QUESTO TESTO ACCOMPAGNA LA MOSTRA LIFE AND HERSTORIES (AUTOBIOGRAFIA COME DIALOGO): CHIARA CAMONI AND STEFANIA GALEGATI (25 SETTEMBRE – 25 OTTOBRE 2021), PRIMA PARTE DI UN CICLO DI MOSTRE, AZIONI E INCONTRI CURATO DA DARIA FILARDO PER VILLA ROMANA A FIRENZE. IL CICLO PROPONE UNA RIFLESSIONE SULL’APPROCCIO AUTOBIOGRAFICO COME PRATICA PREVALENTEMENTE FEMMINILE TESA AL DIALOGO, ALLA CREAZIONE DI PICCOLE E GRANDI COMUNITÀ, ALLA RISCRITTURA DELLA STORIA UFFICIALE E SI AVVALE DELLA COLLABORAZIONE DI: LA CITTÀ DEI LETTORI (FESTIVAL LETTERARIO, FIRENZE), FONDAZIONE ARCHIVIO DIARISTICO NAZIONALE (PIEVE SANTO STEFANO, AREZZO), TALK A VILLA BARDINI (PROGETTO DELLA FONDAZIONE CR FIRENZE). LA SECONDA PARTE DEL CICLO INAUGURA IL 10 NOVEMBRE 2021 CON LA MOSTRA LIFE AND HERSTORIES (AUTOBIOGRAFIA COME DIALOGO): HELEN CAMMOCK AND OTTONELLA MOCELLIN/NICOLA PELLEGRINI (VISIBILE FINO AL 17 DICEMBRE 2021).
Mi interessano le storie, raccontando le storie si capisce e si fa la Storia.
Questo progetto nasce da una riflessione sulla scrittura d’arte (la critica d’arte) che diventa una scrittura che racconta l’incontro con l’arte da una prospettiva autobiografica.
L’interesse per la scrittura autobiografica, sia dal punto di vista letterario che storico artistico, è una mia ossessione che si riflette anche nell’attrazione verso le opere d’arte che si nutrono di esperienze autobiografiche.
Questo interesse ha fatto sì che io mi occupassi sempre più spesso del punto di vista situato e autobiografico nelle pratiche femminili (anche se non è un campo di analisi che esclude altri autor*) e che in queste opere riscontrassi alcune linee di ricerca ricorrenti che hanno a che fare con la commistione di Arte e Vita e con un approccio prevalentemente anti-eroico.
La presenza del Soggetto, e le strategie attraverso le quali questo si manifesta, sono materia di indagine a partire dalla costruzione della modernità (e si può andare anche molto più indietro nella Storia). Il punto di vista interno e situato (artistico e letterario) è ormai completamente assimilato, soprattutto dopo che il 1989 ha portato con sé il racconto di chi non era incluso (sia internamente che esternamente a quel mondo finora dominante).
Il taglio autobiografico non è prerogativa esclusivamente femminile, non è intento del progetto proporre una storia della differenza, ma la riflessione sul “soggetto imprevisto” di lonziana memoria e le ricerche femminili e femministe dagli anni ’60 a oggi hanno molto ragionato sulla costruzione di un’altra soggettività nel contesto della cultura dominante patriarcale, un soggetto che si è costruito in opposizione alla nozione del soggetto astratto e universale maschile ereditato dalla tradizione modernista e dal pensiero filosofico moderno.
Come si usava dire (e io credo sia ancora vero), le intellettuali donne fanno teoria “sulla propria pelle”, includendo il corpo e la vita nella percezione di sé e nell’incontro con l’altro.
Le riflessioni in ambito femminista contemporaneo oggi riflettono anche sul concetto di auto–theory, un approccio interdisciplinare al fare storia che include il corpo e le esperienze personali come forma di produzione del sapere (anche) accademico.
Il dibattito è molto vivo anche nell’ambito letterario, che si interroga su nuove forme di narrazione autobiografica, l’autofiction, che utilizza elementi di finzione nel discorso autobiografico, costruendo una persona letteraria che rielabora l’esperienza personale mantenendo un tono di dialogo personale e privilegiato con il lettore.
L’interesse per le pratiche femminili è una lente di osservazione che permette di contestualizzare un approccio dialogico e anti eroico al racconto (più che autocelebrativo).
Il mio intento non è certamente una ricostruzione esaustiva, quanto piuttosto il dare voce a una necessità che oscilla fra la relazione e frequentazione con artiste con le quali condivido la ricerca di un linguaggio altro, e la volontà di situare queste relazioni in un contesto più ampio ritrovando radici e genealogie comuni.
Due radici che oggi danno altri frutti (accenni).
Molta di questa consapevolezza deriva dal ricchissimo dibattito che ha caratterizzato il pensiero femminile e femminista degli anni ’70 (in questa sede principalmente italiano). Due autrici mi permettono di sintetizzare alcune idee portanti dell’autobiografia come dialogo.
