Appropriazione di linguaggi tra arte e teatro, e viceversa. Citazione / re-citazione / azione

Nel 1967 Michael Fried osserva nel suo Art & Objecthood1come il teatro sia il vero nemico dell’arte, sostenendo a tal proposito che la “teatralità” sia una zona interdetta nella pratica artistica del ventesimo secolo e riportando a supporto delle proprie tesi ciò che Frank Stella aveva apostrofato con «What you see is what you see». Il saggio appare negli Stati Uniti quasi a scongiurare un rapporto tra le due discipline e prende in esame, da una prospettiva tutta americana, quelle mutazioni che gli happening di Allan Kaprow da un lato e le creazioni collettive del Living Theatre dall’altro avevano già apportato nel mondo delle arti visive e performative.

CITAZIONE
Un uomo solo, fermo al centro del palcoscenico; un corpo rigido, quasi statuario. Fissa il pubblico, ma potrebbe rivolgersi al vuoto che lo circonda, che lo rassicura e al tempo stesso lo blocca in un immobilismo nevrotico, celando un profondo rivolgimento emotivo, di pensiero e di critica alla realtà che lo avvolge, silente e impreparata. Così si apre Mysteries and Smaller Pieces, la creazione che il Living Theatre porta a termine a Parigi nel 1964 e presenta l’anno successivo prima a Venezia e poi a Roma – al secondo passaggio in Italia –, portando avanti una ricerca su un modello linguistico, una sperimentazione che implichi necessariamente un rapporto con un pubblico da scuotere, colpire, da coinvolgere nella creazione. Ma scendendo dal palco e invadendo la platea con in mano bastoncini di incenso gli attori squarciano la quarta parete e invadono lo spazio della vita,2 del pubblico che, imbarazzato e incuriosito, si trova immerso in una nube fitta dall’odore pungente.
Lo stesso anno Pino Pascali in occasione della mostra Corradino di Svevia, organizzata a Nettuno (RM) nelle sale del Castello Sangallo e curata da Gian Tomaso Liverani, fondatore e animatore della galleria La Salita di Roma, mette in scena Requiescat, spargendo anch’egli dell’incenso intorno ad una sorta di altare ligneo con al centro una croce in rilievo. L’artista, collocando se stesso all’interno di una macchina scenografica e utilizzando il proprio corpo come mezzo dinamico e espressivo, interviene quindi con un’opera che si pone come evento teatrale.3 L’azione così strutturata, procedendo ad un azzeramento del linguaggio proprio delle arti tradizionali, mutua alcuni elementi dalla prossemica magico-rituale, e di conseguenza scenica, per trasporli nell’alveo delle arti visive – innanzitutto la separazione tra spazio scenico e pubblico, poi l’unità di tempo, la presenza fisica dell’artista, aprendo in Italia la strada alle arti performative –, ma soprattutto Pascali sembra re-interpretare nel suo lavoro un’azione già vista qualche mese prima al teatro Eliseo di Roma.

 

Pino Pacali, Requiescat, 1965
Pino Pacali, Requiescat, 1965

 

