Massimo Mininni: Rachel Monosov, sei nata a San Pietroburgo nel 1987 ma vivi e lavori a Berlino e sei descritta come un’artista poliedrica. I tuoi progetti spaziano dalla fotografia al video, dalla scultura alla performance.
Tutto il tuo lavoro, soprattutto la pratica performativa, si basa sulla ricerca e la verifica dei limiti umani di alienazione in diverse circostanze. Sperimenti e rifletti sulle radici sociali della “vera libertà” e della sua importante espressività. Nella regia delle tue performance si sovrappongono e si intrecciano episodi biografici con fatti sociali, politici e artistici delineando di fronte a noi una nuova figura, un’artista che compone la scena con tutte le modalità linguistiche che ha a disposizione. Stiamo andando contro le categorie di genere?
Rachel Monosov: Qualunque sia il mezzo espressivo utilizzato, che si tratti di fotografia, performance o film, per me resta solo un mezzo di ricerca per sviluppare l’idea che ho in mente. In un certo senso arriva sempre a un significato univoco: un concetto all’interno di una forma specifica di cui non voglio avere il controllo completo. Alcune idee vengono chiaramente espresse meglio attraverso il video, altre è più interessante indagarle e risolverle attraverso la performance. Penso che il tentativo di classificare gli artisti in base al mezzo e lo stile che usano sia un’usanza molto diffusa nel mondo dell’arte e in generale.
Resta ovviamente un posizionamento interessante per il riconoscimento dell’artista, ma nel caso della mia ricerca non è quello per cui il mio cuore batte. Mi piacciono le sfide, mi piace provare mezzi diversi, a volte fallendo e altre volte raggiungendo l’obiettivo. Mi piace molto raggiungere un risultato attraverso l’unione di vari mezzi. Ad esempio elaborare una performance e utilizzare nello stesso progetto anche il video, combinando le varie forme espressive. A volte documentando una performance che non può essere stata vista dal vivo, o presentare la stessa come un’opera fotografica, come ho fatto nel caso del progetto 1972, in collaborazione con l’artista Admire Kamudzengerere. La vita di un artista è una cosa unica nel suo genere in quanto abbiamo la libertà di sviluppare le nostre idee come vogliamo, qualunque sia la forma di espressione che abbiamo scelto. Per me è molto importante essere totalmente libera in questo.
Suppongo che nel corso degli anni, attraverso la mia formazione e la mia crescita, nel cinema come nell’arte e nella fotografia, ho ampliato i mezzi espressivi e imparato a usare meglio i vari strumenti.
MM: Nel corso della tua carriera artistica hai progettato mostre/performance di natura molto diversa tra loro. Per il Palazzo delle Esposizioni di Roma hai realizzato, il 14 dicembre del 2019, Olympia, performance ispirata al film omonimo di Leni Riefenstahl del 1936. Qui i corpi si muovono con un dinamismo controllato e disciplinato trasformandosi in sculture dalla grande potenzialità simbolica ed espressiva.
C’è anche in questo lavoro un filo conduttore che unisce tutte le tue esperienze? Possiamo rintracciare una poetica che ti caratterizza indipendentemente dal tipo di performance che metti in scena?
RM: Il mio lavoro generalmente scaturisce da questioni politiche e sociali che sono importanti per me e in seguito si assesta verso una forma più poetica. L’opera in sé, la sua estetica, così come i display utilizzati, sono abbastanza lontani da una forma politica. Passano solitamente attraverso un filtro, ma tutto resta connesso ad aspetti della mia vita o a eventi di attualità. Olympia, ad esempio, è una riflessione sul razzismo, non inteso solo come antisemitismo, ma sui princìpi della razza in generale. La mia intenzione era di tornare al 1936 e rielaborare il film Olympia, partendo dall’ammirazione verso il corpo candido, che riporta subito la mente alle sculture romane di età classica.
Trovo alquanto sorprendente il fatto che la conversazione su questo argomento ancora oggi sia purtroppo molto rilevante. Da un lato sento che la storia potrebbe ripetersi. Quindi c’è sicuramente un filo conduttore che porta a quelle tematiche, in termini di preoccupazione reale ma anche in termini di origine concettuale, da cui prende forma il lavoro.
Un altro aspetto che mi interessa è la collaborazione con ballerini professionisti. In ogni opera il fil rouge che tiene tutto unito è il controllo del movimento. In Olympia tutto è basato su questo controllo, sincronizzato, tagliente e preciso. Il movimento in The Blind Leader, un lavoro successivo, è molto simile in un certo senso. Ci sono oggetti fisici che ho costruito, come una gabbia o due piante di cactus a poca distanza tra loro, attraverso cui deve essere posizionata e tenuta la mano di un performer. Di nuovo, ritorna questo controllo estremo del movimento attraverso un oggetto che ne limita la libertà.
