20, Roberto Lambarelli ha scritto:
Caro Cesare,
quello che dici mi conferma l’idea che mi ero fatto sul senso del tuo lavoro, un work in progress di un essere percettivo in cerca di un possibile in-quadramento, fosse anche estetico, dell’indeterminatezza del divenire alla quale siamo legati.
Devo confessarti, però, che in questa fase, sempre più spesso, avverto il fascino di un approdo sicuro. Sento con sempre maggiore chiarezza la contraddizione che viviamo, come condannati alla libertà.
R
Il giorno Wed, 3 Oct 2018 alle ore 17:41, Roberto Lambarelli ha scritto:
Ciao Cesare,
dopo faticose vicissitudini, finalmente sono in grado di riprendere in mano il nostro progetto.
Nei prossimi giorni vorrei fare una revisione del nostro scambio, sono circa venticinquemila battute che reggono bene una decina di immagini. Vorrei scrivere anche un’intro e inserire come ti ho già scritto una serie di stralci di tuoi scritti e/o testi performativi.
Parlando con Daniela è anche emersa l’idea di dedicare la copertina al nostro progetto. Saresti disponibile a fare qualcosa per noi?
Un caro saluto
Roberto
Il giorno Wed, 3 Oct 2018 alle ore 19:02, Cesare Viel ha scritto:
Ciao!
Intanto solo per risponderti che sono molto felice. Mi fa molto piacere il tutto, e anche per la copertina.
In questi giorni allora mettiamo a punto insieme le cose: impostiamo quali testi abbiamo in mente e quali immagini… Per la copertina avevate pensato a qualcosa in particolare?
Insomma, a presto!
Cesare
Il giorno Fri, 12 Oct 2018 alle ore 09:46, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
se parto dalle immagini (del mio lavoro, intendo) salta fuori una direzione, se parto dalle parole (legate a una logica analitica e descrittiva) ne viene fuori un’altra. Come fare a procedere tenendo insieme le parole e le immagini? O non è forse piuttosto un falso problema? Quando pensi e scrivi non è forse sempre così? Qualcosa emerge da un fondo: un po’ immagine, un po’ parola, soprattutto una sorta di materiale emozionale composto di entrambe. Eppure a volte sezionare è molto utile. Dividere, analizzare. Bello quando, a forza di dividere e di analizzare, si percepisce una fessura da attraversare. È quella la giusta direzione?
A presto
Cesare
Il giorno Sun, 14 Oct 2018 alle 22:22, Roberto Lambarelli ha scritto:
Non so se colgo il senso di quello che dici affermando che si potrebbero pensare tutte le forme, tutti i linguaggi, come l’espressività del lavoro d’arte, nella sua eccedenza che si pone oltre ogni logica.
E se si potesse partire nelle due direzioni allo stesso tempo? Mi viene in mente Logica del senso, laddove parla del paradosso e della sua capacità di andare al contempo in due direzioni opposte. Non è questo uno dei congegni usati dagli “avventurieri della superficie” che, come sanno i deleuziani che hanno fatto di Logica una lettura professionale, sono l’Alice carrolliana, lo stoico e il monaco zen, quello stesso che mi hai ricordato ad un certo punto? Il paradosso non fa parte della tua procedura?
L’elenco/regesto, dunque, potrebbe avere questa qualità, quella di aprire a un esito imprevedibile, ma, mi rendo conto, anche quella inversa di chiudere il tuo lavoro dentro un dispositivo angusto, riduttivo.
Forse è un rischio che vale la pena di correre.
A presto
R
Il giorno Tue, 16 Oct 2018 alle ore 14:05, Cesare Viel ha scritto:
Caro Roberto,
come in un Kōan Zen, è nel paradosso la giusta soluzione. Ciò che ti sveglia la notte senza preavviso e fa emergere il modo, l’unico veramente credibile per te, con il quale affrontare tutta la questione che stagnava come una palude. È lì, in quel luogo buio e impensabile fino a quel momento, che nasce proprio ciò che cercavi. E che ti fa dire: ciò che cercavo mi cercava. Un cortocircuito, una scossa, un rovesciamento, una deriva, uno spiazzamento. Trovarsi per terra senza capire come e perché sia stato possibile.
A proposito della copertina: ti propongo un nuovo disegno nato dal crollo del Ponte Morandi, a Genova quest’estate.
