Esiste una linea di demarcazione netta tra la ricerca architettonica e quella artistica, ma spesso accade che nello sguardo degli architetti l’arte produca un immaginario capace di dare forma, una volta elaborato, allo spazio che viviamo.
Un architetto, Costantino Dardi, tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta realizza una serie di allestimenti, istallazioni e progetti di musei in cui l’arte non è assorbita dal linguaggio ma diventa un vero e proprio strumento operativo.
Il suo lavoro, di natura astratta e concettuale, rappresenta un fertile terreno di ricerca ancora oggi, applicabile più che replicabile. Scrive Dardi: «Non è rintracciabile, a monte della mia attività sperimentale, un disegno teorico accuratamente preformato, ma emergono piuttosto da essa alcune linee di tendenza, correlate tra loro da una dialettica interna intrecciata all’esterno da contributi del contemporaneo».1
Un libro importante alla base di molte sue riflessioni è L’oggetto ansioso di Harold Rosenberg del 1967, non è un caso che lo si trovi sempre nei programmi dei suoi corsi di progettazione all’università: in questo testo, Informale, Pop Art, Minimalismo, Arte concettuale determinano la totale trasformazione dell’oggetto artistico.
In quegli anni, infatti, l’arte supera le forme di rappresentazione tradizionali: modelli, plastici, rappresentazione fotografica, strutture configurazionali sono alla base delle più significative esperienze artistiche. Questi nuovi strumenti si rivelano come fonte prioritaria del ragionare di Dardi, che riflette sulla relazione tra arte e architettura in un testo dal titolo emblematico, Tangenziale. In questo scritto del 1978 egli definisce il rapporto tra ricerca e nuova architettura prendendo spunto dalla mostra alla galleria Lastaria di Roma curata da Italo Mussa. Nello specifico, Dardi fa riferimento alla condizione contemporanea quando sostiene che, al contrario delle pratiche moderniste, dov’è sempre un manifesto o un programma a condurre la verifica di una proposizione linguistica, sono fondamentali la contaminazione e i rapporti di tangenza tra le arti.
Oltre a questa curiosità intellettuale, Costantino Dardi aveva una vera e propria passione per l’ambiente artistico datata almeno dall’amicizia post liceale con il pittore Giuseppe Zigaina, rafforzata da quella con Filiberto Menna e consolidata definitivamente dal matrimonio con Elisa Montessori, senza dimenticare le frequentazioni con Alighiero Boetti, Achille Bonito Oliva, e non ultima l’osservazione attenta del mondo delle gallerie che in quegli anni a Roma presentano numerose mostre sperimentali.
La sua è anche una formazione classica costruita attraverso lo studio dei grandi artisti: Piero della Francesca, Cézanne, Canaletto, Giotto. Di questi artisti lo affascina l’uso della geometria, intesa come legge anti-ideologica di organizzazione dello spazio e strumento utilizzato per verificare l’immagine che diventa canone, principio, struttura, geometria dell’idea. L’immagine non è rappresentazione ma costruzione del progetto, è un’elaborazione mentale dello spazio.
Un’analisi critico-operativa degli affreschi di Piero della Francesca nella Chiesa di San Francesco ad Arezzo assumerà il ruolo di immagine-simbolo in cui si riflette l’essenza della sua ricerca, dove vanno a coagularsi le tensioni ideali che percorrono il suo impegno di progettista. Nella serie di affreschi legge una stretta intima unità tra il dentro e il fuori, tra l’architettura e il paesaggio. Scrive: «Il ciclo di Piero nella Chiesa di San Francesco ad Arezzo organizza per la prima volta entro un serrato dispositivo il più vasto repertorio di geografia e di luoghi, sottoponendo paesaggi ed architetture ad una ricognizione ad un tempo minuziosa ed astratta, descrittiva e concettuale, teorica e analitica».2
È la prospettiva che in epoche diverse, con le sue regole geometriche, tiene assieme natura, architettura, struttura urbana. Quando scrive di Canaletto, descrive così il dipinto che rappresenta il bacino di San Marco a Venezia: «[…] grande vuoto naturale, spazio urbano fatto di gondole e barchini, sullo sfondo le chiese e i palazzi rive e campanili a far da struttura, al centro un intricarsi di alberi vele e corde […] maglie di uno spazio aereo trasparente, leggero e vibrante a far da contraltare alla struttura, a porsi e costruirsi come controspazio e antistruttura».3
Con queste parole Dardi evidenzia come l’architettura della città sia composta di una struttura creata dagli edifici e da elementi effimeri che ne rendono eterno il valore.