In questo senso, sono tutti concetti simili espressi attraverso forme diverse.
MM: Recentemente, il 22 febbraio scorso, hai realizzato Liminal – la prima mostra online che l’Accademia Tedesca di Roma Villa Massimo ha commissionato a un’artista. L’idea è nata per dare una efficace risposta in questi tempi di pandemia all’impossibilità di realizzare eventi in presenza.
Per questa occasione hai pensato a tre performance che si svolgono nelle sale espositive dell’Accademia Tedesca e che si possono vedere esclusivamente in digitale. Che cosa ci raccontano questi nuovi lavori? Come è cambiata, per te, la pratica della libertà espressiva e gli aspetti dei nostri stati d’animo e psichici in questa situazione di auto confinamento? Hai trovato delle limitazioni nell’uso del nuovo format?
RM: Abbiamo aperto ufficialmente il progetto online Liminal il 23 febbraio, nato come soluzione a una produzione impossibile da mettere in scena dal vivo. Il progetto originale prevedeva una mostra personale nelle sale di Villa Massimo pianificata per circa un anno con Julia Trolp, curatrice dell’opera, e con Julia Draganović, direttrice di Villa Massimo.
A causa della pandemia, ci siamo resi conto che non ce l’avremmo fatta ad aprire al pubblico perché il pubblico non sarebbe stato ammesso, quindi la prima valutazione è stata quella di posticipare e presentare la mostra in un secondo momento, magari in estate. Tuttavia, come artista che vive questo momento, con tutte le complessità di questa situazione, volevo davvero riflettere in modo creativo e ho pensato che sarebbe stato un errore aspettare che tutto tornasse alla normalità. Volevo concentrarmi su quello che sta succedendo a livello globale, e l’unica via concessa era di farlo online. Non avevo mai creato una mostra online prima, tantomeno una performance, che si basa sulle visualizzazioni web, quindi già questa era di per sé una nuova sfida. Stiamo tutti affrontando delle sfide in questo momento: economicamente, esistenzialmente, politicamente.
Ho iniziato così l’elaborazione del progetto chiedendo ad alcuni amici e alle persone a me vicine cosa pensavano di questo momento e come avrebbe potuto influenzarci nel futuro, in un breve e lungo termine. Ho ricevuto molti testi ed e-mail interessanti per la mia ricerca, e questo è stato il punto di partenza: utilizzare i sentimenti e gli stati d’animo di chi mi è vicino per elaborare la performance. Successivamente siamo passati al lavoro con i performer, Rachell Bo Clark e Stephanie Amurao.
Ci sono molte domande poste in questo lavoro ma non si basano in alcun modo sul fornire delle risposte. Penso che lo stato d’animo che viviamo ora ci spinga a mettere in discussione tutto, dal nostro rapporto con la natura, a noi stessi e gli altri. Questa sorta di panico volevo si trasformasse in qualcosa di meditativo, così in una delle stanze, la Numero 2, abbiamo sperimentato questa lunghissima meditazione con una colonna sonora di sottofondo il cui testo è composto da domande. Penso che da questo stato di riflessione interiore potremmo trovare le nostre risposte piuttosto che attraverso l’ansia da cui scaturiscono.
L‘unico limite del progetto è che alla fine tutto si esprime attraverso un’opera video. Ma non si sarebbe mai potuta trasformare in un’esperienza di performance dal vivo, dove sarebbe stato possibile vedere e annusare i corpi di fronte a noi. Per questo motivo ho lavorato con i ballerini sin dal principio del progetto, con la consapevolezza che questo doveva essere un lavoro video e non la documentazione di una performance. Sin dall’inizio abbiamo considerato che doveva essere una performance per la telecamera, il che significava che sarebbe potuta essere manipolata e modificata in seguito.
Traduzione di Emma Hedley
Marzo 2021
Massimo Mininni: Rachel Monosov, born in St. Petersburg in 1987, you now live and work in Berlin. Described as a multifaceted artist, your projects include a wide range of media, including photography, video, sculpture and performance.
All of your work, especially your performative practice, is based on research into and the verification of the human limits of alienation in different circumstances. You experiment and reflect on the social roots of “true freedom” and its expressive significance. In the artistic direction of your performances, biographical episodes overlap and intertwine with social, political and artistic realities, profiling a new figure before our eyes: that of an artist who composes a scene with every expressive means at her disposal. Are we going against gender categories?
Rachel Monosov: Whichever media I use, whether it’s photography, performance or film, it’s just a toolkit for researching and working out the idea that I have in my mind. It kind of arrives altogether: a new concept within a specific form, which I don’t really have control over. Some ideas for me will clearly be better expressed through film and some will be more interesting to investigate and work out through performance. I think that attempting to categorise artists by medium and style is very common, in the art world and in general.
