Arte africana contemporanea. Revisione di un assunto

NEL PANORAMA INTERNAZIONALE SI PARLA CON SEMPRE MAGGIORE ATTENZIONE DI ARTE AFRICANA CONTEMPORANEA. PROPONIAMO UNA (RI)LETTURA A PARTIRE DA QUANTO VISTO SULLA SCENA ITALIANA.

Parlare di “arte africana contemporanea” è una questione difficile e lo è per diversi motivi. Non solo perché l’attuale discorso mediatico non sembra poter offrire alternative all’equazione: “africano” uguale “profugo”, “immigrato”. Parlare di “arte africana contemporanea” è difficile anche e soprattutto perché significa voler descrivere l’arte proveniente oggi da un intero continente. Un continente che copre per circa tre volte la superficie dell’Europa e che conta il maggior numero di Stati indipendenti. Un continente nel quale si parlano più di duemila lingue diverse e in cui convivono gruppi culturali spesso fortemente eterogenei. Un continente testimone di estreme disuguaglianze sociali e reduce da secoli di dominazione coloniale – seppure in fasi storiche diverse – da parte di almeno otto Paesi europei.
Parlare di “arte africana contemporanea” è in effetti impossibile. Eppure inevitabile, perché oggetto di un’attenzione crescente nel panorama artistico internazionale. In un momento in cui tanto la produzione artistica quanto le strategie curatoriali sono sensibili allo sviluppo di dinamiche socio-economiche di portata mondiale, l’arte africana è vista come sintomo dello sviluppo di un continente al centro di meccanismi geopolitici di primaria importanza.
Se è vero che uno dei primi titoli di riferimento per la definizione di un’“arte africana contemporanea” è già il Contemporary Art in Africa di Ulli Beier del 1968, e che tra le primissime esposizioni di portata globale contava, vent’anni più tardi, la leggendaria Magiciens de la Terre curata da Jean-Hubert Martin al Centre Pompidou nel 1989, il fenomeno ha assunto un peso sempre maggiore con l’affermarsi della globalizzazione nei rapporti politici ed economici di scala mondiale.
Basterà considerare retrospettivamente alcune tra le maggiori manifestazioni internazionali degli ultimissimi anni per accorgersene: dalla penultima Biennale di Venezia affidata al curatore nigeriano Okwui Enwezor, già autore di un altro libro imprenscindibile sul tema come Contemporary African Art since 1980 (2009), fino all’ultima Documenta di Kassel/Atene, che vedeva nelle problematiche in atto legate al rapporto tra il “Nord” e il “Sud del mondo” il principale movente della propria, tanto accesa quanto discussa, critica al sistema.
In questo scenario, l’Italia non fa eccezione: se è vero che la ricerca teorica al riguardo non vanta grandi pubblicazioni nella nostra lingua, attualmente l’interesse è vivo, come dimostrano diverse grandi manifestazioni in alcuni tra i più importanti centri del contemporaneo nel Paese.
In estate ha inaugurato a Roma, al MAXXI, il doppio appuntamento di African Metropolis e Road to Justice, grande progetto curato da Hou Hanru che ha inteso indagare, con due mostre parallele, la vitalità artistica e culturale del continente, riflettendo sulle sue contraddizioni, i suoi limiti, le sue lotte, le sue risorse.
Chiave di lettura è nel primo caso la città, conglomerato fisico e mentale di cose, persone, esperienze. Non una città qualsiasi, e nemmeno una città esistente, ma una città utopica eppure possibile, non reale ma realizzabile. È la città metafora delle dinamiche umane che prendono forma a livello globale, raccontate in cinque azioni metropolitane – il vagare, l’appartenere, il riconoscere, l’immaginare e il ricostruire – attraverso un centinaio di opere di oltre trenta artisti africani. Fotografie e video, opere tessili e scultoree, installazioni monumentali e interventi site-specific restituiscono la varietà di questo percorso aperto, nello spazio come nel tempo.
Un percorso che si articola nel tempo, seguendo sequenze cronologiche riferite al passato, al presente e al futuro del continente africano è anche quello offerto dalla seconda rassegna romana, Road to Justice, che raccoglie un numero molto più limitato di artisti, senza tuttavia rinunciare alla complessità della storia che intende raccontare.
Riprende il tema della strada il programma annuale di Villa Romana, a Firenze. La residenza tedesca per artisti internazionali rievoca nel titolo Seeds for future memories. Voicing the two ends of migration molti dei motivi incontrati al MAXXI, pur esponendosi con maggior determinazione su quella che è l’occasione di contatto tra le culture “nostra” e “loro” avvertita forse come più stringente in questi anni: la migrazione.
