Nella pratica di Emma Talbot il disegno gioca un ruolo chiave. Molto più di un approccio alla rappresentazione o di una scelta stilistica, il disegno è sostanziale nella maniera in cui funziona come una sorta di portale attraverso cui prendono forma visioni sommerse, ancestrali, di altre epoche e mondi, spesso messe in dialogo con situazioni che riconosciamo come familiari. Il disegno assume fattezze poliedriche: può essere parimenti immagine e testo calligrafico, può ricoprire diversi supporti e tessuti, comporsi in arazzi e allestimenti altamente immersivi, può concretizzarsi in forme in tessuto tridimensionali fino a migrare, attraverso ritagli, in animazioni digitali che l’artista ha iniziato a realizzare in tempi relativamente recenti, durante la prima ondata pandemica.
Oltre una visione bidimensionale della rappresentazione, oltre una visione modernista di uno spazio della raffigurazione limitato e limitante in cui inscrivere i vari elementi, Talbot sceglie spazi e tempi differenti per riflettere sull’esistenza individuale e collettiva. Spazi diversi da una superficie predeterminata e fissa, come ad esempio una tela, a favore di supporti morbidi e leggeri, quali seta e tessuti o l’immagine digitale; e, parallelamente, anche un’organizzazione dello spazio interno all’opera distante dalla prospettiva rinascimentale e dal principio di verosimiglianza, dunque post-antropocentrica, fluida, aperta. Tempi differenti sia nella lettura dei lavori – che non forzano lo sguardo verso direzioni prestabilite –, sia nella narrativa interna che li articola che privilegia la non linearità.
Paradigma della sua riflessione sulla condizione umana è la figura femminile. Nascendo come una proiezione dell’artista stessa – ed è per questo motivo che quella di Talbot è una creatura senza volto, proprio per l’impossibilità di autorappresentarsi – questa figura assume sempre valenze universali, pur trovando la propria origine in un moto intimamente interiore. La figura femminile diventa come la fibra costitutiva di un universo in cui il reale convive con un mondo “altro”, rappresenta gli esseri umani tutti, la terra, la natura. È esistenza e al contempo sua negazione, può diventare anello di congiunzione tra queste due sfere. In generale, la condizione umana fa parte di un divenire più ampio, come un eterno flusso che include ciò che è riconoscibile ma anche quello che sfugge a una identificazione, in questo flusso è possibile isolare alcune tappe o momenti fondamentali, in primis la nascita.
Nella mostra Sounders of the Depths al GEM de L’Aia (ora KM21), del 2019, Talbot presenta una complessa installazione dal titolo Your Birth, The Epic Historical Moment You Can’t Remember: venire al mondo è il primo momento epico della condizione umana e ne è al contempo un paradosso. Un inizio fondamentale che è impossibile ricordare perché troppo lontano, pur essendo qualcosa di realmente accaduto è un evento che ricade in una sfera mitica (e la soglia di interscambio tra mito e realtà è un altro elemento ricorrente nella ricerca dell’artista).
In questa installazione, i disegni diventano sculture tridimensionali realizzate in tessuto dipinto e poste su una piattaforma. Osserviamo da un lato un corpo femminile che sta mettendo al mondo un bambino, dalla parte opposta la stessa figura intenta a scattare un selfie (dunque a trasferire su un piano di realtà virtuale quello che sta accadendo), sulla piattaforma giace anche il corpo di un bambino con ancora il cordone ombelicale. Le sculture si offrono allo sguardo come reperti di un’epoca antica, elementi di un passato da riannodare al presente.
Nel lavoro di Emma Talbot ciò che sfugge a una sorta di riconoscimento o classificazione è altrettanto importante rispetto a quello che è riconosciuto come noto o familiare. La creatura femminile che si concretizza nelle sue opere si trova spesso in un contesto ostile, è uno spazio che la schiaccia dove esistono strutture rigide che opprimono, trappole e vortici che catturano. Il volto non si mostra. Il corpo, a volte ripiegato altre volte inarcato, fluttua, scivola, cade, è fragile e forte al tempo stesso perché, anche se in difficoltà, persevera nel suo incedere. Nella rappresentazione di un universo post antropocentrico, se le forme rigide rappresentano le sovrastrutture ideologiche, mentali, psicologiche come i meccanismi di controllo e di pressione sociale, quelle curve sprigionano energie vitali, organiche, spirituali ricalcando alle volte in maniera molto diretta le forme del ventre materno e dell’apparato riproduttivo femminile.
