C’è stata una stagione, non troppo lontana, in cui è sembrato che la progettualità outdoor offrisse all’arte un’opportunità davvero significativa per misurarsi con spazi, materiali, sguardi differenti e al contempo per confrontarsi con lo spazio pubblico e le sue istanze. L’Italia ha vissuto con larga sensibilità quella stagione, con vicende anche piuttosto significative. Si tornava a riflettere sull’antimonumento, sul come interpretare la città, sul come lavorare nella natura. Poi, a un certo punto, insieme all’ennesimo processo di screditamento dell’opera e del suo potere aggregativo, trasformativo, politico, si è conseguentemente messa in discussione anche la sua funzione pubblica, lasciando spazio esclusivamente a quelle forme che avessero un carattere spiccatamente smaterializzato, alle pratiche performative, relazionali, interstiziali, che indubbiamente fornivano un modello più capillare di penetrazione nel groviglio sociale. Intere giornate di convegni, centinaia di pagine di libri, di riviste, per stabilire cosa fosse giusto e cosa errato, quali fossero gli ultimi dettami del trend internazionale e quali i nuovi divieti, di cosa avessero bisogno le comunità e come l’arte dovesse rispondere a quei bisogni. E lì giù a esaltare e a denigrare, stilare pagelle con ammissioni e bocciature, avallando inconsapevolmente quella stessa obsolescenza programmata che veniva criticata in altrettante giornate di studio incentrate sui percorsi virtuosi da adottare per resistere alla globalizzazione. Come se il Novecento non ci avesse insegnato che le ricette, le regole, i divieti arrivano sempre, in realtà, quando e dove l’arte non c’è più, quando e dove sono rimasti solo i suoi epigoni. Come se non avessimo ancora imparato che se la ricchezza di un popolo risiede nella complessità e nello spessore della sua identità altrettanto vale per l’arte, dove sono la varietà e la disomogeneità delle sue forme, la convivenza di pensieri discordanti e autonomi a costituirne la forza, non il continuo livellamento a modelli normativi standardizzati, che oltretutto scadono ogni quattro-cinque anni.
Mi sono stupita, quest’estate, nel rendermi conto che tra le migliaia di comunicati che ricevevo, una delle iniziative che mi appariva più fresca fosse un progetto di interventi disseminati nella Maremma, tra scavi archeologici, palazzi storici, maneggi, aziende agricole. E in più con un omaggio a Mauro Staccioli, uno di quegli artisti che proprio in virtù di quel suo lasciare monumentali tracce in cemento laddove non si reputava più possibile neppure tagliare un cespuglio, era diventato nei primi anni Duemila un artista tra i più distanti dalle pratiche in voga, incentrate solo sulla trasformazione dell’opera in dispositivo sociale impermanente. Una dimensione di straordinaria importanza quest’ultima, ma solo quando autenticamente perseguita, poeticamente necessaria, non quando diventa “tecnica accademica”, con quella stessa accezione con la quale per decenni sono state intese la pittura e la scultura.
Una serie di elementi di questo progetto maremmano mi convincevano. Ad esempio che ad organizzarlo fossero esplicitamente due giovani galleristi, senza dover passare dalla finzione del progetto affidato al curatore/ideatore, che il più delle volte è costretto ad eseguire quello che altri in sua vece hanno già programmato, organizzato, e spesso pure contrattato con le amministrazioni. Un contesto schietto dunque, in cui i ruoli erano visibili, gli interessi dichiarati, e le persone si aggregavano a partire dai rapporti personali, dalle affinità di percorso, dalle convenienze reciproche, ma soprattutto in virtù di un sentire comune.
È proprio questo sentire che abbiamo percepito andando a vedere Hypermaremma. Poi, leggendo le testimonianze che abbiamo richiesto e che pubblichiamo qui di seguito, è apparso chiaro che la forza del tutto, oltre che sulla compagine degli artisti invitati, andasse rintracciata nella costruzione dell’intero progetto su una misura umana, su un métron. Una misura che abbiamo perso, tra metropoli fagocitanti, spazialità liquide, eventi di portata mastodontica, ipertrofia tecnologica e comunicativa. E lo stesso possiamo dire per il mondo dell’arte: gallerie grandi come hangar, in cui si arriva con l’aereo personale; musei giganteschi pieni di eventi e a caccia di visitatori, luccicanti e tristi come i luna park; biennali di esclusiva mondanità, dove solo con il lanternino riesci a trovare qualcosa di interessante, e per di più nelle mostre collaterali; fiere cresciute a dismisura, dove è quasi impossibile incontrare l’arte, tra decine di iniziative inutili, nate per soddisfare il narcisismo dilagante.
Arrivi in cima a una antica città etrusca, a picco sul mare, in un silenzio commovente, un paesaggio disarmante, e comprendi che non c’è scampo, che non si può che ripartire da lì.
Quale misura dunque?