Crede nei solidi platonici come si può credere nell’ombra del paradiso perduto, è guidato da una volontà di interpretare la natura attraverso le forme pure: il cubo, la sfera, la piramide, seguendo la lezione di Cézanne, che riduceva a unità l’imprevedibile complessità della natura attraverso le rigorose trame geometriche che la sua mente ha pensato per liberarsi del caos naturale e sottometterlo. Se il classico lo fa ragionare sull’immagine dell’architettura, le ricerche estetiche a lui contemporanee gli forniscono gli spunti per creare le figure generatrici dei suoi progetti e gli suggeriscono un modo di leggere il disegno del territorio, permettendogli di creare modelli organizzativi spendibili in vari contesti.
Sol LeWitt, con le sue strutture spaziali, lo guida verso un uso della griglia che struttura e organizza lo spazio, sia esso lo spazio di un interno da allestire per una mostra, lo spazio dell’architettura o del paesaggio. La griglia spaziale gli consente di gestire tutte le scale del progetto.
Infine il lavoro di Christo, che nel suo impacchettare le mura Aureliane, per la mostra Contemporanea del 1973, restituisce pienezza di significato agli elementi monumentali che avranno un ruolo fondamentale nei progetti di allestimento di Dardi. Nell’allestimento della mostra curata da Bonito Oliva Avanguardia Transavanguardia, infatti, cerca un rapporto tra gli oggetti della storia e l’astrazione del contemporaneo; se Christo impacchetta le mura, Dardi ne rilegge, come avrebbe fatto Cézanne, la geometria.
Al sistema delle torri sul lato interno contrappone dei cubi bianchi realizzati in struttura metallica e tela bianca, stanze organizzate sul percorso interno.
Ma è Daniel Buren a rappresentare il riferimento perfetto. Buren, infatti, radicalizza l’opera trasferendo l’attenzione sul rapporto tra il supporto e la forma quando nel 1967 inizia a esplorare le potenzialità delle strisce a contrasto come segno, passando dall’oggetto pittura a ciò che l’artista definisce un puro strumento visivo. Utilizza colori primari, piatti, lisci, senza accenni a sfumature. Pura geometria e astrazione. È proprio questa astrazione ad attirare l’interesse di Costantino Dardi, che è sempre alla ricerca di uno strumento visivo che lo aiuti a superare l’idea di architettura come linguaggio, rovesciando i modelli che nello stesso periodo i suoi colleghi portavano avanti. Lo fa mediante la moltiplicazione dei punti di vista e il capovolgimento delle prospettive, attraverso le interferenze visive prodotte dalla struttura a fasce parallele, che rappresenta una struttura urbana non figurativa ma astratta, che emerge comunque dal territorio e dai paesaggi agricoli. Dalla sovrapposizione e collisione tra questi due sistemi emerge il progetto.
Scrive Dardi: «[…] dal punto di vista compositivo è necessario mettere in campo nuovi strumenti, puntare, piuttosto che sulle forme e sulle loro composizioni, sul vuoto di relazioni e correlazioni. Accettare cioè un modello compositivo intrusivo ed aperto».4
Nel progetto per la mostra Roma Interrotta mette insieme la capacità analitica del Nolli, che viene utilizzata come materiale progettuale, e la capacità critica di Piranesi, che decreta la fine dell’unità organica della città. Attraverso l’uso della configurazione a fasce parallele definisce un campo d’azione in cui trova spazio una struttura capace di ridisegnare i luoghi della città.
Le fasce si adattano al contesto diventando di volta in volta spazi costruiti, paesaggi, vuoti urbani. Dardi disegna le relazioni all’interno di una Roma contemporanea che recuperi in profondità il ruolo e i segni della Roma antica.