All’estremo opposto della nascita vi è la morte, altra tappa fondamentale della condizione umana affrontata da Talbot nella mostra Ghost Calls presentata nel 2021 presso il DCA – Dundee Contemporary Arts, in Scozia. In questa occasione la riflessione dell’artista prende forma a partire dalle suggestioni legate alla visione di un dipinto del pittore simbolista John Duncan, The Riders of the Sidhe, 1911, conservato presso il McManus di Dundee. In quest’opera Duncan si riallaccia alla mitologia celtica, epoca che risponde perfettamente alla necessità di Talbot di coltivare un dialogo con un tipo di rappresentazione prerinascimentale e soprattutto con il folklore in quanto espressione di uno slancio immaginativo che si pone come crocevia tra reale, inconscio collettivo e dimensione spirituale. In particolare, ciò che cattura l’attenzione di Talbot è la figura di una donna il cui ruolo è essere tramite tra il mondo dei vivi e dei morti.
Nella tradizione celtica, le Keening Women sono un anello di congiunzione tra la vita e la morte: da un lato con il loro canto (in realtà più precisamente si tratta di lamenti vocali, dunque di una forma di espressione non-verbale similare alla funzione della parola materna) aiutano la famiglia nell’elaborazione della perdita, dall’altro la loro voce traghetta lo spirito dei morti verso l’aldilà. Nel grande arazzo presentato in questa esposizione, Talbot descrive i postumi di un trauma significativo (la stessa idea di rottura vi è anche nell’opera When Screens Break commissionata nel 2020 da Eastside Projects, dove la frattura è tra un mondo virtuale e quello reale e tangibile), dunque assistiamo alla presa di coscienza di ciò che ne consegue.
Le figure femminili presenti nell’arazzo sono appunto delle Keening Women, delle mediatrici che consentono di vivere il dolore per andare oltre. Le vediamo tra le macerie, vicine a vortici, ancorate a una roccia a piangere una sorta di dolore universale, accanto a salici (per il popolo celtico albero legato al femminile e al lunare), fluttuanti insieme a uccelli che le prenderanno poi in carico. Le scene dei pannelli che compongono l’arazzo sono completate da un’animazione in cui una di queste creature vive un’esperienza rituale entrando nell’occhio cavo di un’enorme testa di donna – che simboleggia la morte – esplorandone le interiorità, per poi uscirne e scivolare verso la luna.
Il tutto funziona come un monito alla contemporaneità, “il fantasma che chiama” (appunto il titolo Ghost Calls) è il fantasma del XX secolo che vede nel nostro tempo delle caratteristiche similari a quelle che hanno portato alle grandi catastrofi del cosiddetto secolo breve. Lo scenario è devastante, ma siamo ancora in tempo per cambiare: una scritta calligrafica sullo sfondo di una luna dell’ultimo pannello dell’arazzo recita «This is not the end / let’s use the time we have together / embracing / a forward movement without fear».
La figura femminile dei lavori di Talbot cerca sempre di sintonizzarsi con una dimensione che va oltre il reale e quest’azione è in una qualche misura salvifica perché porta consapevolezza e mira a prospettare nuovi futuri possibili. Emblematica la scultura tessile Drawing Woman dove vediamo una donna appoggiata su una roccia che ha la forma di una testa, ella sogna e proietta quello che sta sognando, una visione che suggerisce come la sensibilità artistica sia veggente connettendo mondi diversi e raccontandoli per indurre maggiore consapevolezza. Da qui la figura dell’artista funziona come un portale da cui i pensieri prendono forma come immagini e testi in una sorta di flusso continuo che viene poi filtrato, organizzato e composto per creare ambienti altamente immersivi, in cui la componente sonora funziona da principio armonizzante tra i vari elementi.
