Tra le mani: un libro realizzato dalla Collezione Maramotti in occasione della mostra del 2013 a Reggio Emilia; la bozza del catalogo in corso di stampa che testimonia dell’esperienza di quest’estate al Salinas di Palermo e poi, nella memoria, il percorso/rito/gioco tra gli spazi cristallini di un museo archeologico accostante e luminoso alla ricerca dei manufatti del giovane russo che da qualche anno ha intrapreso un dialogo con il nostro paese.
Il libro cui accennavo va ascritto ad una categoria editoriale superior: studiato con l’attenzione maniacale che appartiene da sempre ad una certa tipologia di artisti, innamorati dei libri, delle parole, delle immagini e, soprattutto, degli oggetti. Consapevoli, direi, del potere non controllabile degli oggetti.
Un libro costruito come un’architettura fantastica, in cui corridoi e aperture conducono talvolta in spazi già percorsi, tal’altra in stanzini ciechi, oppure ancora in terrazze che affacciano su vasti orizzonti. I corridoi sono costituiti da legami tematici, legami sentimentali e legami professionali imbastiti con una serie di autori/personaggi intorno ad alcuni ricordi, ma anche intorno a specifiche curiosità, elementi identitari, e poi ossessioni e paure.
Sul fondo la sospensione della fiaba, anche quando il registro della scrittura o i contenuti dei racconti, o delle lettere o addirittura delle descrizioni scientifiche assumono i tratti finanche banali del vissuto quotidiano.
La prima cosa che ho pensato sfogliando la ricercata legatura degli inserti e seguendo la ritmica vivace della grafica è stata la passione per i libri che fu propria dei pionieri dell’avanguardia russa. In particolare mi sono tornate in mente alcune sperimentazioni in ambito poetico che videro la collaborazione degli artisti, penso ad esempio alle poesie stampate su carta da parati celeste a formare preziosi volumetti artigianali per la miscellanea Il vivaio dei giudici, o le illustrazioni di Olga Rozanova per Zaumnaya gniga di Kručënych, con la copertina/collage sulla quale campeggiava un bottone a fissare la silhouette in carta rossa di una testa.
Accingendomi a leggere l’interno, scopro che Antufiev si sente legato proprio a quella stagione, riconosce quegli artisti come maestri, li sente vicini, ha fatto tesoro delle loro esperienze.
Credo che questo legame con l’arte russa di primo Novecento illumini con la giusta luce il suo rapporto con la tradizione, uno dei tratti più marcati della sua poetica.
Sarebbe infatti fin troppo facile leggere la sua ostentata riabilitazione di forme e tecniche arcaiche come una reazione ad una società assoggettata al regime tecnologico-liberista delle immagini e delle merci. Le sue forme vengono da troppo lontano, la sua ostinazione risulta troppo radicale per esprimere solo una disappartenenza alla condizione che ci impone il nuovo millennio.
Credo invece che quella radicalità trovi la vera energia nel riallacciarsi alla lunga storia della propria terra, compresa quella Siberia che spesso torna nelle sue parole, in certe sue metafore, nella scelta di certe procedure. Come se nella grande famiglia di intellettuali e artisti che prepararono la Rivoluzione si possano ancora ritrovare i garanti di quella grande storia. Furono loro, infatti, che mentre si affacciavano al baratro dell’astrazione, recuperavano i tessuti, le incisioni, le pratiche artigianali dei loro avi. È in quel crogiolo di miti e di rituali che essi trovarono quelle sintesi formali che poi utilizzarono nei loro quadri e nei loro progetti. Pur nella rudimentalità dei mezzi e nell’incertezza degli esiti, in quel passato che decidevano di recuperare c’era quel mistero, in certi casi addirittura quella sacralità che li interessava fortemente. Gli studi recenti hanno ricostruito con chiarezza la dimensione culturale di quella stagione intrisa di misticismo ed esoterismo.
Penso che anche Antufiev possa essere interessato alla questione della sacralità dell’opera.
