Studio Visit e TARWUK alla Collezione Maramotti

PUBBLICHIAMO UN TESTO CHE PRENDE SPUNTO DA DUE MOSTRE VISIBILI PRESSO LA COLLEZIONE MARAMOTTI DI REGGIO EMILIA FINO AL 20 FEBBRAIO 2022. DA UN LATO VIENE APPROFONDITA LA PRATICA DI TARWUK, INTESA COME INCESSANTE METAMORFOSI, PARTENDO PROPRIO DALLE SCULTURE DELLA PERSONALE ANTE MARE ET TERRAS. DALL’ALTRO SI RIFLETTE SU QUANTO MESSO IN CAMPO DALLA COLLETTIVA STUDIO VISIT. PRATICHE E PENSIERI INTORNO A DIECI STUDI D’ARTISTA, NATA DALLA COLLABORAZIONE CON ANDY CROSS, BENJAMIN DEGEN, MATTHEW DAY JACKSON, MARK MANDERS, ENOC PEREZ, LUISA RABBIA, DANIEL RICH, TOM SACHS, TARWUK, BARRY X BALL E DEDICATA ALLE LORO IDEE DI STUDIO. 

Ovidio descrive il Caos primordiale come una materia informe, grezza e confusa; prima del mare, della terra e del cielo erano le sole vesti con cui la Natura poteva mostrarsi. Ante mare et terras, appunto «prima del mare e della terra», è il titolo della mostra che il duo TARWUK (Ivana Vukšić & Bruno Pogačnik Tremow), artisti croati ma newyorkesi d’adozione, presenta alla Collezione Maramotti offrendo una complessa riflessione sul corpo e sulla transitorietà della condizione umana.
Caos, instabilità, mutazione, queste le caratteristiche della materia che vivifica le loro sculture realizzate con una resina epossidica ad asciugamento rapido, materiale simile alla creta, in un processo creativo che vive di dialogo, estemporaneità e germinazioni verso forme e combinazioni inconsuete. La transitorietà è la dimensione di vita di queste sculture simil-organiche in cui permangono elementi antropomorfi, inquietanti nella misura in cui appaiono come tracce di una civiltà passata che potrebbe essere proprio la nostra vista dal futuro.
Le sculture, come anche i disegni esposti, rappresentano corpi che vivono conflitti, tensioni (incide in ciò anche il vissuto personale degli artisti, cresciuti durante la guerra serbo-croata): nelle opere su carta il segno è sempre teso, nervoso e in contrapposizione con un trattamento più morbido, quando presente. Nelle sculture la materia è brulicante, grezza, a volte lacerata, come in una stratificazione pittorica di natura informale.
«Sentiamo che il nostro lavoro si svolge principalmente nella costruzione del legame/relazione/condizione che chiamiamo TARWUK. È questa L’Opera», così gli artisti definiscono il loro modus operandi nell’intervista con Bob Nickas che verrà pubblicata a breve nel catalogo della mostra, dove ci sarà anche un testo di Mario Diacono. Una pratica che è dunque concepita come incessante metamorfosi, di cui si possono presentare come degli «stadi evolutivi» di una catena di sviluppo; dove una concrezione rimanda appunto all’altra e in questa catena evolutiva esiste un lato nascosto, sommerso, che vive parallelamente a quello «visibile» e che silenziosamente lo alimenta. La produzione di TARWUK è infatti caleidoscopica e interconnessa nelle sue diverse sfaccettature (di cui molte non hanno come destinazione finale lo spazio espositivo in quanto frutto di una pura necessità creativa): dal disegno alla performance, dalla pittura all’assemblaggio/scultura, dalla produzione di film a quella editoriale di fanzine e pubblicazioni alternative, il loro è essenzialmente un approccio dove arte e vita coincidono muovendosi secondo pulsioni inconsce, irrazionali.
Osservando le sculture presentate si ha appunto la sensazione di trovarsi di fronte a delle rappresentazioni che sembrano offrirsi come tracce di una civiltà scomparsa: agglomerati di resina, oggetti di vario tipo e detriti industriali che cercano sempre di stabilire un contatto, di entrare in connessione con l’esterno, come ad esempio in Tužni Rudar (2018) ove vediamo una figura per metà uomo per metà pesce, che si guarda allo specchio, specchio cui è letteralmente ancorata attraverso dei cavi di acciaio connessi a delle protuberanze che ricordano delle pinne. La presenza dello specchio ha il potere di espandere la percezione dell’opera aprendola al presente senza tuttavia spegnerne l’enigma racchiuso all’interno.
Alla connotazione archeologica di questi assemblaggi fanno eco delle azioni condotte in passato dagli artisti per creare una forma di connessione con il tessuto urbano, ossia il nascondere delle loro produzioni in cantieri edili o tra le pieghe della città come modalità per esplorare e mappare il territorio. È come se la loro produzione volesse inserirsi in un meccanismo più grande e complesso di stratificazioni che è sostanzialmente il passato, l’eredità culturale che incide sul nostro modo di guardare e concepire le cose. Per loro questo passato non è altro che una radice europea e più specificatamente croata, eredità scomoda, fatta di conflitti e contraddizioni che purtroppo ancora oggi infestano gli animi, ma che nell’arte possono trovare una loro risoluzione proprio nell’offrirsi alla riflessione collettiva.