Questo esperimento solleva una prima riserva su ciò che Fried sosterrà oltreoceano solo qualche anno più tardi, dimostrando in nuce come la “teatralità”, la dialettica tra arte e vita, sia un problema aperto in quegli anni e non risolvibile con un netto azzeramento. Questo lavoro di Pascali dimostra, infatti, una prima citazione, un primordiale scambio tra due pratiche che in quegli anni iniziano a influenzarsi a vicenda all’insegna di una destrutturazione progressiva dei propri modelli di appartenenza e alla luce di una nuova ricerca di forme e esperienze. Sono questi del resto gli anni in cui nasce in Italia il Nuovo Teatro (il convegno di Ivrea è del 1967), ma anche quelli in cui alcuni aspetti peculiari del teatro d’avanguardia, l’uso del corpo come linguaggio, la codificazione della scrittura scenica, l’interazione degli spazi diventano possibili componenti linguistiche dell’arte.
Se negli anni precedenti Achille Perilli, Emilio Vedova e Pietro Consagra avevano collaborato con Luigi Nono, Andrea Camilleri alla realizzazione di spettacoli in cui erano gli elementi visivi e sonori a creare la trama drammaturgica, negli anni a seguire artisti visivi creano delle vere e proprie messe in scena prima in galleria, poi in spazi pubblici, per approdare infine ad ambienti teatrali.
Caso emblematico è Teatro delle mostre del 1968 alla galleria La Tartaruga di Roma, in occasione della quale Plinio De Martiis si fa regista di venti mostre per un giorno di altrettanti artisti. È questa l’occasione per dimostrare in Italia una via alternativa alla linea imperante che fa riferimento alla Pop Art americana. Calvesi, infatti, che affronta a piene mani nel saggio in catalogo il rapporto tra arte e teatro, apostrofa le prime simulazioni pop e del flusso performativo degli happening americani come «esibizione del falso», attribuendo agli artisti italiani un diverso approccio all’azione e in particolare «un recupero della funzione specifica dell’analisi mentale, in contrasto con il potere sintetico e riduttivo della percezione della Pop Art».4
In Italia, dunque, per le sue peculiarità storiche, si definisce uno specifico approccio alla “teatralità” nelle arti visive, più consapevole, un riferimento sensibile che in taluni casi si è indirizzato esplicitamente alle pratiche sceniche. È questo il caso di Michelangelo Pistoletto, il quale, pur muovendosi su quella linea pop, dopo aver creato eventi performativi che trovavano nel coinvolgimento del pubblico una nuova formalizzazione, fonda a Torino la sua compagnia teatrale, Lo Zoo. Ciò si può scorgere già in nuce nelle prime azioni al Piper di Torino ma in particolare nella sua personale a L’Attico di Fabio Sargentini a piazza di Spagna, in occasione della quale invita gli avventori a travestirsi con costumi noleggiati a Cinecittà e messi liberamente a disposizione assieme ad alcuni elementi scenografici e tre quadri specchianti.5
Oltre ai nomi già ricordati anche Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Eliseo Mattiacci, Alighiero Boetti, Gilberto Zorio, Vettor Pisani, Fabio Mauri, in anni compresi tra il 1965 e il 1975, attingono alla danza, all’happening, al teatro, al cinema e si moltiplicano le occasioni in cui gli spazi espositivi accolgono elementi effimeri nei quali l’immortalità dell’opera viene messa in discussione dalla creazione di eventi che vivono del contatto col pubblico e si esauriscono nel tempo di una serata, giungendo ad una sorta di “teatralizzazione delle arti”. E sempre in quegli anni si susseguono diverse esperienze di contatto in gallerie e spazi museali tra le diverse discipline. A Roma Sargentini porta la post-modern dance di Trisha Brown, di Simone Forti, le note sperimentali di Terry Riley, Philip Glass.6 Alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna Barilli organizza una grande rassegna che tenta di ricostruire un quadro delle diverse esperienze maturate in quegli anni.

 

Catalogo della mostra Teatro delle mostre, 1968
Catalogo della mostra Teatro delle mostre, 1968

 

