LA RIEMERGENZA IN QUESTI GIORNI DEL NOME DI CARLA LONZI – DI FATTO MAI DIMENTICATO – IN OCCASIONE DELLA PUBBLICAZIONE DEL LIBRO DI CARLA SUBRIZI LA STORIA DELL’ARTE DOPO L’AUTOCOSCIENZA. A PARTIRE DAL DIARIO DI CARLA LONZI (EDIZIONI LITHOS) CI SPRONA A RIPROPORRE QUESTA STRAORDINARIA, SENSIBILE E DRAMMATICA TESTIMONIANZA CHE ANNE-MARIE SAUZEAU BOETTI CI HA LASCIATO IN EREDITÀ.
CE LA CONSEGNÒ QUALCHE ANNO FA, ANCORA IN VITA, MA PER UNA SERIE DI CIRCOSTANZE NON LA VIDE PUBBLICATA. IL NUMERO USCÌ PROPRIO MENTRE CI LASCIAVA.
Carla Lonzi è una “presenza alle mie spalle”, come un’ombra che si profila nella mia esistenza da una quarantina di anni… con alcune ricorrenze le cui date non mancano di coincidenze tragiche, come potrebbero testimoniare alcuni amici…
Lonzi c’entra nel mio percorso di critica (assai irregolare comunque non accademico), nel mio percorso di femminista, infine nella mia esistenza di compagna d’artista. I tre ambiti formano ovviamente un’unica avventura, non liscia, anzi nodosa, un bel nodo.
Non l’ho mai incontrata, stranamente, né l’ho cercata (a metà anni ’60 a Torino ero timida, appena sbarcata e parlavo male l’italiano…). Forse ho preferito leggerla, e poi l’ho “conosciuta” tramite gli amici, Pistoi, Paolini e Anna Piva, Fabro, poi Accardi, Eva Menzio, Nini Mulas.
Ho persino tradotto in francese Sputiamo su Hegel, per un editore che non conoscevo, senza contratto, poi uscì un’altra traduzione per le edizioni Des femmes!
Sono convinta di aver subito la sua influenza, la sua lezione, con quella specie di “autocoscienza” e scrittura condivisa che aveva condotto con il suo gruppo “socratico” di artisti, per cinque anni…
A suo seguito, ho scritto su (e con) diversi artisti – uomini ma soprattutto donne: la stessa Accardi ma anche Marisa Merz, e tante altre, seguendo le raccomandazioni del Manifesto di Rivolta Femminile. 1 Per la diffusione dei miei testi ho fatto ricorso a strumenti certamente “inquinati”, giornali, riviste, RAI, ecc. Ma ho anche contribuito a creare un’editoria autonoma di donne con le Edizioni delle donne, tra le cui pagine di narrativa ho spesso inserito immagini di opere di artiste contemporanee.
Per l’altro ambito di affinità con Lonzi – la vita privata –, anch’io compagna di un artista per un ventennio, ho conosciuto il conflitto molto speciale che vive una femminista con un uomo artista… e so perché non ho letto (non ho voluto leggere) Vai pure, né quando uscì nell’80, né entro l’estate ’82, quando morì Carla.
Nel ’93 mi è stato chiesto di pensare per la Biennale di Venezia una sala omaggio. Con una certa apprensione ho accettato, consapevole della contraddizione in termini tra la figura della Lonzi e l’idea di “omaggio” istituzionale. Ho evitato di far appello alle sue compagne femministe e ho cercato di ricostruire filologicamente quanto lei avesse realizzato nel campo dell’arte fino alla pubblicazione di Autoritratto (1969) cioè l’apice del suo sodalizio “largamente comunicativo e umanamente soddisfacente” con un gruppo di artisti… prima del congedo da quel mondo.
Nel prepararmi, avevo interpellato i protagonisti: Paolini, Fabro, Kounellis, Accardi e ovviamente Consagra. Ho ricostruito la piccola collezione, l’insieme di opere che loro le avevano offerto e che era in parte rimasta presso Battista Lena, il figlio (ho incontrato anche il padre, Cesare Lena, marito di Carla).
La sala in Biennale, credo, restituiva assai l’atmosfera del sodalizio: con le opere, accompagnate da estratti del libro, e tante foto private… In particolare lei, Carla, in grandezza naturale contro una parete, fino al suolo, con i suoi calzettoni “casalinghi”, concentrata sulla macchina da scrivere, fotografata da Consagra a Minneapolis, nell’inverno ’67-’68.
