Tra le immagini che accompagnano la mostra realizzata da Fabio Sargentini per il XXI Premio Pino Pascali, ce n’è una in cui la sua figura/sagoma insieme a quelle degli artisti scelti per testimoniare la sua lunga carriera di gallerista suggerisce con immediatezza l’idea di un manipolo di compagni di strada uniti in un’avventura, che è poi quella che ha segnato una parte centrale della storia del secondo Novecento. Seppure reinventata, quell’immagine fa tornare a riflettere su una delle condizioni operative ed esistenziali più significative di quegli anni, quella della formazione dei gruppi.
Mi viene alla mente una situazione che vissi, allora ventenne, nel 1975, partecipando a un evento all’Attico di Via del Paradiso. Mi pare fosse inserito in 24 ore su 24, per il quale Gino De Dominicis aveva realizzato una scritta a caratteri cubitali sul pavimento del salone centrale, composta con tante puntine da disegno. Noi siamo le puntine, questo si leggeva nella scritta. Era un’evidente boutade, non la prima per lui certamente, apparteneva al suo stile, ma in questa c’era un senso diverso dagli altri lavori, c’era una freddezza in più, concettuale, che scaturiva dall’evidenza tautologica dell’enunciato.
A distanza di anni, ripenso quell’intervento come una manifestazione della generale crisi che stava pervadendo progressivamente gli anni Settanta. Crisi che preparò il terreno all’avvento del Postmoderno e di quella nuova stagione che peraltro la galleria accolse tempestivamente nei primi anni Ottanta.
Alle inaugurazioni delle mostre all’Attico, così come la sera della mostra di Gino, c’erano parecchie persone e c’erano anche naturalmente gli artisti della galleria che, rintanati in una stanza in fondo al salone, credo rispettassero un’abitudine consolidata. Quella stanza era un luogo esclusivo, un territorio riservato a loro e a pochi altri amici; segnava una netta demarcazione tra gli ammessi e il resto del mondo. Segnava l’appartenenza o meno al gruppo.
Continuando ad occuparmi di quegli anni e confrontandomi con alcuni contributi teorici e storici di chi sta studiando quel periodo da altri punti di vista, ho capito che quella dinamica di gruppo, nel ripetersi anche, e forse soprattutto, all’interno dei gruppi politici e sociali, produsse una profonda incrinatura nella dialettica di classe avviando un serio processo di revisione.
Sul piano immediato, davanti a quella compagine chiusa la risposta non poteva che essere ricercata nell’individualità. In fondo, questo è un modo per interpretare quel che poi successe con la generazione seguente. Ci si potrebbe vedere infatti l’inizio di una sorta di traghettamento dallo spirito dei Sessanta a quello degli Ottanta.
Rimanendo ancora sul tema del gruppo che l’immagine della mostra di Polignano ha stimolato, visto dall’esterno, quello dell’Attico sembrava un gruppo compatto, anche se, come è facilmente immaginabile, non mancarono alcune dinamiche, penso ad esempio al rapporto tra Pascali e Pistoletto o tra Pascali e Kounellis, ma anche al mancato inserimento di Mattiacci nella compagine poverista o, più in generale, ai rapporti forse non proprio facili con i torinesi e forse a quelli con gli americani, neutralizzati dalla distanza geografica. Insomma, penso al vissuto di tutti loro, all’amicizia di Sargentini con Pino, alle tensioni con Gianni, all’inafferrabilità di Gino, come a un tornasole di quella congiuntura storica.
Quella porta in fondo al salone, di tanto in tanto, al passaggio di qualcuno, si apriva e si richiudeva lasciando intuire un doppio moto esistenziale. In quell’essere dentro e fuori c’era il sentirsi speciali in quanto artisti, ma proprio in quanto tali rifiutati da quella cultura dominante così fortemente avversata.
In diverse occasioni, anche parlando con Fabio, ho cercato di capire quali rapporti intercorsero davvero con le altre sfere, con quella politica, con quella sociale. Non ricordo più in che circostanza si parlò, per esempio, della contestualità, ai tempi dell’Attico a Piazza di Spagna, a metà degli anni Sessanta, tra gli artisti e un fenomeno come quello dei capelloni che stanziavano sulla scalinata della stessa piazza. Con il tempo mi pare di essere arrivato a una parziale e momentanea conclusione: tranne alcuni casi estremamente significativi, penso per esempio a Castellani o a Gilardi e a pochi altri, i legami furono dettati sostanzialmente dalla contingenza storica e da un senso generale di ribellione contro una classe borghese considerata incapace di adeguarsi al proprio tempo. Sono in molti oggi a sostenere che gli artisti che hanno operato nel clima derivato dal Sessantotto si sono ritrovati, malgré leur, a fare da modello all’antistatalismo neoliberista che ha fatto leva proprio sulla pratica dei gruppi sviluppando fino al parossismo la libera espressione del desiderio e il narcisismo.
Dentro il clima esistenziale pervaso di senso di ribellione e costruzione di un’affermazione ritrovo il filo forte che lega Sargentini a Pascali. E mentre continua a tornarmi alla mente, ora più drammatica che mai, l’immagine del suo feretro portato a spalla da Fabio, da Cesare Tacchi e da altri amici, come la tragica interruzione di un’avventura, torno a ragionare su quegli anni, sulla Contestazione, su quando alla Biennale del ’68, lo stesso anno della morte di Pino, si urlava fuori dai cancelli dei Giardini: “Biennale dei padroni, bruceremo i tuoi padiglioni”. Gran parte degli artisti rovesciarono contro la parete le loro opere o le ritirarono. A quella Biennale fu invitato anche Pascali; non ci sono molti documenti, solo delle foto che lo ritraggono mentre parla con gruppi di giovani e alcune testimonianze che raccontano come non fosse d’accordo a ritirare le opere perché riteneva che la migliore contestazione fosse quella di esporle.
Quello che si contestava, in quella Biennale come altrove, era l’idea del premio, considerato una manifestazione evidente del potere esercitato dalle istituzioni, critica compresa, sentito come un limite alla libera espressione, alla libertà dell’arte. Sta di fatto che la lunga tradizione dei premi, di cui l’Italia era stata ricca a partire dal dopoguerra, per un certo tempo si interruppe.
All’inizio degli anni Ottanta, proprio mentre si rinnovava la presenza degli artisti dentro L’Attico, si tenne Extemporanea, che si concluse proprio con l’assegnazione di un premio. Anche la Biennale tornò ad istituirli. Da partecipante alla giuria ed estensore delle note di presentazione degli artisti partecipanti a Extemporanea, posso testimoniare che attorno all’idea di riabilitare un premio non ci fu alcuna particolare considerazione da parte dei giurati, che per altro rappresentavano tre diverse generazioni, quella di Palma Bucarelli, quella di Filiberto Menna e quella di Vittorio Rubiu e Achille Bonito Oliva. E l’idea del premio fu subito ben accolta anche dagli artisti, tutti appartenenti alla mia generazione e tutti desiderosi di superare le tragiche conflittualità che avevano caratterizzato la stagione precedente…
Ancora una volta guardo le immagini della mostra, le sagome degli artisti stagliati contro le gigantografie tirate su come fondali. L’idea di Fabio è intrigante, una mise-en-scène che Pascali avrebbe certamente approvato.
Arte e Critica, n. 93, primavera 2019, pp. 101-103.