Questa immagine emblematica, e ormai nota, è emersa in tutta la sua forza. Il camioncino della Basko, che si è fermato a pochi metri dal vuoto. Succede che la mia attività disegnativa si risvegli, a intermittenze, in particolari circostanze storiche di traumi collettivi. Mi era già accaduto nel 2001 con il G8 di Genova e con l’11 settembre (da cui era nata la serie Thank you Emily del 2002, dedicata all’intreccio tra i fatti di cronaca apparsi sui giornali e la poesia visionaria e profetica della Dickinson), poi ancora nel 2004 con la seconda guerra del Golfo (da cui era partito il progetto di disegni e citazioni Diario contemporaneo), e via così fino ad arrivare all’oggi col crollo del Ponte Morandi, e con esso di tutta una storia recente del nostro Paese.
Insomma, il disegno in me si attiva spesso con il precipitare di un evento traumatico. Come se un filo sottile, ma determinante, emergesse fra il bisogno di tracciare una linea di matita e la sproporzione del dramma. La fragilità e la leggerezza del disegno si associa all’estrema vulnerabilità della vita, che si percepisce improvvisamente nei momenti più drammatici. In questa relazione impossibile vedo una verità, una sorta di necessità. Il disegno come un momento significativo di elaborazione del lutto.
A presto,
Cesare
CESARE VIEL VERSO JORN. 2016
Testo della performance. Audio: durata 15’23”
Tutto incomincia nel buio. Così come tutto ritorna nel buio. È stato detto: fiat lux. Ma prima della luce era il buio. Così come prima e dopo i suoni, prima e dopo una voce che canta o che parla, si apre il silenzio.
Dunque, tutto incomincia, e ritorna, nel silenzio e nel buio. Sempre.
Perché questo buio? Questa ondata di buio?
Mi è parso di sentire anche un sibilo? Come un richiamo. O un respiro che va e viene.
Ci vedi? Ci vedi?
Non so perché sono qui. Per ora ascolto nel buio. Provo ad ascoltare i passi della mia mente. Come un piccolo rumore che torna. Un movimento di qualcuno che incomincio a sentire molto lentamente, molto lentamente, con cautela. Come un animale impaurito, un animale che si sente fuori posto.
Sicuramente sono più di uno qui. Più di uno. Li sento. Sono seduti o in piedi. Appoggiati. In piedi.
Provo a guardare e a scavare se mi riesce dentro quest’aria buia.
Prova a scavare nel buio.
Non è tanto una questione di volontà. Forse è piuttosto una spinta fisica da dentro, una spinta interna, forte, dura.
A terra. Una mossa che si libera ed esce fuori. E lascia uscire una parte del corpo. C’è un’energia nelle vene che pulsano, nei polsi, nelle tempie. Tutto batte, e trema, tutto respira, e vibra.
Se ti fermi, lo senti di nuovo. Lo vedi? Lo vedi che tutto si ferma nell’oscurità? Non è vero.
Forse non è così vero che ogni cosa si debba fermare per forza nell’oscurità.
C’è sempre un sibilo, ad esempio. Resta sempre come la coda finale o l’inizio di un gesto, una striscia d’aria che si sposta.
A volte vedo, ogni tanto, solo ogni tanto a intermittenza, o meglio immagino di vedere, sopra la mia testa, una specie di grande disco, una cometa, una circonferenza irregolare in alto nel muro, sopra la mente, un disco con delle forme azzurre, verdi, anche bluastre, ogni tanto spunta del rosso dal disco, o dalla mia mente, anche del turchese, e del nero a puntini, a pezzi, anche del rosso scuro, quasi marrone, poi del verde acido, del giallo, e poi di nuovo del nero e del celeste. Di nuovo delle macchie che saltano sopra le teste, come dei piccoli mostri, delle maschere con strani occhi vivi che spuntano e balzano in avanti e ridono, e ridono e fanno le smorfie. E scappano. E corrono, corrono via.
Forse siamo nel fondo di un’altra stanza. Forse non siamo neppure in questa stanza. È come se questa stanza fosse più profonda del normale, più profonda del necessario.
Come se ci fosse un secondo pavimento più in basso, su un piano più sotto, più in basso. E noi fossimo sospesi tra due livelli del pavimento. Vado a tentoni, tastando tutte le possibilità, provando e riprovando. Si tratta di fare esperienza del pavimento, così come delle pareti qui intorno e qui dentro. Sto parlando di pareti e di pavimenti, ma potrei anche dire “lati della testa”: lato destro, lato sinistro, parte frontale, eccetera, eccetera, eccetera.
