Giulio Carlo Argan pensava che Calder fosse al contempo faber e ludens, ed effettivamente, se solo pensiamo che per molti anni lo scultore americano portò con sé anche per lunghi tragitti, tra Europa e America, il suo Cirque Calder per dar vita a spettacoli che allestiva privatamente per i suoi amici oltre che per il pubblico pagante, la definizione risulta perfetta. L’amore per il circo gli era nato lavorando per la “National Police Gazette”, che gli aveva commissionato di seguire per quindici giorni i circhi Ringling Brothers e Barnum & Bailey. Fu con le sue abili mani educate in una famiglia di artisti che realizzò questo curioso dispositivo, fatto di fili metallici, cuoio, tessuti, marchingegni di recupero; lo usava azionando manualmente la scena anche per due ore consecutive.
Dunque un artista che viveva della pienezza del proprio fare, e proprio questa immagine viene fuori dal testo che Giovanni Carandente scrisse per accompagnare lo spettacolo che Calder inscenò l’11 marzo 1968 al Teatro dell’Opera di Roma, su commissione dell’allora direttore artistico Massimo Bogianckino.
L’artista americano aveva già lavorato in Italia, con lo stesso Carandente, che nel 1962, in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, lo aveva invitato a partecipare a una manifestazione di grande spessore, Sculture in città, una delle prime esperienze italiane di scultura nello spazio pubblico. Calder realizzò per Spoleto un’importante opera monumentale, insieme a una serie di altri lavori.
La proposta di Bogianckino risultò per il grande scultore come un desiderio che finalmente prendeva corpo: «Aveva sognato da oltre trent’anni», testimoniava Carandente, «di realizzare uno spettacolo tutto per sé: i suoni e la scena con i suoi magici meccanismi al servizio di un fatto puramente visivo e dinamico». Non doveva progettare semplicemente le scenografie, come aveva già fatto in precedenza, per esempio per Martha Graham, con Panorama o Horizons, del 1936, o per il Socrate di Erik Satie, dello stesso anno. Aveva carta bianca per una scrittura drammaturgica vera e propria, che avrebbe permesso ai suoi mobiles, ai suoi stabiles, ai disegni, di dar vita a un assemblage plastico, visivo e sonoro in cui le relazioni esplicite e quelle implicite tra i singoli elementi avrebbero alimentato infinite possibili combinazioni. Entusiasta del progetto, Calder lavorò giorno dopo giorno, in prima persona, artigianalmente, come aveva sempre fatto, come amava fare, facendo e giocando con materiali elementari e colori primari. Lo aveva appreso da Mondrian, con il quale da un certo momento in poi condivise non solo l’amicizia, non solo il rigore dell’essenzialità, la disciplina del togliere, ma anche la tensione etica verso la costruzione di un equilibrio tra forme e colori teso verso quello universale.
Nel progetto romano, librate nello spazio, agìte dal tempo, le sue macchine a-funzionali condivisero la scena con i macchinisti che le governavano, con dei ciclisti che pedalavano in cerchio, con degli enormi disegni astratti che scendevano come quinte, con un grande mare stilizzato sul quale all’orizzonte sfilavano creature marine… E poi c’era la materia luminosa, colorata, vivace, che insieme alle musiche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi e Bruno Maderna rispondeva appieno alle esigenze spettacolari, ritmando perfettamente l’articolazione del tutto.
Per questo “evento-spettacolo” al Costanzi, Calder scelse il titolo Work in progress, mutuandolo da quello provvisorio che James Joyce aveva dato alla sua Veglia di Finnegan. Fa effetto pensare come, seppure molto avanti nella carriera, lo scultore nutrisse ancora interesse per la condizione di mutabilità nel tempo di un’idea. Il titolo effettivamente questo implicava e involontariamente confermava il fatto che quel pensiero del movimento che aveva sostanziato tutto il suo lavoro non era stato soltanto un fortunato espediente formale ma corrispondeva a una visione del mondo, strutturava di fatto la sua persona.