Il duo TARWUK è presente anche nella collettiva Studio Visit (entrambe le mostre sono visitabili fino al 20 febbraio). Studio Visit ha voluto offrire a dieci artisti presenti in collezione la possibilità di ricreare all’interno dello spazio espositivo una dimensione di studio e di ricerca, proprio nel tentativo di raccontare la complessità della dimensione creativa.
Entrare in uno studio d’artista significa varcare la soglia di uno spazio intimo, per certi versi sacro. Da un lato per un artista potrebbe essere complesso aprirsi a uno sguardo esterno in un momento in cui le proprie riflessioni sono ancora in fase embrionale, dall’altro la necessità innata di razionalizzare e di decodificare potrebbe portare chi vi entra a forzare la lettura degli elementi messi in campo. Esplorare queste aree liminari rappresenta un equilibrismo non affatto semplice.
A fare da intro generale all’intero percorso l’opera Sineddoche (1976) di Claudio Parmiggiani. Una riproduzione di un celebre dipinto di Dosso Dossi raffigurante Giove mentre dipinge delle farfalle fa da contraltare a una tela reale, con sgabello, tavolozza e pennelli, sulla quale sono appunto dipinte delle farfalle. Parmiggiani – artista di punta della collezione permanente per la monumentale scultura Caspar David Friedrich – inducendo a riflettere sulla pittura, e più in generale sull’arte come metalinguaggio, apre le danze agli artisti invitati, Andy Cross, Benjamin Degen, Matthew Day Jackson, Mark Manders, Enoc Perez, Luisa Rabbia, Daniel Rich, Tom Sachs, TARWUK, Barry X Ball, per poter a loro volta ricreare forme di rappresentazione attraverso cui raccontarsi e raccontare la propria pratica di lavoro.
Alcuni artisti si sono concentrati in maniera più diretta sul proprio spazio operativo, nel tentativo di ricostruirlo o decostruirlo, espanderlo o comprimerlo, registrarne i mutamenti o restituirlo in maniera metaforica spiegandone le regole; un coup de foudre la soluzione scelta da Tom Sachs: la proiezione del video Ten Bullets (un vero e proprio manifesto, un codice di comportamento da rispettare per chi varca la soglia dello studio di un artista) introdotta da oggetti e pubblicazioni che ne evocano la ricerca. Mark Manders mette in scena uno spazio di lavoro, ed è uno spazio che, come la sua ricerca, vive di sedimentazioni: materiali e oggetti in fieri delimitati da una tenda che incrementa la sensazione di transitorietà; il duo TARWUK racconta principalmente i vari studi occupati nel tempo a New York attraverso una serie di fotografie raccolte in una scatola, al visitatore la libertà di prenderle e visionarle entrando in una dimensione molto privata, dove arte e vita coincidono.
Altri artisti si sono invece indirizzati verso un disvelamento più marcato dei propri processi creativi, come Daniel Rich, che attraverso un dipinto che ritrae Torre Velasca ne ripercorre lo sviluppo, presentando bozzetti e schizzi attraverso cui emerge la sua profonda e accuratissima ricerca cromatica. Un’occasione, questa mostra, per vedere opere prima mai esposte, come per Luisa Rabbia, che presenta una recente produzione, o parzialmente inedite, come nel caso di Andy Cross, che ha dipinto il retro di un quadro realizzato nel 2005-06, dilatandone dunque la temporalità di produzione.
Anche se sono proprio gli artisti ad averci insegnato che il processo è molto spesso una componente altrettanto rilevante dell’opera, la domanda resta aperta: conoscere il dietro le quinte aggiunge un valore reale alla fruizione della produzione di un artista? Forse in una società che tutto espone, pensare che l’arte possa ritenersi affrancata da questo modus operandi è solo un’utopia.
Sicuramente invitare gli artisti a raccontarsi resta un approccio positivo per raggiungere un pubblico più vasto per l’arte contemporanea, così come le zone d’ombra, il non-detto, ciò che sfugge allo sguardo, alla comprensione immediata, restano una leva inalienabile del potere immaginativo, un fuoco sacro che l’arte sempre deve alimentare.

Dicembre 2021

Francesca Pagliuca
Francesca Pagliuca