Oggi Laura Iamurri, nella sua prefazione alla riedizione del libro, mi fa la cortesia di ricordare quella sala, ma nel ’93 non credo sia stata molto apprezzata da Rivolta Femminile! Ero passata decisamente dalla parte del nemico, complice della contorta strumentalizzazione delle sue intuizioni, come aveva lei stessa già denunciato nell’81 quando, invitata da Germano Celant a scrivere per la mostra Identité Italienne al Beaubourg, aveva scritto un testo amaro e aggressivamente rivendicativo: si sentiva derubata, tradita… La cito:
“…Mi si riconosce il merito critico in modo che, sebbene da 10 anni sia fuori dalla professione, ci ritorni per quel tanto che serva a ricordare quegli anni che io e non un altro, ho vissuto in quel modo, vedendo quello che altri non vedevano. Naturalmente la cosa non funziona […] Qualsiasi parola in questo ‘contesto Beaubourg’ sarebbe in funzione di mito […] però voglio dire queste cose perché servono a me […] sono stata una critica in gamba, ho azzeccato tutto su una questione fondamentale in cui non sono in molti a poter dire altrettanto, a cominciare dal curatore della mostra”. 2
Nel 2010, rileggendo quasi tutta Lonzi, ho capito che quella donna continua ad interpellarmi, ma essenzialmente nel campo dell’arte, per due motivi. Primo, perché rispetto al femminismo, non sono mai riuscita a considerarla come figura tutelare teoretica (come invece sono Irigaray, Muraro, Firestone, Cixous e Kristeva circa la creatività femminile/maschile); per me Lonzi appartiene semmai alla fenomenologia del femminismo, all’esistenzialismo femminista, all’esperienza vissuta fino all’estremo dell’autocoscienza (ma questo non è il tema da trattare qui). Secondo, perché non riesco a credere che lei avesse chiuso per sempre con la pratica creativa della scrittura sull’arte, o scrittura tout court…
Ma torniamo al testo dato a Celant nell’81:
“Sono stata in prima linea, ho detto la parola chiave per capire una situazione. Per capire, per orientarmi su una domanda tanto assillante e che mi accomunava a questi artisti […] Dire queste cose serve a me, ora che – lontano dall’istituzione culturale – so che significa annaspare nell’indistinto […] ho avuto bisogno di pensare al problema per i fatti miei, in prima persona [….] Ma ormai avevo imparato la lezione dai miei artisti e andarmene non mi ha spaventato anche se è spaventoso”.
In questa dichiarazione c’è l’ammissione di un’esperienza di dolore “spaventoso” e vorrei interrogare proprio quel dolore. Era già molto presente nel diario Taci anzi parla, pubblicato nel ’78 quando, sfatata la pratica dell’autocoscienza e scoperto di esser caduta nell’ideologia3, cessa per lei l’alleanza tra donne.4 Al suo posto subentra la solitudine e uno “scontare momento per momento, nella propria vita, l’idealizzazione dell’uomo, il bisogno del suo consenso”.5
Dunque solitudine, soggettività singola, il partire da sé…
I segni del dolore dell’anima culminano nel breve Vai pure, dialogo antifonale dell’80, voluto da lei per un’iniziativa reattiva, un mese dopo l’uscita di Vita mia di Consagra, e due anni dopo quella del proprio diario Taci anzi parla. Consagra non avrebbe forse elaborato Vita mia senza il lungo dialogo tra loro due per anni. Lei ne è infastidita, e lo dice!
Il testo è la trascrizione di quattro giornate di “duello”, il verbale di un fallimento spaventoso, la fine del percorso relazionale, ed è un serbatoio di dolore. Dalla tragedia in quattro atti emerge una Lonzi struggente.
Da una parte, le sue esigenze intellettuali sono senza compromesso possibile, implacabili: al proprio compagno non solo viene contestato il piacere della fase “celebrativa” della creazione artistica, le lusinghe e gratificazioni, amici e ammiratori allo studio, soprattutto “ammiratrici” e altre graziosità… ma gli viene contestato persino il momento creativo, misterioso, la messa a fuoco dell’intuizione per conto proprio (“da solo, al lavoro” come rivendica lui, frainteso). Lei ribadisce: “la donna è dialogo, l’uomo è singolo perché sempre in competizione con altri!”.
Dall’altra, la fragilità di Carla è evidente: le ultime pagine sono di smarrimento affettivo totale. Eppure se la valenza relazionale non è in grado di annullare l’individualità dell’artista, per lei è un fallimento, dunque meglio separarsi, come implicano le ultime due parole, pietra tombale dell’amore. Eppure quel “vai pure” non è aggressivo, tanto meno trionfante: piuttosto un lamento epico, un’agonia.
In alcune delle testimonianze da me raccolte nel ’93, mi è stata confermata questa sofferenza di Carla Lonzi, che nessuno poteva alleviare: nella mia lunga conversazione con Consagra (ho ancora in mente il suo volto, aspro e pudico, nel riparlare di lei); con Fabro (che mi confidò: “Carla ha vissuto da martire, ma l’ha voluto lei, quel martirio”); e ancora di recente con Carla Accardi, l’unica artista donna presa in considerazione da Lonzi, la grande amica, l’altra Carla, cofondatrice di Rivolta Femminile, la quale oggi ripete: “Ho patito molto di essere rigettata da lei. Il perché? Perché io volevo far l’artista, non la femminista”.
