Nonostante nel corso del suo cinquantennale percorso artistico abbia ottenuto i più prestigiosi riconoscimenti (tra cui l’invito a rappresentare l’Italia alla 52. Biennale di Venezia nel 2007 e il Praemium Imperiale conferitogli dalla Japan Art Association nel 2014), Giuseppe Penone non esita mai a rimettersi in gioco, a sperimentare, ad approfondire. Oltre che per l’indiscussa validità delle sue opere, è anche per questa sua attitudine, dedizione e fiducia nella ricerca, che attualmente è tra gli artisti italiani più conosciuti e ricercati in Italia e all’estero.
Non è dunque un caso che a soli sei mesi dall’inizio del 2017 tre eccellenti spazi espositivi abbiano inaugurato altrettante sue personali e che la città di Roma abbia accolto una sua opera quale installazione permanente nel centro storico. Seppur temporalmente vicinissimi, ciascuno di questi recenti progetti rivela una propria originalità affrontando un tema specifico e ben integrandosi con lo spazio per cui è stato concepito.
Il 27 gennaio corrisponde alla data di inaugurazione dell’esposizione Equivalenze nella sede romana della Gagosian Gallery. La chiave di lettura per comprenderne il concept sembra racchiusa nei due disegni su carta esposti, sul cui fronte compare il titolo scritto dall’artista, rispettivamente: Scultura come gesto della mano e Le forme equivalenti della terra. Le opere realizzate per la mostra ruotano infatti attorno a tali due concetti: per Penone la scultura ha origine da impulsi primari che si manifestano mediante gesti e l’arte ha il potere di rivelare le corrispondenze (o equivalenze) tra le forme del corpo umano e quelle della natura. Nel video Ephemeris, visibile in galleria, l’artista si concentra su alcuni possibili gesti della mano da cui può prendere forma la scultura: raccogliere dell’acqua, dividere l’argilla in blocchetti, lasciare in ciascuno l’impronta della propria presa. La mano è dunque il motore della creazione, ma anche la specifica unità di misura di quest’ultima.
È infatti la quantità d’acqua che può essere raccolta con le mani da una bacinella e poi trattenuta nella bocca a essere stata fatta filtrare in piastre di metallo; ed è la quantità di argilla che può essere prelevata con la mano dal più grande blocco originario ad aver dettato la grandezza dei singoli elementi poi plasmati e fissati sulle lastre che costituiscono le opere esposte a parete. Ma prima di plasmare ciascun elemento trattenendolo con entrambe le mani, Penone ha colorato i suoi palmi rispettivamente di giallo e di blu: il colore rende ancor più evidente la sua energica presa.
Disposte in diverse combinazioni sulle lastre di metallo dove l’ossidazione riproduce il contatto della pelle con la superficie, le molteplici unità in argilla delineano forme ambigue che, seppur vicine all’astrattismo pittorico, ricordano elementi naturali come piante e foglie. A confermare che il confine tra arte e natura è a dir poco labile se non assente, è anche la fusione in bronzo del calco di parti di un albero di alloro posta al centro della sala espositiva. Attraverso il vuoto del calco si manifesta l’equivalenza tra l’uomo e la natura; equivalenza rafforzata dalla quantità di corteccia che si sviluppa al suolo assumendo le sembianze di una figura antropomorfa. Attraverso quelli che l’artista definisce “gesti vegetali” la forma umana si libera dall’albero e viceversa.
«Le vene d’acqua che sgorgano dal terreno scorrono in rivoli che confluiscono, come i rami nel tronco, come le dita nel palmo di una mano, come il bronzo nella matrice di un albero». Così Penone esprime da Gagosian l’analogia tra l’uomo e l’albero. Contenendo il termine “matrice”, tale dichiarazione sembra costituire il trait d’union con la personale organizzata da Fendi e curata da Massimiliano Gioni, visitabile all’EUR, a Palazzo della Civiltà Italiana, dal 27 gennaio al 16 luglio 2017 e intitolata Matrice dal titolo dell’opera principale ivi esposta. Per realizzarla, l’artista ha sezionato in due parti il tronco di un abete alto circa 15 metri. Ha poi scelto un anello di crescita e ne ha seguito la traccia per svuotare entrambe le sezioni lasciando intatto solo il legno più recente e la sua pelle (ovvero la corteccia) con i rami ancora attaccati. Disposte in orizzontale, le due sezioni rimangono sospese da terra grazie ad alcuni rami che toccano il suolo, mentre altri sembrano librarsi nell’aria. A metà di una delle sezioni di questo enorme “millepiedi” in legno, all’interno del tronco svuotato, è collocato un elemento in bronzo patinato corrispondente al calco di quella porzione dell’albero dove è incastrato e che ha pertanto costituito la sua matrice. L’opera fa quindi riferimento all’assenza, a una parte mancante, al non visibile: al legno estratto dal tronco e alla superficie scelta quale matrice per la creazione (etimologicamente infatti matrice significa utero).
