Grandi tende veneziane presentate in installazioni complesse e multisensoriali, questa la cifra stilistica che ha contribuito a connotare negli anni la ricerca di Haegue Yang. Artista coreana trasferitasi presto in Germania per perfezionare gli studi artistici, Yang nel relazionarsi alla cultura occidentale ha beneficiato di un punto di vista privilegiato: vivere un luogo “altro” rispetto a quello di origine e sentire la diversità, esperienza che l’ha portata ad acuire la capacità di osservare e di porsi in ascolto, anche e soprattutto dell’inafferrabile.
Le veneziane, da oggetti ordinari della produzione industriale, hanno assunto nella sua ricerca un nuovo valore: quello di dispositivi della visione. Flessibili nel potersi strutturare in maniera modulare, potendosi sviluppare sia in altezza che in larghezza, queste tipologie di tende, nella loro semipermeabilità, da un lato consentono di vedere dall’altro di nascondersi, attivano lo sguardo ma al contempo proteggono da una completa esposizione. Questa doppia valenza, di estensione e nascondimento, potrebbe essere una chiave di lettura applicabile all’intera produzione dell’artista e al modo stesso in cui si relaziona ai temi che affronta. Le sue opere offrono sempre una pluralità di livelli interpretativi ponendo l’osservatore nella necessità di adottare uno sguardo mobile, pronto ad affondare nell’esperienza catturato da una molteplicità di stimoli ma al contempo richiamato ad essere vigile e presente, capace in ogni momento di decentrarsi.
Composta da oltre 170 veneziane a formare un’architettura complessa che allude alla struttura di una fortezza, Cittadella è nota come una delle sue installazioni più complesse, si tratta di un ambiente multisensoriale da esperire disegnando un proprio percorso di attraversamento. Nel passaggio attraverso incroci e interstizi perdiamo sempre più una visione globale della struttura per confrontarci con spazi parcellizzati dove l’illuminazione gioca un ruolo decisivo: fonti luminose mobili, filtrando attraverso le lamelle delle veneziane, proiettano ombre mutevoli alimentando un senso generale di fluttuazione; la presenza di diffusori di profumo contribuisce a creare un senso di immersione stimolando livelli percettivi più complessi. All’interno di questi ambienti le veneziane si prestano anche a diventare superfici su cui proiettare video che restituiscono immagini di luoghi sospesi, abbandonati, dove la figura umana è presente esclusivamente come traccia. Questi indizi raccontano di comunità assenti, sottratte: questa struttura “fortezza” (di per sé luogo chiuso, che esclude) si pone essa stessa come traccia di presenze antiche, come le ombre restituiscono le immagini volatili di chi vi scorre attraverso.
Anche qui il concetto stesso di comunità racchiude un’ambivalenza: comunità come luogo di vita e di relazioni, come sentire comune che contribuisce alla creazione di un’identità, ma anche come protezione, chiusura, esclusione di ciò che differisce dai parametri condivisi. Comunità che nel momento in cui si compone è già destinata a sgretolarsi, una “comunità dell’assenza” in riferimento alle riflessioni di Maurice Blanchot.
Proprio la lettura di Blanchot in relazione a questi temi porta Yang a scoprire un racconto di Marguerite Duras, La malattia della morte, fondamentale per la genesi di un altro filone della sua ricerca. Il racconto di Duras descrive un rapporto tra un uomo e una donna guidato dal desiderio di possesso e destinato a risolversi nell’impossibilità di amare (questa impossibilità è appunto identificata come “malattia di morte”). Profondamente affascinata sia dalla vita che dall’opera di questa scrittrice, Yang pubblica nel 2008 una traduzione in coreano del racconto nella forma di libro d’artista, successivamente durante una residenza al Walker Art Center di Minneapolis (2010) nasce l’idea di realizzarne un adattamento teatrale nella forma di monodramma, dove a una singola attrice è affidata la lettura e l’interpretazione di entrambe le voci narranti della storia.
La dimensione performativa scelta ha rappresentato una forzatura rispetto al testo, funzionale a far emergere in maniera più evidente degli elementi portanti della narrazione – quali pause, silenzi e dilatazioni temporali – ma anche a porre la figura femminile come dominante nell’accentramento ad unica voce narrante. A questa sono succedute altre versioni declinate in diverse variabili, nella lingua in cui sono interpretate, nell’apporto che dà l’interprete, nel contesto che l’accoglie; operando questi continui slittamenti nel processo di traduzione Yang sembra tracciare un proprio percorso di avvicinamento all’opera di Duras: nella costruzione delle molteplici derive di questo testo si nasconde il tentativo di sfiorarne l’inattingibile.