Il giovane di Tuva realizza tutte le sue opere a mano ed esplora una gran quantità di materiali, scegliendo di adottare, dicevo, procedimenti tradizionali, dal ricamo all’intaglio, alla cottura dell’argilla. È come se ricercasse uno stupore arcaico. Di fronte alla natura, di fronte all’ignoto, di fronte alla vita e alla morte. Quel suo fare manuale, quel cimentarsi, corpo a corpo, con la trasformazione della materia ha dentro qualcosa che, a proposito di fiabe, può far pensare ai riti di iniziazione…
E arriviamo al Museo Salinas e alla mostra When Art became part of the Landscape. Chapter I, ideata e costruita insieme a Marina Dacci per la Collezione Maramotti e curata da Giusi Diana. L’artista russo si è trovato di certo davanti al dilemma, oggi tornato d’attualità, del come relazionarsi a quello straordinario patrimonio museale ma anche a quello sterminato patrimonio simbolico. In questi anni abbiamo visto decine di incursioni degli artisti contemporanei nei musei d’arte o di scienze del passato. Raramente soddisfacenti, anche quando i nomi sono del più alto calibro, e questo perché mentre i capolavori del passato appartengono ad una narrazione originariamente legata al luogo ospitante o, nei casi di riordinamento delle collezioni in nuovi contesti, una narrazione comunque a lungo studiata per quegli spazi deputati, nel caso dell’intervento dell’artista contemporaneo il ruolo è sempre, appunto, quello dell’incursore, privato di ogni narrazione perché introdotto furtivamente, costretto a muoversi dentro la logica di una temporalità precaria e fuggevole.
Qualcuno è riuscito a creare dei dialoghi interessanti, certo, è vero, ma solo quando ha avuto il tempo, i mezzi e la libertà per costruire una propria narrazione, autenticamente aderente alla propria poetica. Antufiev al Salinas ha potuto costruire una narrazione. Complice, un mondo simbolico esuberante, dove riferimenti millenari hanno avuto modo di mescolarsi a mitologie personali.
Di fronte al dilemma cui accennavo, che non riguarda solo il come relazionarsi all’istituzione “museo” ma anche il come affrontare la questione “passato” e la questione “storia”, temi di nuovo piuttosto urgenti, Antufiev ha scelto la strategia della mimetizzazione e della dispersione. Credo che, in fondo, desiderasse un confronto faccia a faccia con quelle opere, e non per un ingenuo gareggiare con i manufatti del museo o per un altrettanto ingenuo prendersi gioco dello spettatore, quanto per poter ampliare il tempo storico al quale le didascalie fissano i reperti, per costruire una visione in cui il tempo potesse risalire indietro nei millenni, muoversi dentro coordinate geografiche molto più vaste e scalare liberamente le montagne del mistero.
Le opere alle quali ha lavorato sono una trentina, soprattutto vasi, sculture totemiche e maschere. Tutti elementi che hanno a che fare con il contenimento dei principi del ciclo vita-morte (dal germoglio, al cibo, alle ceneri) o con la ricerca di una relazione con l’ignoto, con ciò che non si conosce ma si teme, o ciò che non si conosce e si intende esplorare (i totem e le maschere).
Ogni pezzo reca evidenti le tracce del suo fare, le impronte delle mani o degli strumenti utilizzati, come a rivelare, nell’incontro fisico con i materiali, l’emozione della costruzione di una forma.
Nel catalogo che accompagna questo grande progetto palermitano, alcune forme stilizzate di oggetti e di animali o alcuni segni primordiali diventano piccole icone grafiche, quasi dei fumetti, efficaci e impertinenti come i posizionamenti di alcune sculture nell’atrio del Museo, in angoli inaspettati eppure sempre credibili. Quella che potrebbe apparire come una semplice scelta di tendenza, conferma però a mio avviso anche il fatto che Antufiev abbia scelto di assumere nel proprio lavoro una temporalità molto vasta, libera e talvolta forse scomoda, e dentro il tempo dilatato dell’arte sia impegnato costantemente ad indagare la questione dell’immortalità nel suo rapporto intrinseco con il ciclo naturale della vita.
Arte e Critica, n. 92, autunno 2018, pp. 64-66.