Se in Matrice Penone estrae il legno primigenio (corrispondente cioè agli anelli più antichi) dal tronco e lascia intatta la sua pelle, negli Alberi anch’essi esposti a Palazzo della Civiltà Italiana fa il contrario: scava la pelle e parte del legno sottostante (corrispondente agli anelli più recenti) da travi di abete o di larice per rendere visibile l’albero in una fase precedente rispetto alla sua trasformazione in trave. In realtà, in entrambi i lavori a essere centrale è la parte interna, primigenia e dunque germinale dell’albero, che è evocata per assenza in Matrice e per liberazione maieutica della forma dalla materia negli Alberi. La ricerca di Penone è dunque una riflessione ontologica sull’essenza stessa del materiale, o meglio, dell’esistente.
«Gli alberi ci appaiono solidi, ma se li osserviamo attraverso il tempo, nella loro crescita, diventano una materia fluida e plasmabile», afferma Penone che sceglie l’albero come protagonista anche della serie Foglie di pietra, costituita da alberi in bronzo che sollevano capitelli settecenteschi. Uno di questi è stato concepito per essere installato in Largo Goldoni, lungo via del Corso. Si tratta di un blocco di marmo di 11 tonnellate trattenuto a 5 metri da terra dai rami di due calchi in bronzo di un olmo e di un noce, alti rispettivamente 18 e 9 metri. Archeologia e biologia si innestano così l’una sull’altra per veicolare l’idea di un’equivalenza tra azione dell’uomo e azione della natura.
Tuttavia, l’agire umano e l’agire naturale non sono solo equivalenti ma anche reciproci. Lo dimostrano alcune opere esposte a Palazzo della Civiltà Italiana che rivelano come la natura e l’uomo abbiano pari facoltà di modificare ciò con cui entrano in contatto: come le Spine d’acacia e il grande quadro nero esposto; così è il peso del corpo dell’artista a modellare il cumulo di foglie in Soffio di foglie.
Penone è al contempo consapevole che l’attitudine umana a riconoscere nell’esistente forme analoghe al nostro corpo deriva dalla memoria e dall’immaginazione capaci di delineare dentro di noi un’immagine mentale. Da qui il tema della personale Images de Pierre, visitabile presso la Galleria Tucci Russo (Torre Pellice, Torino) dal 28 maggio al 5 novembre. Nella prima sala è infatti l’immagine mentale di una figura antropomorfa a essere evocata dai cinque elementi accostati tra loro, ed è l’immagine mentale dell’idea di scultura a essere sottesa dalle tre pietre che accolgono gli elementi nobili della scultura atti a permetterle la durata nel tempo (la pietra, l’acciaio e il bronzo).
Nella seconda sala è invece il gesto del frottage a far emergere l’immagine della “pelle” della parete su cui è realizzato, mentre è il gesto opposto dello scavare la pelle del marmo a renderne visibili le venature in Corpo di pietra – rami. Ma è una delle opere esposte nella terza sala, Ad occhi chiusi, a essere emblematica di cosa l’artista intenda per immagine mentale: le spine di acacia applicate su tela riconducono la natura alla sensibilità tattile della pelle (visualizzano due palpebre chiuse) rinviando alla riflessione che la visione sempre implica dentro di noi.
Pensiero, azione del gesto sul materiale e infine piacere della visione sembrano dunque i tre elementi guida del lavoro di Penone, di cui i progetti espositivi realizzati in questa prima metà del 2017 forniscono un eccellente spaccato come emerge dalla conversazione che abbiamo avuto nel suo studio torinese.