Dalla vincita del Max Mara Art Prize for Women – premio promosso dalla Collezione Maramotti di Reggio Emilia e dalla Whitechapel Gallery di Londra – l’artista ha avuto occasione di viaggiare in Italia, nel corso del 2022, tra Reggio Emilia, Roma e la Sicilia, per sviluppare due importanti progetti espositivi, di cui la prima tappa è stata appunto la Whitechapel e la seconda la Collezione Maramotti. La residenza l’ha condotta ad approfondire le tecniche di tessitura in collaborazione con artigiani locali e con la Modateca Deanna, dove ha potuto confrontarsi con un ricco archivio di produzioni tessili, e parallelamente le ha permesso di immergersi nel paesaggio e nel territorio italiano: dalla Sicilia dell’Etna, dove ha esplorato la pratica agricola della permacultura, ai siti archeologici, dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, dove ha trovato nell’opera di Klimt Le tre età della donna (1905) la figura chiave che ha articolato il suo discorso poetico: la donna anziana curva che nasconde il suo viso tra le mani e che rappresenta l’ultimo stadio della vita, la vecchiaia.
Ancora una volta osserviamo un ribaltamento radicale: non un corpo giovane, non una cristallizzazione di una proiezione del desiderio maschile, ma un corpo maturo; non una donna che vive dello sguardo altrui ma che esiste per se stessa e in questo fonda la sua libertà. Questo corpo diventa dunque Eroe, sarà chiamato a ripercorrere episodi della mitologia greco-romana legati alle fatiche di Ercole, facendo leva su una forza che non è fisica bensì spirituale, data dal tempo e dall’esperienza. La pelle di donna anziana diventa una «armatura», secondo le parole dell’artista, armatura che Talbot ha ritrovato nei diversi musei visitati a Roma e che ha visto come un modo «di proteggere il soldato ma anche come una proiezione di una sensazione di forza sovraumana».
Quest’immagine di donna diventa una figura reale, una scultura in tre dimensioni che «interagisce con un’altra forma – “qualcosa di intangibile” con un buco al centro – potrebbe essere una rete, una mappa antica, un occhio, un utero, una vulva, una struttura microbiologica oppure qualcosa di magico. Si tratta di un modo per dimostrare che la sua conoscenza è maturata attraverso la sua esperienza e le interazioni con l’universo».
Una lettura differente e alternativa di un’opera importante della storia dell’arte torna anche nel lavoro realizzato per la 59. Biennale di Venezia, il riferimento è al dipinto di Paul Gauguin D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? (1897-1898). Nel grande arazzo presentato da Talbot ritroviamo l’idea di frattura, di crisi del presente ma anche di critica verso il passato, verso la prospettiva in cui è stata letta e raccontata la storia. Secondo le parole dell’artista: «siamo a un punto di crisi e l’attuale insieme di strutture su cui ci basiamo è palesemente non funzionante. Abbiamo bisogno di un cambiamento radicale per gestire la nostra sopravvivenza».
L’opera, come la ricerca di Talbot in generale, pone dunque degli interrogativi su come scrivere una nuova storia suggerendo che forse, in questo nuovo cammino, sarà necessario affidarsi a nuovi paradigmi, «modelli di cura empatici» appresi dal mondo della natura e dalla sfera del femminile.
Arte e Critica, n. 97-98, primavera – estate 2023, pp. 17-23.
FROM THE LUNAR SIDE. NEW PARADIGMS FOR A NEW WORLD
Emma Talbot’s practice reserves a key role for drawing. Much more than an approach to representation or a stylistic choice, her drawing serves a substantial function as a sort of portal through which submerged and ancestral visions of other ages and worlds acquire form, often engaged in dialogue with recognisably familiar situations. Her drawing assumes multifaceted attributes: it can be at once image and calligraphic text, it can roam varied surfaces and fabrics, it can arrange itself into highly immersive tapestries and installations, it can solidify into three-dimensional textile forms or even migrate via cutouts into the digital animations that the artist began making relatively recently, during the first wave of the pandemic.