I diciannove minuti dello spettacolo – che venne messo in scena con la regia di Filippo Crivelli – sono leggiadri, freschi, giocosi, come lo sono tanti lavori di arte cinetica di quegli anni, ma è bene ricordare che, come molta parte della produzione d’avanguardia, quel tratto autonomo, assoluto – come avrebbero detto i suoi amici di Abstraction-Création e come scrisse lo stesso Sartre a proposito dei suoi mobiles –, talvolta anche giocoso, rimandava in realtà a contenuti radicali. Contenuti che oggi, in questa difficilissima congiuntura storica, è forse necessario riproporre, ripensare, ed è interessante il modo in cui lo ha fatto l’attuale sovrintendente dell’Opera Carlo Fuortes, che ha invitato a dialogare con Calder una delle figure più stimate del panorama internazionale, William Kentridge, che già nel 2017 nello stesso teatro aveva dato una rilettura della Lulu di Alban Berg. «Ho pensato che la carta, i frammenti di carta con cui mi esprimo da sempre, fossero l’elemento giusto per aprire il dialogo con Calder» afferma l’artista sudafricano, e fa diventare quei frammenti la matrice formale dell’intero spettacolo, sia sul piano narrativo, evocando la Sibilla Cumana, con i suoi vaticini scritti su foglie di quercia, sia sul piano compositivo, costruendo una scena articolata, a tratti vorticosa, in cui appunti, giornali, pagine di libri si sovrappongono e si alternano in una proiezione che occupa l’intera scena, mentre fogli di carta a terra, o nelle mani di attori dai costumi straordinari, funzionano come filo conduttore. Lo spettacolo infatti, complesso come tutti i lavori di Kentridge, fatti di disegni, di video, di canti, di installazioni, di animazioni, di musica, parla dell’impossibilità di predire il futuro. I fogli con le profezie della Sibilla vengono ripetutamente letti ma poi volano via, gettati perché inadeguati a rispondere alle domande pressanti dell’oggi. «Stavo riflettendo sul tema del nostro futuro – scrive Kentridge nel catalogo che accompagna il progetto –, e sulla narrazione di ciò che il destino ha in serbo per noi, così come facevano le Sibille. Questo è stato il punto di incontro con il lavoro di Alexander Calder: entrambi questi elementi si uniscono nel modo in cui un’opera viene realizzata materialmente. Alla fine del Paradiso di Dante c’è la storia riguardante la Sibilla Cumana. Le foglie volate via come in un vortice attorno a lei si trasformano nelle pagine del libro di Dante che vengono raccolte dal vento e messe assieme come in un libro. Secondo la narrazione si andava dalla Sibilla Cumana per farsi predire il futuro. Lei scriveva il destino su una foglia di quercia che lasciava sulla soglia dell’antro, creando un mucchio di foglie; nel momento in cui si andava a recuperare la propria foglia di quercia, si alzava un soffio di vento che le mescolava e questo faceva sì che non si sapesse mai se si stesse scoprendo il proprio destino o quello di qualcun altro.»
Domande misteriose e quesiti più espliciti si contendono a intermittenza la scena, mentre il canto straordinario di Nhlanhla Mahlangu sulla musica del pianista africano Kyle Sheperd funge da asse portante dell’intero spettacolo, facendo da catalizzatore di tutte le componenti di Waiting for the Sibyl, con una forza che sembrerebbe sottolineare come la vita, quella vera, la voce, quella umana, sono l’unica certezza a partire dalla quale poter pensare di costruire qualcosa, condividendo un pensiero di futuro.
I due eventi che il Teatro Costanzi ha messo in scena con l’intento dichiarato di riattivare quel percorso di dialogo tra teatro e arti visive che lo aveva caratterizzato agli inizi del Novecento rappresentano due modalità opposte di rispondere a quell’urgenza di confronto con la realtà cui il teatro per sua natura conduce. Il primo, Work in Progress, assume la terza e la quarta dimensione come territori attraverso i quali ampliare il pensiero di un’immagine astratta che, nonostante l’azione dei ciclisti e dei macchinisti, rimane a tutti gli effetti un pensiero assoluto, per ritornare alle parole dei protagonisti di Abstration-Création. L’altro, Waiting for the Sibyl, si alimenta e si struttura invece a partire dal caos della vita, lo penetra, lo scandaglia, lo mette in azione, ne esalta e ne intreccia le componenti. L’opera, come sempre in Kentridge, nasce già come una drammaturgia, e il palcoscenico è il luogo più naturale nel quale potersi inverare.
Arte e Critica, n. 94, autunno 2019, pp. 104-105.