RE-CITAZIONE
Giunti a questo punto il saggio di Fried può essere letto in diversa maniera, quasi definendo per negazione il ruolo che il teatro ha avuto nello scardinamento di alcune pratiche artistiche: «Il successo, la sopravvivenza stessa delle arti sono venuti dipendendo sempre di più dalla loro abilità nello sconfiggere il teatro. […] I concetti di qualità e valore – dal momento che essi sono centrali nell’arte – mantengono il loro significato, il loro pieno significato, solo all’interno delle singole arti. Ciò che si situa trale arti è teatro». Quindi “la teatralità” non solo può aver interpretato un ruolo nella crisi dei linguaggi delle arti visive, ma, ponendosi tra di esse, ha anche suggerito un reciproco dialogo. A riprova di ciò si può osservare quanto le arti visive stiano irrevocabilmente mutando l’approccio operativo delle pratiche sceniche, e in particolare dell’uso della parola. In questi anni si può iniziare a rintracciare negli spettacoli, infatti, un diverso impiego del testo, della recitazione, non più pensato come termine privilegiato della messa in scena, ma come semplice evocazione, “re-citazione”, il che ne fa un più articolato e stratificato meccanismo atto a ridefinire l’operazione teatrale prendendo spunto dalla centralità dello stimolo visivo.
Assistiamo, così, in Italia alla nascita del Teatro Immagine, alla comparsa di compagnie teatrali – prima tra tutte Il Carrozzone di Tiezzi e Lombardi – che, ispirandosi a influenze magico-rituali, rifiutano la rappresentazione, e la recitazione si apre ad un mondo onirico nel quale la dimensione temporale viene rarefatta e dilatata. Il testo in tal modo subisce una brusca perdita di centralità nella drammaturgia e diventa citazione di atmosfere suggerite, semplice rivelazione epifanica, mentre la parola inizia ad essere ammessa esclusivamente come elemento sonoro.
Ne La donna stanca incontra il sole il gruppo nega una progressione drammaturgica basata sulla parola, su una struttura logico-narrativa, ma i componenti stessi dichiarano la propria ispirazione proveniente da suggestioni pittorico-figurative – in primis Piero della Francesca –, conferendo al lavoro un impianto figurativo di tipo iconico-visivo. 7
Se da un canto il testo viene ridotto alla sola immagine, dall’altro, ribaltando il punto di osservazione e guardando l’opera dall’humus dalle arti visive, un’immagine può diventare testo.
Nel maggio del 1977 il Teatro Gobetti di Torino ospita gli interventi di Marco Bagnoli, Mario Merz, Giulio Paolini e Remo Salvadori. I quattro in piena autonomia lavorano realizzando un’opera unica in cui le situazioni individuali si connettono tra loro in un percorso temporale dalla drammaturgia ben definita. Merz usa l’architettura teatrale come un mero involucro, completamente buio, da attraversare mediante un raggio luminoso che parte dal palcoscenico. Dopo aver determinato l’asse ottico fin oltre le scale di accesso colpisce uno scarabeo. Il riferimento è a Lo scarabeo d’oro di Edgard Allan Poe, ma il riferimento testuale è semplicemente “citato” attraverso un elemento visivo.
A questo punto l’osmosi tra le discipline è conclamata, queste si guardano e si contaminano in un processo che negli anni si andrà concretizzando in un guardarsi sempre a minor distanza. Un caso esemplificativo può essere quello di Renato Mambor, il quale, sin da giovane frequentatore dell’ambiente delle Cantine romane, compie un percorso che dall’evidenziare la vita all’interno di un meccanismo scenico giunge ad introdurre un uomo in questo stesso ingranaggio. Dopo aver inserito nella sua Trousse elementi della realtà, pone la realtà stessa sul palco in relazione ad un pubblico, trasformando l’atto creativo dell’opera in un atto drammatico.