Beyond a two-dimensional approach to representation, beyond a modernist vision of limited and limiting descriptive spaces in which to interpolate her various elements, Talbot chooses alternative spaces and times to reflect on individual and collective existence. Spaces that eschew such predetermined and fixed surfaces as canvas in favour of such soft and lightweight supports as silk and cloth or the digital image. She concurrently opts for an organisation of works’ internal space far removed from Renaissance perspective and the principles of verisimilitude – and thus, post-anthropocentric, fluid, open. Different timescales both in the reading of the works – which do not force the gaze in preconceived directions – and in the internal narrative that articulates them, which prioritises non-linearity.
Talbot’s female figures are paradigmatic of her reflection on the human condition. Derived from projections of the artist herself (indeed, they are faceless creatures because of the very impossibility of self-depiction), her figures always take on universal connotations while owing their origin to intimate and inward motives. The female figure becomes something akin to the constitutive fibre of a universe in which the real coexists with an ‘other’ world. She represents all human beings, the earth and nature. She is at once existence and its negation; she can become a link between both poles. More generally, the human condition forms part of a larger becoming, a manner of eternal flux that accommodates recognisable things but also those that elude identification. Certain milestones or crucial moments can be isolated in that flux, birth foremost.
In the 2019 exhibition Sounders of the Depths at The Hague’s GEM (now KM21), Talbot presented a complex installation entitled Your Birth, The Epic Historical Moment You Can’t Remember, in which entering the world is both the human condition’s first epochal moment and one of its paradoxes. A first beginning that can never be recalled because it is too distant. An event that, while having genuinely taken place, inhabits a mythic sphere (whereas the threshold of interchange between myth and reality constitutes another recurring element in the artist’s practice).
In the latter installation, drawings become three-dimensional sculptures executed in painted fabric and positioned on a platform. On one side a female body appears giving birth. On the other, the same figure intently takes her selfie (thus relocating the event to a virtual plane). Also sprawled on the platform is the figure of an infant, umbilical cord intact. The sculptures present themselves to the viewer’s gaze as relics of an ancient era, elements of a past to be rewoven into the present.
In Emma Talbot’s work, the things that elude any sort of recognition or classification are as important as those apparently known or familiar. The female creature who coheres in her works often finds herself in a hostile context: a space that constricts her, in which rigid structures oppress, where traps and whirlpools capture. Her face is not revealed. The body – sometimes folded, sometimes arched – fluctuates, slides, falls, is at once fragile and robust in that even under duress it maintains its stride. In these evocations of a post-anthropocentric universe, rigid forms represent ideological, mental and psychological superstructures such as mechanisms of control and of social pressure. Meanwhile curved forms unleash vital, organic, spiritual energies, tracing – sometimes very directly – the forms of the womb and the female reproductive system.
At the opposite pole to birth is death, another critical phase in the human condition and one addressed in Talbot’s 2021 exhibition Ghost Calls at Dundee Contemporary Arts, Scotland. On this occasion, the artist’s reflections were informed by impressions gathered through the contemplation of Symbolist painter John Duncan’s 1911 work The Riders of the Sidhe, held at The McManus in Dundee. Duncan’s work revisits Celtic mythology, a reality that perfectly responds to Talbot’s imperative of sustaining dialogue with pre-Renaissance communicative forms, folklore especially, in their capacity as expressions of an imaginative impulse situated at the crossroads between reality, the collective unconscious and a spiritual dimension. In particular, Talbot’s attention has been captured by the archetype of the woman who functions as conduit between the world of the living and the dead.
In Celtic tradition, Keening Women formed a link between life and death: their song, on one hand (more precisely, they were in fact vocal laments and thus a form of non-verbal expression akin to the function of maternal speech), helped families to process their loss, while on the other hand their voices ferried the spirits of the dead to the afterlife. The large tapestry created for the exhibition depicts the aftermath of significant trauma (the same idea of rupture that pervades the work When Screens Break, commissioned by Eastside Projects in 2020, in which the rupture occurs between virtual and real, tangible worlds), making us witnesses to a growing awareness of its consequences.
