ALESSANDRO ROMA RACCONTA L’INTRODUZIONE DEL LINGUAGGIO SCULTOREO ALL’INTERNO DELLA SUA RICERCA E RAGIONA SULLA RELAZIONE TRA LA SCULTURA E LA PITTURA. UN RADICARSI E FIORIRE DI NUOVE FORME, PER CREARE SPAZI IN CUI SMARRIRSI.
Francesca Pagliuca: Per la maggior parte degli artisti che si esprimono attraverso il mezzo pittorico, la superficie è una materia dura da smuovere, è un po’ come costruirsi un giardino magnifico e decidere di restarci. Tu hai scelto di andare oltre, di esplorare la natura incontaminata; il passaggio verso la scultura è stato molto naturale: il fare, la concretezza dell’atto artistico, ha smosso in maniera fluida la superficie pittorica che ha preso nuove forme…
Alessandro Roma: La prime sculture le ho presentate nel 2011 al Mart di Rovereto: tre grandi forme si accostavano ai lavori pittorici su carta. La pittura di quel periodo era caratterizzata dal ritaglio, nel senso che dipingevo paesaggi su molteplici carte, poi li ritagliavo e riassemblavo, cercando di dar vita a un’unica e nuova immagine. Questi passaggi mi consentivano di staccarmi completamente dai soggetti iniziali ed entrare nelle nuove forme che si creavano tagliando e accostando i frammenti. Questo processo ha influenzato la volontà di misurarmi con la scultura. In fondo, il collage in sé, è un atto che va oltre la bidimensionalità.
I primi risultati scultorei erano dei frammenti delle immagini pittoriche. I miei dipinti avevano una caratteristica tattile molto forte. L’occhio era costretto ad attraversare superfici di differenti materie e tecniche, così questa pelle della pittura, a un certo punto, ha incominciato a uscire, a spingere verso una forma tridimensionale.
E oggi posso dire che i miei lavori in ceramica sono un’estensione della pittura, anzi un complemento. Quando modello con l’argilla la scultura non sono poi così distante da quando dipingo. Alcuni movimenti sono vicini così come le questioni formali di equilibri, aperture, punti di vista. Per questo motivo è diventato un unico lavoro e la loro vicinanza è come se rendesse lo spazio espositivo un unico luogo pittorico.
Usando la tua metafora del giardino, proverei a dire che all’inizio concepivo il paesaggio come un giardino. Aperture, forme, colori erano all’interno di un recinto ben calibrato, ora ho cercato di abbattere quel recinto per potermi immergere ancora di più nel paesaggio e viverlo come un attraversamento. La scultura mi ha sicuramente aiutato a dar vita a questo cammino all’interno del lavoro.
FP: «Le libertà espressive sono di chi se le prende. Quando non c’è lo spazio se ne può inventare un altro. Il metodo per inventarlo è già quasi il nuovo spazio».1 (Giulio Turcato)
Il tuo modo di concepire la pittura, più che «immagine», è sempre stato «visione» ossia insieme di percezioni. Noi viviamo attraverso la visione, è primariamente lo sguardo a guidarci nel mondo, a consentirci di attraversarlo. Nei tuoi lavori si osservano frammenti di paesaggi, elementi dal mondo della natura, sono degli spazi senza tempo, familiari ma non identificabili; nelle visioni che ricostruisci esiste una componente di parziale smarrimento?
AR: Se smarrimento lo intendiamo come quello stato in cui a un certo punto si perde quel senso dell’orientamento dato dalla conoscenza, forse sì. Quella frammentazione che da tempo attuo e poi tento di ricomporre, quasi a farla sparire, è il processo che mi porta ad avvicinarmi a uno stato di smarrimento, di abbandono totale alla visione. L’unico mio modo per avvicinarmi a qualcosa di sconosciuto. La pittura è avvicinarsi a questo smarrimento, sia per chi la attua, sia per chi la vede. Chi si trova di fronte al mio lavoro mi piacerebbe venisse stimolato, addentrandosi nell’immagine o nella forma scultura, a esercitare il potere della visione.
FP: Il muoversi sul confine tra ciò che ci appare riconoscibile e ciò che invece sfugge attiva in chi osserva percezione, memoria, esperienza, ricordo, immaginazione; l’arte deve condurci in luoghi sconosciuti?
AR: La vita, se mossa sul confine di cui citavi, ci conduce in luoghi sconosciuti. L’arte è uno di questi luoghi. Uno spazio dove imparare a smarrirsi per ritrovarsi con nuove vesti.
FP: Un’arte autentica deve spingere in una qualche misura a perdersi per ritrovarsi, in nuove vesti, in nuove forme. Una nota che accomuna la tua produzione è quella di cogliere dei passaggi in divenire e ciò si percepisce forse in maniera più netta nelle sculture, dove la concretezza della ceramica restituisce un’indeterminatezza. Il potere immaginativo di chi osserva trovi possa essere potenziato da quest’ossimoro?