Prova a sdraiarti lentamente, con cautela, a girarti, verso dove?
Prova a scavare di nuovo con le dita questo livello più sotto, più giù, più giù.
Prova, prova, ancora. Ascolta con le mani. Con le dita. Ascolta con le dita. Muovi le dita, le gambe, muovi la testa sulle mattonelle.
Fanno come una piccola musica, che si ripete.
Una musica che si ripete. Ti aiuti con una luce? Talvolta appare. Questa luce intermittente, come un lampo. La scossa elettrica di un’emozione, di un’idea. Ma subito svanisce. E resta una traccia.
Come un animale impaurito in un angolo, o un bambino in attesa di un segnale.
Una piccola luce, un’ostinata presenza. Una piccola musica, talvolta un piccolo gesto, un movimento verso il basso, ma anche in direzione laterale, o verso l’alto. Una curva, una linea.
Sono pochi gesti oscuri, imbarazzati nel buio.
Scaviamo nell’aria buia. Con le dita.
Come in un sogno lucido e scuro, solo a tratti illuminato da cocci.
Cocci sul pavimento. Vedo frammenti, pezzi di luce, pezzi di mattonelle di ceramica. Qualcuno li ha portati, da lontano, da molto sotto, da molto tempo fa, da un’immensa lontananza che vibra però adesso fino a qui. Qualcuno che c’era, che è stato qui, molte volte qui, seduto in questa stanza, o in piedi, con altri, amici, famigliari, stranieri. Nel corso del tempo.
Era qui, anni fa. Ho sentito dire molto di lui.
Un artista venuto da lontano, da un paese più piatto di questo qui, pieno di vento, un paese con una luce diversa da questa, una luce più orizzontale, no anzi forse anche più verticale di questa qui.
Ora è un’assenza, ma così presente. Nei frammenti, nel buio, nella luce, nei cocci. Cerco di immaginare una nuova disposizione dei cocci che prenda spazio nella stanza, ma senza troppi intenti.
Deve essere naturale così come un respiro, una forma in divenire non rigida, che prenda spazio poco a poco, in silenzio, come una pianta, come una radice che si muove lentamente, con cautela a seconda dei raggi di luce, a seconda dell’umidità e del vento e del respiro.
Bisogna sempre ascoltare lo spazio tra un coccio e l’altro.
Qualcosa che vedi e svanisce, che passa e ritorna ma diverso.
Ancora la mente immagina e sogna, e mi accorgo che fuoriesce come un torrente che si perde nei campi, e dilaga.
Pensavo di fare una mappa di tutto questo processo, ma i confini di questo disegno non mi sono chiari, si perdono sempre di più, si disfano, vanno alla deriva. È impossibile, me ne accorgo ora, fare una mappa razionale, esauriente di questi strani movimenti a tentoni nel buio, qui.
Insomma, non mi riesce di fare una mappa di questa stanza, tanti sono i livelli che si accavallano l’uno sull’altro, una stratificazione contraddittoria delle emozioni. Forse posso fare una mappa che impazzisce, che salta, una mappa che respira, rantola e tossisce. E forse anche che canta.
Posso spostarmi verso qualcosa, o qualcuno, come un punto del desiderio, un punto mobile nel buio, un altrove che non vedo ancora, che non è ancora apparso all’orizzonte, in questo orizzonte. Tutto tende a sfuggire in un punto immaginario. Verso Jorn.
Provo, provo a tenere questo punto, a tenere questo gesto nella mia memoria. Provo a spostarmi in quel punto.
Sentire la superficie implacabile del pavimento. Un pezzo sull’altro. Uno strisciare ai bordi.
Forse è meglio aspettare. Che questo sogno si svegli, di nuovo. Tutto da un lato.
Non occorre fare tutto subito. Meglio agire con calma. E aspettare che il sogno arrivi quando vuole, quando trova il momento opportuno.
Meglio farsi trovare impreparati, meglio se all’improvviso, senza progetto, senza previsioni. Sì, è una mappa imprevista, invisibile, fatta di polvere, terriccio, di rimasugli e residui. Una mappa del perdersi.
Come frasi perdute. Sono pezzi che ho spostato.
Siamo questo sogno qui, adesso.
Siamo così sperduti in questo spazio, così lontani qui in questo punto buio.
Siamo qui. Verso Jorn.
È finita. Grazie. Uscite.
Arte e Critica, n. 92, autunno 2018, pp. 40-55.