Ilaria Bernardi: Nel 2017 ha realizzato tre mostre in tre spazi espositivi molto diversi tra loro, sia per architettura sia per storia: a Roma, presso il Palazzo della Civiltà Italiana progettato per l’Esposizione Universale del 1942 e presso l’edificio costruito nel 1921 originariamente sede di una banca e ora della Gagosian Gallery; a Torre Pellice presso l’ex stamperia dove è ubicata la Galleria Tucci Russo. In che modo l’architettura e la storia di questi tre edifici hanno influito sulla scelta dei lavori da esporvi?
Giuseppe Penone: A determinare la scelta delle opere da esporre non è solo lo spazio, ma può essere anche il rapporto con le persone che lo gestiscono con le quali è possibile dialogare. È ad esempio il caso della mostra nella galleria di Tucci Russo che è un amico (lo conosco dal 1969) e con cui ho condiviso un percorso iniziando a esporre da lui molti anni fa. La sua galleria si trova in un grande edificio a Torre Pellice, quindi in un luogo un po’ fuori mano rispetto al centro di Torino: per questa ragione è frequentata da un pubblico ristretto ma molto interessato all’arte. Realizzarvi una personale implica la preoccupazione sia di trovare un’idea che possa riscuotere interesse sia di gestire un così vasto spazio espositivo. Dato il nostro lungo rapporto di amicizia, lavorare con Tucci ha il vantaggio di poter dialogare con una persona che ricorda le mie opere, le conosce, sa situarle e sa anche parlarne. Con Tucci è possibile affrontare certi aspetti del mio lavoro, rivederli e ripresentarli così come esporre opere dimenticate o raramente viste. L’idea stessa della mostra ora in corso è nata da un lavoro che avevo realizzato ed esposto al Centro incisioni di Ginevra ma che dopo quell’occasione non avevo più mostrato. Si tratta di stampe realizzate inchiostrando una lastra di marmo e applicando il processo di stampa litografico al fine di ottenere l’immagine di quel materiale. Il titolo dell’opera è Images de Pierres: da qui il titolo della mostra Images de Pierre (“Immagini di pietra”) dove ho scelto di presentare quelle stampe assieme ad altri lavori legati all’uso della pietra e del minerale nel mio lavoro.
La personale alla Galleria Gagosian di Roma, invece, implicava la necessità di proporre qualcosa di diverso rispetto a quanto esposto parallelamente a Palazzo della Civiltà Italiana. Ho quindi scelto opere recenti che rendessero conto delle mie attuali riflessioni e che ben si integrassero al bellissimo spazio ovale della galleria, molto differente rispetto al Palazzo all’EUR.
Il Palazzo della Civiltà Italiana era il luogo simbolo da cui doveva partire la costruzione dei padiglioni delle altre nazioni per l’Esposizione Universale del 1942 ed è una sorta di scenografia: presenta alcuni elementi caratteristici dello stile retorico fascista e altri che possono far pensare alla Metafisica e ai dipinti di De Chirico. Le stesse sculture presenti sono molto scenografiche in quanto prive di forza scultorea e all’interno l’edificio è interamente rivestito in marmo. Quel Palazzo corrisponde all’idea di una romanità condensata in un cubo. Nonostante le sue caratteristiche storiche e architettoniche, ho pensato che il mio lavoro poteva comunque dialogarvi, non ponendosi in contrasto né in polemica, ma sfruttandone le peculiarità. Il mio lavoro non è basato sulla retorica né su un’immagine prestabilita da ricavare dalla materia, ma sulla ricerca di ciò che è la materia per rivelarne i caratteri intrinseci: questo è il mio proposito di scultura. La “naturalità” del mio lavoro poteva sì creare un contrasto con la retorica del Palazzo, ma si trattava di un contrasto analogo a quello prodotto dall’ingresso di una persona in un simile edificio. Per questa ragione ho scelto di presentare alcune opere molto fragili come Soffio di foglie, costituita da foglie che in quanto tali si possono disperdere e che hanno una durata limitata. Ho scelto invece Pelle di grafite in funzione della qualità della luce che arriva e si riflette sull’opera esaltandola in tutte le sue parti, mentre ho voluto esporre Foglie di pietra per creare un rapporto con l’installazione in Largo Goldoni.