Nell’organismo comunitario ONAOSI a Perugia, il sistema delle fasce non trova giustificazioni in ragioni contestuali, è più una superficie astratta, le fasce non aderiscono all’orografia né alle trame vegetazionali delle culture autoctone, il progetto è frutto di una manipolazione concettuale di un segno.
In questo progetto sono le relazioni tra i sistemi a generare una tensione tra le parti. Gli edifici del collegio sono disposti in terrazzamenti pensati come corrugamenti di alcune delle fasce, le nuove figure architettoniche operano con i materiali e i ritmi del contesto.
Dardi non lavora attraverso figure ma attraverso lo sfondo, è il vuoto a generare relazioni tra i diversi materiali presenti nel campo, il progetto quindi non è più oggetto ma sistema di relazioni.
È finalmente nella mostra Duetto alla galleria A.A.M. di Roma, prodotta da Francesco Moschini, che si concede al mondo dell’arte dialogando con Giulio Paolini attraverso cinque incisioni con cui definisce i suoi sistemi linguistici, strumenti attraverso i quali dare forma alla propria architettura: cinque incisioni che corrispondono ognuna a uno degli strumenti canonici della rappresentazione architettonica: la pianta, la sezione, il prospetto, l’assonometria, la prospettiva. Questi 5 disegni sono il manifesto della sua teoria.
Molti degli artisti che ho citato utilizzano la fotografia, considerandola sempre un mezzo e non un fine, un supporto alle proprie ricerche e non un linguaggio espressivo.
Per Dardi la fotografia è uno strumento essenziale di osservazione della realtà e anche uno strumento operativo.
Le sue lezioni sono sequenze di immagini atte non a dimostrare con fermezza una tesi ma a creare una serie di sguardi che ci fanno muovere tra storia e realtà del contemporaneo, un uso della fotografia capace di documentare un processo di accumulazione di idee. Se si pensa alla grande immagine della facciata del Palazzo delle Esposizioni di Piacentini sovrapposta alla facciata stessa, un’operazione di sdoppiamento del reale, non possiamo non pensare ad Alighiero Boetti e al suo doppio, ritratto in un famoso scatto.
La fotografia è utilizzata per sottolineare ed enfatizzare alcune idee, Ed Rusha per esempio quando fotografa i Boulevard di Los Angeles definisce una sequenza spazio temporale precisa, che poi negli anni a venire sviluppa attraverso la pittura.
Così fa Dardi con la sequenza fotografica delle moschee a Djerba, dimostra la sua tesi sull’uso dei solidi platonici come matrici del progetto di architettura: «è nella città araba che queste figure assolute, queste condizioni-limite della figurazione e della forma mi hanno rivelato qual è il loro passaggio più vero: percorrendo le piste di sabbia, bordata dalle agavi, dell’isola di Djerba, ho scoperto centinaia di piccole moschee, ove le forme primarie dei solidi platonici, il cubo la sfera un cilindro combinano le loro relazioni sempre nuove secondo mutazioni che sembrano guidate da una norma matematica».5
Dardi scompare giovane, nel momento in cui tutta la parte più sperimentale del suo lavoro si sta traducendo in qualcosa di reale; scompare e lascia un vuoto incolmabile, perché è stato l’architetto che ci avrebbe traghettato in un’altra fase dell’architettura, meno accademica e più operativa. Quel vuoto non siamo ancora riusciti a colmarlo e la storia dell’architettura italiana è ancora spezzata in due.
Arte e Critica, n. 97-98, primavera – estate 2023, pp.48-50 .
1. C. Dardi, Semplice lineare complesso l’acquedotto di Spoleto, presentazione di F. Moschini, Edizioni Kappa / A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma 1987, p. 15.
2. C. Dardi, Architetture in forma di parole, a cura di M. Costanzo, Quodlibet Studio, Macerata 2009, p. 128.
3. Appunti per lezioni, Archivio MAXXI, manoscritto.
4. C. Dardi, “Il paesaggio dell’arte e la casa delle muse”, in C. Dardi, Architetture in forma di parole, cit., p. 143.
5. C. Dardi, “Architettura parlante e archeologia del silenzio”, in C. Dardi, Architetture in forma di parole, cit., p. 130.