Ho scoperto Carla Lonzi molto dopo avere terminato i miei studi di Storia dell’Arte nella stessa università che l’ha vista laureare con Roberto Longhi, quella stessa università che ha mantenuto un’impronta formalista e longhiana e non mi ha permesso di scoprire la dimensione della vita nel lavoro artistico che si rifletteva nel linguaggio critico, lasciandomi in un certo senso orfana e in una ricerca costante di coordinate che rispondessero più profondamente a ciò che sentivo come la strada da intraprendere.
Il mio interesse per Carla Lonzi è anche motivato da suo interesse al dialogo come strumento nella costruzione e trasformazione di sé. Uno dei contributi più interessanti che Lonzi ci lascia è proprio la ricerca di un linguaggio, che mescola necessariamente arte e vita e fa del discorso autobiografico una forma continua di confronto e di dialogo.
«Cercare di appartenervi e vedere crollare il ruolo di critico è stato tutt’uno. Cosa rimane adesso che ho perso questo ruolo all’interno dell’arte? Sono forse diventata artista? Posso rispondere: non sono più estranea». (C.Lonzi, Autoritratto)
Nei suoi scritti iniziali di critica d’arte, Lonzi cerca di fare luce su un legame inscindibile fra la pratica dell’artista e il modo in cui questa traspare nel discorso che la racconta. Questa tensione e attrazione si fa spazio nell’interesse per artisti che includono il gesto e l’oggetto quotidiano. Gli articoli, gli interventi fino alla pubblicazione di Autoritratto (1969), saranno il tentativo di Lonzi di reinventare un discorso dell’arte e sull’arte come testimonianza di una comunità, come costruzione di un autore collettivo. Questo tentativo, come è noto, fallirà e Carla Lonzi abbandonerà definitivamente il mondo dell’arte e degli artisti, di cui voleva essere non osservatrice passiva o all’opposto musa. La tensione verso un autore collettivo sperimentato in Autoritratto troverà spazio nei gruppi femministi di Autocoscienza, dove si esplicita il “soggetto imprevisto” (un soggetto che si costruisce in opposizione alla nozione del soggetto astratto e universale ereditato dalla tradizione modernista e dal pensiero filosofico moderno).
Lo scambio di esperienze personali e la costruzione di una autorialità collettiva sono essenziali nella storia dei collettivi femministi, luoghi dove le donne hanno fatto “teoria sulla propria pelle”, includendo il corpo e la vita nella percezione di sé e nell’incontro con l’altro. Di questa esperienza parla anche un’altra autrice che ha contribuito alla costruzione del mio punto di vista.
Ho incontrato Adele Cambria per caso, su una bancarella di libri usati a Palermo dove ho comprato In principio era Marx. Rilettura femminista della vita e dell’opera del fondatore del socialismo scientifico (1978, Milano). Il libro è rimasto nel mucchio di quelli da leggere per molti mesi. Sin dall’introduzione, ho trovato interessante il suo approccio metodologico. Cambria scrive, dialogando con Lina Mangiapane appartenente al collettivo napoletano, che il libro è il frutto delle discussioni e delle esperienze del Movimento: «Però il libro porta il mio nome: quindi ho derubato le altre?» (A.Cambria, In principio era Marx, p.10)
Il dialogo fra le due donne tocca alcuni nodi essenziali di quegli anni ma risuona ancora adesso: il discorso corale di cui Adele Cambria si sente parte accresce la consapevolezza di un’autorialità diffusa nata dal dialogo con le altre donne che l’autrice poi riunisce e sintetizza nel libro. Il collettivo diventa il luogo della sintesi di storie diverse che riecheggiano in problematiche comuni.
Le voci di Cambria e Lonzi (e altre qui non menzionate), sebbene non direttamente incluse nel mio percorso educativo, erano sicuramente parte del panorama culturale degli anni della mia crescita. Nel riconoscere la mia posizione critica come un lungo processo di esperienze che si sono dipanate nello spazio e nel tempo, queste hanno risuonato nella me adulta permettendomi di trovare alcune delle radici che avevo perso, di ricostruire per assonanza e per differenza ciò che mi ha lentamente strutturato. Riconosco attraverso di loro la mia tensione verso la necessità di costruire autobiografie che crescono nel dialogo e che raccontano l’arte a partire dalla sua esperienza di profonda connessione con la vita. Questo è il senso di uno sguardo indietro, non nostalgico, ad alcuni testi del dibattito femminista anni ’70, che sono piuttosto patrimonio respirato e trasformato lungo gli anni della mia esperienza professionale in un processo continuo di ri-significazione, dove il “personale che diventa politico” non è uno slogan vuoto ma al contrario si trasforma continuamente e si arricchisce situandosi nel pensiero contemporaneo.
Lo spazio della natura, il dialogo, la creazione di piccole e grandi comunità
Questa prima mostra presenta il lavoro di Chiara Camoni e Stefania Galegati con delle opere che contengono in sé diverse vite che si sono intrecciate e che hanno preso forma.