IB: L’opera cardine della mostra all’EUR è Matrice…
GP: Sì, il lavoro che dà il titolo alla mostra è Matrice, scelto anche in base alla sua dimensione che è perfetta per la sala dove è allestita. Alcuni anni fa avevo realizzato con la resina un’opera simile, ma molto più grande (50 metri) e l’avevo esposta all’École Nationale des Beaux Arts di Parigi, poi al Musée des Arts Contemporains du Grand-Hornu e ad Unlimited dove era stata presentata da Tucci Russo. Essendo molto difficile trovare spazi di quelle dimensioni, inizialmente avevo pensato di realizzarne una replica di dimensioni ridotte. L’evoluzione dell’opera mi ha portato alla sintesi espressa nel negativo dell’albero. L’idea dell’albero è quindi un’assenza, che ho poi sottolineato inserendovi un elemento in bronzo corrispondente alla traccia dell’area dove ho preso l’impronta. Matrice avrebbe dovuto essere esposta per la prima volta nella galleria d’onore del Rijksmuseum di Amsterdam, dove ho mostrato la scorsa estate, ma la quantità media di visitatori presenti al museo e le dimensioni dell’opera avrebbero implicato rischi sia per l’opera stessa sia per i visitatori, da qui la scelta di non esporla. La grande sala al Palazzo della Civiltà è invece perfetta per Matrice e ha fornito un’ottima occasione per presentarla.
IB: Quando e come nasce il progetto per Foglie di pietra installata in Largo Goldoni?
GP: L’idea della mostra al Palazzo della Civiltà Italiana è nata successivamente al progetto per l’opera in Largo Goldoni e la evoca attraverso alcuni disegni, scelti assieme a Massimiliano Gioni, che costituiscono una mostra nella mostra: alcuni sono progettuali, mentre altri, realizzati dalla fine degli anni Sessanta a oggi, presentano elementi e concetti analoghi a quelli di Foglie di pietra. Nel 2013 ad Arles avevo esposto un albero in bronzo con un elemento architettonico in pietra arenaria. Essendo Arles una città con un’architettura romana e quindi legata al concetto classico di architettura, ho pensato che quell’idea di scultura poteva funzionare anche a Roma. Sono sempre rimasto colpito dal fatto che quando sorge un nuovo edificio in un luogo è per noi difficile accettarlo perché lo vediamo come l’intrusione di un elemento sconosciuto. Distinguiamo il nuovo dal preesistente così come distinguiamo l’attività dell’uomo dall’attività della natura, quando invece l’uomo è esso stesso natura. Col passare del tempo, infatti, queste due entità si annullano. A dimostrarlo sono le rovine: se guardiamo le rovine di un castello possiamo percepire l’azione dell’uomo che ha costruito l’edificio poi diventato naturale perché invaso dalla vegetazione. Il tempo dimostra chiaramente l’inesistenza di una divisione tra uomo e natura, tra attività dell’uomo e attività della natura. Inoltre, fin dall’antichità, esiste l’idea di un’architettura naturalistica, cioè concepita in base a un modello vegetale che implica la corrispondenza delle colonne con i tronchi e dei capitelli con le foglie. Nell’opera per Largo Goldoni ho usato non a caso il marmo per indicare da un lato la memoria umana di quel materiale che viene solitamente associato all’architettura e alla scultura; dall’altro la sua memoria geologica percepibile attraverso le sue vene. L’idea poi di sospendere il marmo a cinque metri da terra solo in apparenza può sembrare assurda ma in realtà, soprattutto a Roma, si possono trovare resti architettonici anche a cinque metri sotto terra. Infine, in Foglie di pietra è sottesa anche l’idea della crescita e dell’elevazione dell’albero data dalla forza della luce, contrapposta alla forza di gravità.