I due termini della migrazione, l’Africa – rappresentata in particolare dal Senegal – e l’Italia – qui intesa attraverso Firenze – stanno al centro della serie di mostre, serate ed eventi che hanno animato e animano il calendario della villa per tutto il 2018. Gli interventi temporanei di creativi come Moussa Sarr (Narcisse – Strange everywhere) o Milo Rau (The Congo Tribunal) si accompagnano al costante lavoro sul posto dei quattro attuali vincitori del Premio Villa Romana, due dei quali di origine africana (Christophe Ndabananiye e Lerato Shadi) e ai contributi di numerosi altri artisti, intellettuali e specialisti sul tema. “Dare voce” ai due poli della migrazione significa affrontare un’indagine della presenza africana nel suo rapporto concreto e immediato con la realtà locale, spesso dimentica – se non del tutto ignara – del vivace ruolo culturale giocato da comunità di colore in diverse città italiane. Lo dimostra un progetto come Sahara Desert, mostra allestita la primavera scorsa nel padiglione del giardino di Villa Romana a raccogliere le testimonianze di un’ex-discoteca e centro culturale attivo nella periferia di Firenze per tutti gli anni Novanta.
Si sposta in ambito musicale l’attenzione riservata al continente africano nelle giovani OGR torinesi, che dedicano tre serate d’autunno ad altrettanti concerti di artisti di primo piano sulla scena internazionale contemporanea: dalle sperimentazioni di Tony Allen & Jeff Mills alle fusioni tra musica tradizionale maliana, funky e jazz di Amadou & Mariam, fino al desert blues di Bombino. Una rassegna forse meno ambiziosa ma altrettanto interessante e sintomatica del forte interesse per il tema, attraverso diverse possibili declinazioni.
È sufficiente questo rapido sguardo su tre istituzioni di primo piano in Italia per tornare alla constatazione di partenza: parlare di “arte africana contemporanea” è inevitabile, eppure difficile, anzi impossibile.
A comprovarlo sono già solo questi eventi distribuiti in parti diverse della penisola: definire linguaggi comuni, mezzi artistici privilegiati, tendenze condivise che restituiscano un’immagine unitaria e riconoscibile dell’arte africana contemporanea è uno sforzo inutile. Ciò che è possibile definire è però il lavoro su temi ricorrenti: la ricerca di un’identità nel confronto – e nello scontro – con l’alterità; la migrazione e il rapporto con la propria origine, la propria terra, le proprie tradizioni all’indomani del colonialismo e nell’attuale contesto di globalizzazione; l’elaborazione di un passato segnato da violenza e sottomissione e la costituzione del presente a fronte di soprusi e discriminazioni.
È come se a caratterizzare l’arte africana contemporanea non fosse tanto la provenienza da un continente – classificazione di cui si sono già presentati i limiti – quanto l’appartenenza ad una narrazione, ad un “narrative” più o meno definito e riconducibile al tentativo continuo di ripensamento, collettivo ed individuale, della propria relazione con il resto del mondo – e in particolare con l’area nord-occidentale – che la gran parte dei Paesi africani, nonostante le visibili differenze che li caratterizza, condividono.
Solo in questo senso è legittimo parlare di “arte africana contemporanea”: come arte che riflette non una caratterizzazione geografica, ma la narrazione dell’Africa che si articola nel suo rapporto con il resto del mondo.
Una narrazione spesso costruita su equivoci, proiezioni e incomprensioni, destinata per questo a non essere semplicemente raccontata, ma a diventare campo di indagine critica e di continua ridefinizione. Una macro-narrazione il cui scopo è quello di svelare molteplici micro-narrazioni diverse, nuove e inaspettate, capaci di evidenziare i confini del concetto di “arte africana contemporanea” e di ridisegnarli.
Che la creatività africana contemporanea nelle sue molteplici manifestazioni si sia spinta e si spinga ben oltre questa narrazione, è dimostrato dalle posizioni assolutamente originali di personalità quali l’architetto afro-tedesco di fama internazionale Diébédo Francis Kéré, il designer ganese di bare d’artista Paa Joe, già presente in diverse collezioni europee, fino ai due celebri fotografi – oggi entrambi deceduti – Seydou Keïta e Malick Sidibé, maestri del ritratto in bianco e nero.
Considerando la dialettica attraverso cui l’arte africana contemporanea indaga la propria narrazione esplorandone nuove, si potrebbe dire che essa si afferma negando se stessa. Forse è dire troppo, eppure solo in questi termini parlare di “arte africana contemporanea” è certo inevitabile e difficile, eppure possibile.

Arte e Critica, n. 92, autunno 2018, pp. 67-75.

Pietro Tondello
Pietro Tondello