Tutte le opere presentate, due nuclei distinti di lavori delle due artiste e un lavoro collettivo, hanno un carattere di forte condivisione dei processi creativi e propongono un’attenzione all’esperienza dell’artista come parte di un campo di lavoro allargato nel quale si intrecciano riflessioni e materiali con piccole e grandi comunità di persone.
Di Stefania Galegati è presentato un importante nucleo lavori su tela, carta e altri supporti riciclati che ritraggono l’isola delle Femmine (Palermo). Isola delle Femmine è un isolotto disabitato, situato sulla costa della piccola cittadina da cui prende il nome. Dal 1997 è riserva naturale della Regione Sicilia ed è gestita dalla LIPU.
Isole delle Femmine è un progetto complesso fatto di molti elementi diversi: collettivi, performativi, oggettuali. Uno di questi è il progetto utopico e reale allo stesso tempo di riunire moltissime donne per comprare insieme l’isola, messa in vendita nel 2017. L’intuizione dell’acquisto nasce come atto di riappropriazione al femminile, un gesto simbolico di resistenza contro la dittatura dell’utile. È un progetto in fieri che ha visto la nascita di un’associazione culturale che gestisce il complesso lavoro di acquisto (le Femminote: fondata nel 2020 da Valentina Greco, Stefania Galegati e Claudia Gangemi in collaborazione con Marcela Caldas) e ne alimenta la riflessione. Parallelamente, Stefania Galegati realizza una numerosissima serie di ritratti dell’Isola sui quali trascrive, mentre lo legge, Il Secondo Sesso di Simone de Beauvoir. La lettura di un testo fondamentale del pensiero femminista della nostra storia recente è motivo di riflessione critica dei temi proposti. Il testo che si dipana sulle Isole (alla fine saranno centinaia) rende anche questo progetto pittorico un lungo gesto performativo che accompagnerà la produzione dell’artista per molto tempo.
Chiara Camoni presenta un lavoro realizzato insieme a un gruppo di persone durante un workshop a Villa Romana nel giugno del 2020. Il workshop ha proposto una riflessione sulla relazione fra arte e vita: il giardino di Villa Romana è stato il punto di partenza per l’osservazione di un mondo antropico, vegetale e animale nel quale ci siamo immersi facendo parte di quell’equilibrio. Il tempo dell’azione è stato intervallato da letture e dialoghi. Fiori e foglie sono stati protagonisti di un processo di stampa vegetale su seta, sulla quale sono apparse creature vegetali. Il processo di realizzazione delle sete è durato due giorni. Abbiamo sistemato i fiori, abbiamo bagnato e arrotolato le sete, e le abbiamo lasciate lì per la notte. Erano ancora bagnate quando le abbiamo appese con delle pinze su un filo di metallo che avevamo legato fra due alberi. Come bucato al sole il colore dei corpi vegetali ha svolazzato davanti ai nostri occhi. Ci siamo seduti in un cerchio sparso sull’erba davanti a quei protettori del giardino che diventavano sempre più verdi, gialli, violetti. Ci sono stati dei momenti di silenzio, come a fare spazio a queste presenze che si univano al gruppo. “Ha la faccia tonda’, “ha una corona in testa”, “ha le gambe piccole e storte”, “ha la gonna”, “la sua bocca è enorme”, “a me la bocca sembrava quell’altra più sopra”, “noo quello è il naso!”.
Questi abitanti organici sono in mostra presentati in Tenda #3, una leggera struttura circolare di ottone che le riunisce in cerchio, e le fa coabitare insieme agli altri esseri umani e animali della Villa.
La sala grande presenta un lavoro corale realizzato in occasione della mostra che riunisce più voci: le ricerche delle due artiste con le parole e le azioni realizzate insieme a Sandra Burchi, Cecilia Canziani, Daria Filardo, Elena Magini, Arabella Natalini.
Ci accoglie un grande tavolo, sul quale sono stati preparati dei cappelletti, guidati da Stefania Galegati, e attorno al quale abbiamo mangiato, dove sono state lette parole e intrecciate riflessioni. Questo è stato il luogo conviviale dove è avvenuto il dialogo sui temi proposti nella mostra: l’intreccio fra la vita e la pratica artistica, la cura, il partire da sé per dialogare e tessere relazioni che vanno sempre al di là di individualità singole, la costruzione di un’autorialità collettiva in cui riconoscersi e perdersi.
Chiara Camoni ha realizzato dei piatti a motivi floreali di grès smaltato con cenere vegetale e sabbia di fiume, Stefania Galegati ha realizzato un intervento su una sfoglia di pasta e ha lasciato una traccia di un’azione giocosa, visionaria e fallimentare insieme come fare un buco nell’acqua. Ci siamo interrogate su cosa rimane e come lasciare tracce delle parole e delle azioni che ci hanno unito, quale forma dare alle storie personali che risuonano in tante di noi, come raccontare il tempo “in presenza” vissuto, agito, descritto, parlato. Gli sviluppi di questo incontro, non visibili nell’immediato, si potranno rintracciare in forme, narrazioni e avvenimenti futuri.
Settembre 2021