A questo punto faccio una serie di ipotesi.
1. Credo che il grande dolore di Carla Lonzi riguardasse una strettoia senza sbocco nel suo progetto intellettuale ed esistenziale, uno scacco spietatamente cercato, e vissuto nella disperazione, in una voragine negativa; con i “suoi” artisti, aveva immaginato una specie di falanstero intellettuale, creativo, e assolutamente reciproco, ma un anno appena dopo la pubblicazione di Autoritratto, si sentiva già tradita perché loro, gli artisti, volevano andar avanti ognuno nella sua singolarità.
2. Forse, la creatività artistica femminile – a parte quella soglia minimale, “inferiore”, dell’espressività esistenziale nel quotidiano e nell’autocoscienza – non la interessava: anzi, il voler “far l’artista” in una donna le era insopportabile!
3. Addirittura, le arti visive forse non erano la sua vera passione, semmai era la scrittura (e la letteratura: amava Mansfield e Cvetaeva, era attratta ma reticente sulla Woolf).
Facendomi coraggio, arrischierei a questo punto un’altra lettura del (troppo breve) percorso di Carla Lonzi.
Dopo le poesie di giovinezza del ’58-’63 (ma pubblicate postume), è nella critica d’arte che Carla aveva cercato – e trovato – un linguaggio, una scrittura tutta sua, una “lingua” speciale, polifonica, semiotica, corporea, musicale, con gli artisti amici, in simbiosi. Altro che semplice trascrizione dal registratore! Il suo libro così innovativo è piuttosto un sapiente montaggio, alla Godard, alla Chris Marker, o alla Céline per la sofisticata restituzione del linguaggio fiorito, sgrammaticato e tanto espressivo di Kounellis o Pascali. E quando diceva di aspettare da tutti loro “reciprocità” e “riconoscimento”… riconoscimento di che? Della sua capacità maieutica circa la presa di coscienza della creatività altrui? O piuttosto riconoscimento di una sua personale creatività?
Secondo me, Carla Lonzi non si è permessa di diventare scrittrice (come invece hanno fatto la Banti, o Marisa Volpi, la sua grande amica), si è auto-castigata6 e in seguito si è costretta a scrivere – a più mani, femminili – testi ideologici. Una scrittura sacerdotale e militante.7
Si è autorizzata l’unica libertà del “diario”8 come lascito alle altre donne, testimonianza e invito a continuare il racconto di sé. Ed è forse questa dimensione sacrificale che le vale ancora oggi quel culto, quella forma di venerazione da parte di un certo femminismo.
Ma di fronte ad un narcisismo così conflittuale e disturbato, si può parlare di “martirio”, come ha osato pronunciare Luciano Fabro? Direi martirio per modo di dire, il suo percorso manca di quella valenza ascetica che connota l’esperienza delle mistiche (Suor Teresa di Lisieux, o una laica come Simone Weil). Certo, la vita di clausura l’attraeva (“avventura invisibile e non sindacabile”), un misto di comunità partecipativa e di esperienza solitaria, ma nel suo caso mi pare un miraggio assai equivoco, una tendenza ad una santità… negativa.
Per concludere, cito un’ultima frase dal testo dell’81 per Identité Italienne, per via del risvolto progettuale che sembra affiorarvi, e che mi tiene a cuore:
“…Questa uscita mi ha permesso di arrivare ad un distacco che mi permetterà di tornare: al punto in causa, non all’istituzione. Questa mostra rappresenta solo le mie premesse”…
Cosa sarà quel “punto in causa”? La creatività? È difficile ipotizzare il seguito: quando Lonzi scriveva questo, avvertiva già i dolori strani del male che l’avrebbe portata via nel giro di appena un anno – con Consagra al suo fianco fino alla fine – mentre lei era ancora giovane e, chissà, forse pronta ad una nuova svolta, vitale e più felice?
Arte e Critica, n. 79, Ottobre – Dicembre 2014, pp. 44-45.
1. “Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua laboriosità sussidiaria” e “Nulla o male è stato tramandato della presenza della donna: sta a noi riscoprirla per sapere la verità”.
2. Il grassetto in questo testo è mio.
3. M. L. Boccia, L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano, 1990, p.214.
4. Era stata strumentale a “negare l’evidenza del mito, negando l’uomo e la sua presenza nella vita femminile”, Maria Luisa Boccia, op. cit., p.214.
5. C. Lonzi, Taci anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1978, p.1293.
6. Dopo Sputiamo su Hegel.
7. Nel diario a p.829 scrive: “La parità nel mondo femminile non la trovo, non la trovo, sono tutte troppo più silenziose di me e io finisco per essere ‘modesta’ con loro, altra falsità…”.
8. Il punto di partenza della scrittura femminile, il grado primo che può farsi sublime, nel caso delle Sante o delle sorelle Brontë…