It’s also very appealing of course, for artist recognition and so on, but for me personally, it’s not what my heart beats for. I like challenges and trying out different things, sometimes failing and sometimes succeeding in various media. I also like when things are merged. For example, creating a performance and also working in cinema, and combining them. Perhaps documenting a performance that has never been viewed and exhibiting it as a photographic work, as I did in 1972, my collaboration with artist Admire Kamudzengerere. The career of the artist is such a unique thing, in that we have the freedom to generate our ideas in whatever form we want. For me, it’s very important to let myself really be free here.
I guess also through the years and through my education, in cinema, fine art and photography, I enriched the toolkit and learned better how to use these tools.
MM: During your artistic career you have created many exhibitions/performances that differ greatly in nature. For the Palazzo delle Esposizioni in Rome, on the 14th of December 2019, you created Olympia, a performance inspired by the homonymous film of 1936 by Leni Riefenstahl. Here the bodies move with a controlled and disciplined dynamism, transforming themselves into sculptures with great symbolic and expressive potential.
Is there a common thread in this work that unites all of your experiences? Could one identify a poetic fil rouge that characterizes you regardless of the type of performance you stage?
RM: My work generally stems from concerns about political and concrete issues which are important to me and then moves towards the poetic. The work itself, its aesthetics and display, is quite far removed from that of a direct political statement. It goes through a filter, but it all has a connection to aspects of my life or to current events. Olympia, in a sense, is really a reflection of concerns about racism and not just antisemitism in particular, but racism in general. I wanted to go right back to 1936 and review this film, along with the admiration of the white body, which resonates with the classic Roman sculptures.
I find it quite striking that the conversation about this is unfortunately still very relevant today. With a glimpse, you feel that history could repeat itself. So there is certainly a connecting thread there, in terms of conceptual concerns and origins, where the work comes from.
Another thing is the way that I work with the dancers. In each piece, if there is something returning, then it is the control of movement. In Olympia,it is very controlled movement, very dictated, synchronised, sharp. The movement in The Blind Leader, a later work, is so similar in a sense. There are physical objects that I built, such as a cage or two cactus plants with a little space between them through which the hand of a dancer should be placed and held. Again, there is this outside control, through an object that prevents free movement.
So in this sense, it’s similar concepts passing through different forms.
MM: Recently, on the 22nd of February 2021, you created Liminal – the first online exhibition that the Accademia Tedesca di Roma Villa Massimo has ever commissioned of an artist. The idea was born of the desire to offer an effective response to the impossibility of attending artistic events in person due to the pandemic.
On this occasion, you created three performances envisioned for the exhibition halls of Villa Massimo that could be viewed exclusively through digital platforms. What do these new works tell us? How have the practice of free expression and the aspects of our psychological states and moods changed for you in this situation of self-confinement? Did you find any limitations in the use of the new format?
RM: We opened Liminal online officially on the 23rd February and this project actually came about as the solution to an impossible production. The original plan was for a solo show in the gallery of Villa Massimo. This was planned in advance for almost a year with Julia Trolp , the curator of Liminal, and Julia Draganović, the director of Villa Massimo.
Because of the pandemic, we realised that we couldn’t make it because people would not be allowed into the gallery, so the first idea was to postpone and present the show later, in the summer. However, as an artist living through this moment, with all the complexities of this situation, I really wanted to reflect on it in a creative way and felt it would be a mistake to wait until everything was back to normal again. I wanted to reflect on what’s happening in whatever way I can, and for now, this means doing so online. Before this, I had never created an online exhibition or composed a performance for web viewing, so this was already a new challenge in itself. We are all facing a lot of challenges right now: economically, existentially, politically.
I started the creation process by asking friends and people close to me what they think about this time and situation, how it might influence us in the future and in the long-term. I received a lot of beautiful texts and emails, and this was my starting point, to use the feelings and states of those close to me to write the performance. And of course then it went to workshopping with the dancers Rachell Bo Clark and Stephanie Amurao.
There are a lot of questions in this work and it is not in any way trying to provide answers. I think that the state we’re living in now is pushing us to question everything, from our relationship with nature, with ourselves, and with others. This sort of panicky mood I wanted to transform into something meditative, so in one of the rooms, Number 2, we experience this very long meditation with a song in the background, and the text is just question after question, and I think that from this state of inner reflection we might find the answers instead of through anxiety.
Of course the limitation is that at the end of the day it becomes a video work. It was never going to be a live performance experience, where you can see and smell the body right in front of you. To this end, I worked with the dancers from the beginning, with the awareness this was to be a video work and not documentation of a performance. It was to be a performance for the camera, which meant that it could be manipulated and edited later. This was taken into consideration from the start.
March 2021