The tapestry’s female figures are none other than Keening Women, mediators who facilitate the experience of pain so that sufferers might pass beyond it. They appear among the rubble, near whirlpools, anchored to rocks as they give vent to a sort of universal grief, beside willows (for the Celts, a tree associated with woman and the moon), floating in the company of birds that will later take them into their care. The scenes filling the tapestry’s panels are complemented with an animation in which one of these creatures undergoes a ritual experience, entering the hollow eye of a huge woman’s head – symbolising death – and exploring its interior, then emerging and ascending toward the moon.
The work’s whole serves as an admonition to the contemporary. ‘The calling ghost’ is the ghost of the twentieth century, who perceives attributes of our time alike to those that spawned the great catastrophes of the so-called short century. The scenario is perilous, but there is still time to change: a calligraphic inscription on a lunar backdrop in the tapestry’s last panel reads, “This is not the end / let’s use the time we have together / embracing / a forward movement without fear.”
The female figure in Talbot’s works always seeks to attune herself to a dimension beyond reality. This action is somewhat salvific in that it cultivates mindfulness and serves the aim of visualising new potential futures. Emblematic of this is the textile sculpture Drawing Woman, in which a woman leans against a head-shaped rock, dreaming and projecting her dream: a vision that frames the artistic sensibility as a clairvoyance that unites and narrates different worlds, stimulating heightened awareness. Hence Talbot herself functions as a portal through whom thoughts assume form in a sort of continuous flow of images and text that is duly filtered, organised and composed into highly immersive environments whose aural component constitutes a harmonising principle between their various elements.
Since winning the Max Mara Art Prize for Women – a prize sponsored by the Collezione Maramotti in Reggio Emilia and the Whitechapel Gallery in London – the artist has been given the opportunity to journey across Italy over the course of 2022. Talbot travelled through Reggio Emilia, Rome and Sicily while developing a major exhibition installed in two consecutive locations, the first of which was the Whitechapel Gallery and the second the Collezione Maramotti. The residency allowed her to further explore weaving techniques in collaboration with local artisans and the Modateca Deanna, where she was able to engage with a rich archive of textile creations, while simultaneously allowing her to immerse herself in the Italian landscape and its human context: from Sicily’s Etna, where she explored permaculture agricultural practices, to archaeological sites; from the Museo Nazionale Etrusco in the Villa Giulia to the Galleria d’Arte Moderna, both in Rome. In the latter museum, Klimt’s work The Three Ages of Woman (1905) provided the key personage channelling her poetic discourse: the hunched old woman who hides her face in her hands, embodying the final stage of every life, old age.
Once again we are greeted with a radical inversion: not a youthful body, not a crystallised projection of male desire but a mature body; not a woman who thrives upon others’ gazes but who exists for herself and, so doing, establishes her freedom. This body then becomes Hero, to whom it falls to retrace episodes of Greco-Roman myth connected to the labours of Hercules, exercising a strength not physical but spiritual, earned over time and through experience. The woman’s aged skin becomes ‘armour’, in the words of the artist, armour such as which Talbot encountered in the various museums that she visited in Rome, armour that she saw as a means “to protect the soldier but also to project a superhuman impression of strength.”
This female image becomes a real figure, a sculpture in three dimensions that interacts “with another form – an ‘intangible thing’ with a hole in the center – could be a net, an ancient map, an eye, a womb, a vulva, a microbiological structure or a magic thing. It’s a way of showing that her knowledge is accrued through her experience and interactions with the universe.”
Another unconventional and alternative reading of an historically important artwork occurs in a work created for the 59th Venice Biennale. Its reference is to Paul Gauguin’s painting D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? (1897–1898). Talbot’s large tapestry once again presents the idea of rupture, of present-day crisis but also of critique of the past, critique of the perspective with which history has been read and told. As the artist has put it, “We’re at a crisis point and the current set of structures we rely on are obviously not working. We need radical change to manage our own survival.”