IB: L’idea di un’equivalenza tra uomo e natura è sottesa anche dalle opere esposte alla Gagosian, dove però si dà molto rilievo al gesto del toccare e alla relazione con la realtà che esso comporta…
GP: La mostra alla Gagosian nasce da una considerazione relativa alla posizione che si può assumere nei confronti della scultura. La scultura può essere un oggetto trovato che viene esposto perché occupa un volume, oppure può essere una rappresentazione, ma può essere anche una riflessione sul rapporto che il corpo instaura con la realtà circostante. Se io prendo in mano un bicchiere, la mia mano diventa il negativo del bicchiere; se io appoggio la mia mano su una superficie piana essa diventa piana: l’azione della mano è sempre un’azione di struttura. Questa considerazione crea un’equivalenza tra il nostro corpo e la realtà esterna: il gesto del toccare qualcosa, pur provocando sensazioni diverse in base al materiale toccato, connota tutta l’esperienza del nostro vissuto. Nel mio lavoro rappresento non l’oggetto toccato, ma l’azione: c’è quindi l’idea dell’assenza dell’oggetto che si tocca e che muta a seguito di quel gesto in quanto vi lascia sempre un’impronta. Affrontando questa riflessione, la mostra da Gagosian anticipa in parte l’opera che presenterò ad Abu Dhabi, dove ho raccolto terre da diversi paesi del mondo e ho dato loro una forma corrispondente all’impronta delle mie mani. La terra è la memoria vegetale e minerale del luogo da cui proviene: mescolare e radunare in uno spazio terre provenienti da luoghi diversi significa avvicinare e raccogliere memorie diverse.
IB: Alla Galleria Tucci Russo la tematica mi sembra legata all’immagine mentale che ogni elemento della realtà è capace di provocare dentro di noi. Nello specifico, che cos’è per lei un’immagine mentale?
GP: L’immagine mentale è una conseguenza dell’idea di opera: in base a come la si dispone, un’opera dà origine a diverse interpretazioni. Il lavoro esposto da Tucci più esemplificativo in tal senso è Ad occhi chiusi dove si riconoscono due palpebre che ben illustrano l’idea di riflessione su un’immagine mentale. Ma anche il marmo che caratterizza altre delle opere esposte ci appare come un qualcosa che ci appartiene sia perché vi intravediamo le vene in modo simile alle vene che possiamo intravedere attraverso la nostra pelle, sia perché ha una morbidezza che ricorda la morbidezza del nostro corpo. In realtà si tratta solo della nostra interpretazione di un materiale costituito da sedimentazioni; un’interpretazione che deriva dalla nostra incapacità di vedere la realtà se non attraverso il nostro corpo. Tutto ciò che ci circonda, anche le invenzioni tecnologiche, sono frutto della sintesi e dell’elaborazione di una forma che già ci appartiene. L’uomo è natura e tutto ciò che esiste concorre alla costruzione della natura, in quanto ogni materia ha una sua fluidità e produce pertanto forme o immagini analoghe.
IB: Forse è proprio l’importanza che lei ha sempre dato ai materiali, al fare/toccare con le proprie mani, e all’immagine mentale ad averle permesso, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, di non cadere nella coeva “moda” del concettuale ma di mantenere una coerenza estrema nel suo lavoro…
GP: In realtà ho partecipato alla prima mostra in cui questa parola è stata usata: Konzeption-Conception, tenutasi nel 1969 allo Städtisches Museum di Leverkusen. La mostra corrispondeva al catalogo: a ciascun artista invitato era stato chiesto di concepirne e inviarne alcune pagine. Io però ho sempre ritenuto la parola limitata nel tempo: ci sono lingue che, seppur vive, possiamo non comprendere così come ci sono numerose lingue non più in uso. Inoltre le parole inducono molteplici suggestioni e interpretazioni diverse. L’immagine invece è trasversale al tempo e allo spazio: se guardiamo un dipinto in una grotta preistorica, percepiamo immediatamente cosa esso rappresenti così come l’emozione di chi lo ha realizzato. L’immagine ha in sé una comprensibilità di gran lunga superiore a quella della scrittura: riconosciamo immediatamente le forme antropomorfe, le figure geometriche, il doppio, perché sono immagini che in qualche modo ci appartengono.
IB: Quali sono i suoi prossimi progetti espositivi?
GP: I progetti per il futuro sono molti, tra cui il lavoro prima accennato per Abu Dhabi, una grande opera per il centro culturale di Dhahran, una personale allo Château La Coste ad Aix-en-Provence e una mostra allo Yorkshire Park prevista per il prossimo anno.
Estate 2017