AZIONE
Ma è dai primi anni Ottanta che queste tematiche si fanno più stringenti. Superato lo scossone del decennio precedente e ritornando a concentrarsi sugli specifici disciplinari gli operatori tirano le somme delle proprie esperienze e si accreditano con un approccio ibrido nei propri sistemi di riferimento. A questo punto l’analisi deve necessariamente varcare i confini nazionali per aprirsi a quelli europei (tralasciando solo in un primo momento la scena globale), al fine di individuare alcune proposte in cui i diversi linguaggi hanno raggiunto la sintesi in una proposta originale.
Nel 1982 Jan Fabre debutta a Bruxelles con This is theatre like it was to be expected and foreseen – uno spettacolo di otto ore, il tempo di una giornata lavorativa, riallestito per l’edizione 2013 di Romaeuropa Festival – il quale supera gli stereotipi della messa in scena per trasformarsi in un’azione. Fabre propone una riflessione sulla vita quotidiana, utilizzando la parola in modo fortemente anti-naturalistico, quasi esclusivamente ridotta a suono, sottoponendo il corpo dei performer (e degli spettatori) ad una prova estrema, a volte ai limiti della sopportazione, e in una formalizzazione scenica nella quale è centrale la scenografia-installazione, immaginifica e ispirata alle arti contemporanee, ma con citazioni che guardano a ritroso nel tempo fino all’arte fiamminga del Quattrocento.
Sempre nei primi anni Ottanta un altro artista, l’ancora poco noto William Kentridge, si trasferisce a Parigi dal Sudafrica (sua terra natia, dove aveva già cominciato a lavorare come attore) per frequentare L’École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq e inizia ad approcciarsi al teatro di figura creando spettacoli che utilizzano pupazzi, attori e animazione video. Questa vocazione scenica costituisce un leitmotiv della sua intera produzione, fino a quella recentissima di disegni, video e installazioni, che spesso riproducono la scatola scenica al fine di coinvolgere lo spettatore nella macchina teatrale operativa, comprensiva di oggetti e luci di scena, e allo scopo di creare spazi da fruire.
È questo il caso di The Refusal of Time prodotta per dOCUMENTA 13, nella quale la campitura del tempo è messa in scena da una macchina di influenza leonardesca, da video proiettati sulle quattro pareti e da una visione a numero chiuso che obbliga ad una fruizione intima. È dunque lo spettatore ad essere lasciato libero di agire, selezionando le parti d’interesse e ponendosi in rapporto dinamico con il lavoro.

 

William Kentridge, The Refusal of Time, un progetto per dOCUMENTA(13) - Kassel, Documenta und Museum Fridericianum Veranstaltungs - GmbH, 2012, veduta dell’installazione. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano / Napoli. Credito fotografico Henrik Stromberg
William Kentridge, The Refusal of Time, un progetto per dOCUMENTA(13) – Kassel, Documenta und Museum Fridericianum Veranstaltungs – GmbH, 2012, veduta dell’installazione. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano / Napoli. Credito fotografico Henrik Stromberg

 

Ma il teatro può essere anche preso a paradigma concettuale come nel caso dei lavori Big Hunt del 2002 o The Chittendens: The Resuscitation of Uplifting del 2005 di Catherine Sullivan, i quali esplorano la messa in scena sia come forma visuale che da una prospettiva estetica e antropologica. Sullivan mette in moto l’intera macchina teatrale per lavorare sul limite tra teatro, cinema, danza e arti visive al fine di esplorare tematiche legate all’individuo come parte di una società politica e economica. 8

Arte e Critica, n. 75/76, autunno 2013, pp. 74-77.

1. M. Fried, “Art & Objecthood”, 1967, in M. Fried, Art & Objecthood: Essays and Reviews, Chicago 1998, p. 155.
2. G. Bartolucci, L’esempio del Living Theatre, arte=vita, in «Sipario», n. 232-233, agosto – settembre 1965.
3. M. Mininni, Arte inscena. La performance in Italia 1965-1980, Danilo Montanari Editore, Ravenna 1995, p. 9.
4. M. Calvesi, “Arte e tempo”, in Teatro delle mostre, catalogo della mostra alla Galleria La Tartaruga, Roma, Marcalibri / Lerici Editore, Roma 1968.
5. M. Farano, M. C. Mundici, M. T. Roberto, Michelangelo Pistoletto, il varco dello specchio. Azioni e collaborazioni 1967-2004, Edizioni Fondazione Torino Musei, Torino 2005, p. 13.
6. Festival Music and Dance. U.S.A. 1972, 12-23 giugno 1972, L’Attico, Roma.
7. S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975, Titivillus, Corazzano (PI) 2013, p. 222.
8. J. Morgan, C. Wood, The World as a Stage, catalogo della mostra, Tate Modern, Londra, 1 febbraio – 27 aprile 2008, Tate Publishing, Londra 2007.

Andrea Ruggieri
Andrea Ruggieri