This work, like Talbot’s overall practice, thus poses the question of how to write a new history. She suggests that on this new journey it will perhaps be necessary to put our trust in new paradigms, in “more empathetic caring models” learned from the natural world and the feminine sphere.
Francesca Pagliuca: The main character of the exhibition is an old woman, a kind of projection of yourself through the figure of the isolated old woman depicted by Klimt in Le tre età della donna [The Three Ages of Woman]. This figure is present in the works on silk but also as a life-size sculpture. Why is this figure at life scale? Is it a way to convey a stronger sense of presence?
Emma Talbot: For me, the motivation to make 3-dimensional work is to see something physically present that doesn’t exist as a physical form. I used to call all the 3D work ‘intangible things’. The figure in the Klimt painting is an idea, an image. I wanted to make a figure who was based on the Klimt figure but was transformed – an elderly woman whose wrinkly, old skin (and by extension, her experience and knowledge) was her armour. I was thinking about Roman armour that I’d seen in museums in Rome that mimics the human form, e.g. the torsos of muscly men, to protect the soldier but also to project a superhuman impression of strength. I wanted to try to make this crossover between elderly skin and plate armour. I worked with a digital knit company called IMAX to produce the surface – I wanted one that wrinkled, but which could be stretched to make shapes. I thought about the way the body is aided in old age with orthopedic supports around wrists, knees and elbows, etc., to help figure out the way the armour could work. The figure is interacting with another form – an ‘intangible thing’ with a hole in the centre – could be a net, an ancient map, an eye, a womb, a vulva, a microbiological structure or a magic thing. It’s a way of showing that her knowledge is accrued through her experience and interactions with the universe.
FP: In today’s society old age is something to be ashamed of, especially for women. You radically overturn this narrative by proposing alternative paths.
ET: Yes, I thought the Klimt painting suggested a kind of obsolescence for the elderly woman and I wanted to take the figure and make her into the person with the most agency, someone with potential. I thought that if she had to survive on her own, she would be quite inventive and creative and resourceful and I wanted to explore the idea. It’s interesting that ideas of future tend to be youthful, when in fact all of us who are alive will be older in the future. It’s a space we have to consider if we want to survive.
FP: As we face the major crisis that we are going through, your work reminds us of the need to reread the world using different, much more empathetic models. Why is it so important to change the paradigm?
ET: We’re at a crisis point and the current set of structures we rely on are obviously not working. We need radical change, to manage our own survival. It seems that there’s still a focus on increasing wealth for a small percentage over and above responding to the urgency of climate change, war or the cost-of-living crisis. The structures of power are quite alarmingly distorted in that respect, and I think we need to push for change. The change I favour is one that constructs more empathetic caring models – we can see that authoritarian models of greed don’t serve most people, don’t work and won’t save our planet.
FP: The residency that you recently held in Italy has deeply enriched your work, while at the same time your vision also enriched the people and communities that you met. Concerning the role of the artist in society, for the near future should we imagine a closer dialogue between artist and community? Is this something we could benefit from?
ET: Art is an important part of social structure. The need for human expression is and always has been great, while art makes a space for ideas to be shared and for people to encounter diverse ideas. Without art an important piece of the social fabric would be missing on so many levels. It’s a fundamental part of life. I don’t see artists as special people apart from the rest of the world; art is part of and integral to society.
FP: You use recycled silk and you take a sustainable approach throughout your artistic production, coherent with the way you describe our relationship with Nature. How important is it to have a sustainable approach, whether as a person or as an artist?
ET: Yes, I couldn’t develop a project that considered sustainability without applying the principles to my own practice. It’s something I’ve been thinking about for a while. Painting on silk was good because it could be packed up very small to transport, but I wanted to be careful about how it was produced and so I started using recycled silk. Likewise, the filling for my 3D works was something I changed for a more sustainable material – I use a recycled material called Cameluxe that Max Mara developed. It’s important to be personally responsible, but individual effort can’t do as much as changes made by big global companies and governments. Change at this level should be addressed immediately.
Arte e Critica, no. 97-98, Spring – Summer 2023, 17-23.