AR: Non lo so. Fermare lo sguardo sul paesaggio ci dà la sensazione di poter cogliere uno statico frammento della Natura. Ma non è cosi, perché tutto continua a procedere lungo il proprio corso, all’interno del paesaggio, così anche in noi. Le sculture in ceramica, provano a congelare un attimo di questa esperienza del tempo, ma mai rinchiudendosi in una forma prestabilita: in questi lavori non c’è ansia di capire, di definire, sono solo il riflesso di un sentire che ha urgenza di esistere. Si tratta infatti di forme aperte alla possibilità, animate dal movimento, che danno, in chi le osserva, la sensazione di poter far sbocciare un’altra protuberanza, modificare il loro equilibrio sul basamento o cambiare cromatismo. Ecco, forse, in questo risiede il loro potere immaginativo.
FP: Le tue opere nascono per sedimentazioni, secondo un processo di sviluppo che ha una similarità con il mondo organico.
AR: Potrei provare a descrivere come inizia, si sviluppa e quando penso finisca un lavoro, che sia un quadro, una scultura, un libro o un disegno, ma questo è solo un piccolo dettaglio dell’intero processo. Quello che oramai, da tempo, cerco di fare è avere un terreno sempre fertile su cui piantare pensieri, visioni e idee, coltivando al contempo dubbi e tentativi per darne poi forma. Non sono mai riuscito a lavorare a una scultura o a un dipinto pensando a un soggetto. La materia che uso ha un suo spazio di azione fondamentale, che tenta inesorabilmente di adattarsi a una visione fatta di pensieri e stati d’animo che scorrono in un flusso incessante dal ritmo irregolare. Attraverso il fare, le mani, mediano tra la forza della materia e il movimento del pensiero.
Quella che tu chiami sedimentazione è il tempo che il lavoro si prende per diventare familiare ai miei occhi. A quel punto inizio a intravedere che forma ha preso il lavoro e come posso accentuarne la sua identità.
FP: «Ogni quadro ha una luce astratta. La luce non è mai realistica. La vera pittura è sempre astratta e ha una sua luce, una sua atmosfera di sogno. Altrimenti è un’atmosfera falsa, non è arte», in un’intervista nel 1954 Felice Casorati descriveva così la luce irreale che connota i suoi dipinti.2
L’atmosfera che sembri restituire nei tuoi lavori è quella di un mondo fluttuante, questa connotazione potrebbe essere un elemento della familiarità di cui parli sopra?
AR: La familiarità che citavo è un passaggio puntuale nel mio lavoro. A un certo punto è come se faticassi a riconoscerne la forma perché spesso tendo a perderla. Mi perdo nel processo del lavoro, rischiando di doverlo abbandonare o distruggere. È inevitabile per me correre questo rischio, perché solo in questo modo riesco a scoprire ciò che in maniera offuscata avevo in mente. L’atmosfera di cui parla Casorati è molto probabilmente legata al concetto di pittura metafisica che nasceva in quegli anni. Io non mi sento vicino a quella atmosfera, nonostante ci sia sempre stato da parte mia un intento di andare oltre il realismo. Tento invece di creare spazi in cui perdersi, abbandonandosi. Non ha nessun senso per me stupire chi guarda il mio lavoro, vorrei delicatamente avvolgerlo.
FP: Radice è una scultura in ceramica realizzata nel 2020. Per una pianta, per un albero, le radici sono generalmente un apparato sotterraneo, nascosto ma al tempo stesso centrale per la vita. Nella tua scultura le radici appaiono come un magma unico con la terra, come un trionfo della materia, una materia che normalmente è nascosta. Le sculture in generale potrebbero essere un po’ il manifestarsi delle radici della produzione pittorica?
AR: La scultura ha una relazione inseparabile con la pittura, una è radice dell’altra, non potrebbero esistere separatamente. Entrambe permettono il nascere di nuove forme, si radicano e fanno spuntare nuovi germogli che danno linfa a nuovi lavori.
Dicembre 2021
1. Flaminio Gualdoni (a cura di), Giulio Turcato, Silvana Editoriale, Biblioteca d’Arte Contemporanea, Cinisello Balsamo 2002, pag.10.
2. La citazione è tratta da un’intervista a Felice Casorati a cura di Giovanni Cavicchioli, in Casorati alla Saletta, catalogo della mostra (Modena, Saletta degli Amici dell’Arte, 9 – 19 gennaio 1954), Ed.Bassi e Nipoti, Modena 1954. Si veda anche Felice Casorati, Scritti, interviste, lettere, E.Pontiggia (a cura di), Abscondita, Carte d’artisti n.52, Milano 2004, pag.99.