La percezione del limite dettato dall’impossibilità di restituire in maniera fedele il proprio pensiero ritorna in alcuni lavori più centrati sulla soggettività come Science of Communication #1 – A Study on How to Make Myself Understood (2000) dove Yang si interroga sul processo di comunicazione e su quanto possa essere efficace nel momento in cui viene affidata a forme di mediazione. L’opera è essenzialmente un testo, stampato su un foglio A3, scritto dall’artista in una commistione di lingue, successivamente tradotto in inglese e editato per poter essere presentato in una forma compiuta. Quanto il testo rispecchia e aderisce al pensiero originario? Quanto e in che direzione questo processo di mediazione lo ha modificato? Impossibile e inutile tentare di dare una risposta, ciò che è fondamentale è prendere semplicemente consapevolezza che questo scarto esiste.
Nella serie dedicata agli specchi, Mirror Series (2006-2007), questi ultimi disattendono sistematicamente alla loro funzione, non consentendo di potersi riflettere sulla loro superficie. Il principio di sottrazione che connota questi lavori allude a un approccio sotteso all’intera pratica dell’artista: rintracciare l’assenza. La sottrazione è da sempre il miglior modo per portare attenzione su ciò che manca, interrogandosi indirettamente sulle ragione di questa mancanza.
L’assenza sta alla presenza, come l’astrazione sta alla figurazione. Astrazione dunque come capacità immaginativa, area che racchiude in sé tutte le forme potenziali ma anche territorio neutrale, di libertà e autonomia, che segna la possibilità di messa in dialogo di diversi contesti e narrazioni. L’astrazione nel caso di Yang non avviene come processo di semplificazione, di riduzione e scarnificazione degli elementi a partire dalla realtà, ma rappresenta un esercizio costante e complesso di allontanamento dalla propensione innata di dover dare a tutto forzatamente una forma definita, suggerendo altri livelli di confronto.
La propensione per l’astrazione si riflette anche nell’interesse dell’artista per la musica.
L’integrazione della musica all’interno di una mostra avviene ad esempio nel 2016 per Quasi-pagan Seasonal Shift (Aïshti by the Sea, Beirut) dove Yang include La Sagra della Primavera di Igor’ Stravinskij come parte del display. Questa scelta si lega a delle riflessioni fatte in precedenza per Warrior, Believer, Lover, 2011, sculture antropomorfe che alludono a figure umane composte come assemblaggi di veneziane, cavi, piante artificiali e vari altri elementi, per la cui genesi il balletto di Stravinskij è stato un forte riferimento nella misura in cui l’artista riconosceva al vigore ritmico di questo brano una sorta di un tocco vivificante per questi elementi altrimenti inerti.
In una mostra presentata di recente alla Triennale di Milano, Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, promossa dalla Fondazione Furla, l’artista sceglie di far eseguire dei brani del compositore coreano Isang Yun all’interno del percorso espositivo. In questo caso è la scelta stessa della figura di Yun, più che la selezione di brani specifici, ad avere un peso nel progetto complessivo. Oltre ad essere uno tra i più interessanti compositori del Novecento, è soprattutto la sua storia personale – le sue posizioni politiche (vicine alla resistenza anti-Giapponese), la cattura da parte dei servizi segreti della Corea del Sud, le accuse di spionaggio, il conseguente periodo di prigionia e di torture – che lo hanno portato all’attenzione internazionale durante gli anni della guerra fredda. Nella vita di Yun ha pesato l’esilio, l’isolamento e il silenzio, avendo ottenuto il dovuto riconoscimento in Corea solo dopo la sua morte. Yun, dopo la sua liberazione nel 1969, non tornò più in Corea del Sud se non in un modo: attraverso la sua musica che ha rappresentato l’unico strumento per poter dare voce alla comune identità di un Paese diviso. La scelta che distingue la sua produzione è stata infatti quella di introdurre costantemente all’interno delle sue composizioni elementi della tradizione coreana.
Al di là della storia di questo compositore e dell’interpretazione della sua vicenda, portare attenzione sulla sua figura è per Yang probabilmente un modo indiretto di raccontarsi dando voce all’inespresso nell’esplorazione delle zone d’ombra della storia, come è, in misura diversa, anche l’esplorazione dell’opera di Marguerite Duras.
Come nella musica di Yun la reazione alle forze sociali e politiche è avvenuta in un ritorno alle radici della sua cultura, così Yang ha sviluppato nella sua ricerca dei percorsi dove i silenzi, la sottrazione e le assenze delle narrazioni individuali e collettive trovano una loro strada per ripresentarsi in nuove forme e porsi così all’attenzione della storia.
Arte e Critica, n. 93, autunno 2018, pp. 56-63.