Quella per cui l’opera e l’artista non hanno paura di misurarsi con quello che li ha preceduti e con quello che hanno intorno a sé, e soprattutto non nutrono quel timore reverenziale che ha condotto molti all’impotenza creativa.
Quella per cui si attraversano le epoche alla ricerca di un senso, forse di un bene perduto, senza trasformare quel viaggio in un banale collage postmoderno.
Quella misura per cui mentre si lavora a contatto con la natura, si ritrova quel proprio appartenerle, e si modificano posture e finalità.
Quella misura che a partire da una sana considerazione dell’umano mette insieme il momento celebrativo con quello conviviale, lo spazio del sacro e quello del lavoro quotidiano, il maneggio, l’osteria e il museo.
Quella misura che rende interessante lo stare insieme perché si condivide una passione, e il resto delle persone si aggregano perché vengono calamitate dall’entusiasmo che quella passione continua a produrre nel corso del tempo. Intatta. Senza dover costruire farraginosi progetti community-specific, riempiti di frasi che vanno bene per le application forms da compilare dopo il college. Come si può più pensare di aggregare una comunità se non vengono prima ritrovati nel profondo, ricostituiti, o per i più giovani addirittura costituiti ex novo, i valori intorno ai quali ritrovarsi?
Quella misura per la quale non ci sono squali che nuotano nelle acque basse, e la catena artista-gallerista-collezionista-sponsor-amministratore-visitatore può diventare una catena ecologica. E il critico, o il curatore, a quel punto, possono tornare a rivendicare il proprio ruolo, necessario in realtà, ma tutto da ripensare, da vivificare.
Quella misura che trova nel territorio una ragione più che valida per operare, intendendolo nella sua estensione più ampia sia in termini sociali che nell’ordine fisico e storico. Ha davvero un’importanza centrale il fatto che quello che si sta facendo lo si sappia in tutto il mondo? È davvero indispensabile esporre come trottole nell’intero pianeta senza di fatto appartenere ad alcuna vera comunità? Il nostro ego è diventato davvero così ingombrante da richiedere una copertura informativa sempre più estesa? Oppure il sistema è diventato talmente stringente da far saltare tutti i parametri qualitativi sostituendoli integralmente con quelli quantitativi? E quindi quella copertura, quella diffusione, quella ampia fetta di presenza nel mercato dell’informazione e dei valori globalizzati diventa essa stessa indice di qualità? Lo sappiamo tutti che è così, ma forse si può smettere di credere che sia l’unica via percorribile. Il disagio generalizzato e, di contro, l’entusiasmo che insospettabilmente si accende quando si cambia registro lascerebbero pensare che altra strade vadano cercate.
Le più belle collezioni del mondo sono quelle realizzate condividendo con gli artisti una visionarietà e una idealità senza confini. A partire spesso da un nucleo di lavoro svolto su un territorio. Da una galleria, da un museo, da un festival…
Hypermaremma ha provato a cercare una misura. E al momento l’ha trovata. La rete di complicità che l’ha resa possibile è una rete che appartiene intrinsecamente all’arte e può tornare a rappresentare un modello vincente perché alla base c’è una visione del mondo che alla desertificazione esistenziale proiettata su scala globale oppone la condivisione di una narrazione comune, dentro la natura, suffragata dalla storia.
Carlo Pratis, ideatore e promotore e del progetto
L’idea nasce da una serata di inizio estate insieme con Giorgio. Da un’ipotesi nata per scherzo, ma che forse ha celato fin da subito il bisogno di proiettare le nostre energie in un luogo d’affezione, un luogo dove entrambi abbiamo trascorso la maggior parte delle nostre estati. Spendere le nostre energie, per una volta, non per l’ennesima alienante fiera o per supportare un progetto museale di uno degli artisti della galleria. La Maremma è un luogo che ci ha visto crescere. Un luogo però che con la sua meravigliosa ed eterna immutabilità è rimasto anche senza una rete di eventi, di momenti di incontro e dialogo. Quindi la Maremma anche per un’esigenza contingente, che nasce dal vuoto che volevamo provare a riempire, per noi stessi innanzi tutto.
Il nome l’abbiamo pensato con Giorgio appunto per la sua intrinseca ironia. Il contrasto tra questa placida e millenaria immobilità del territorio rispetto a qualcosa di invece veloce e repentino, come l’iperattività di un corpo che fermo a lungo non sa stare, qualcosa che abbia un sapore fantascientifico, fatto di una moltitudine di eventi, mostre e apparizioni, come fossero una vertiginosa costellazione.
La grande mostra di scultura ambientale al parco archeologico di Ansedonia e la mostra di pittura nelle storiche stalle del maneggio di Sant’Irma racchiudono in se stesse esattamente l’equilibrio che volevamo che Hypermaremma avesse. Come d’altronde la mostra nel castello di Capalbio e l’evento nella tenuta del Diaccialone a Pescia. Bilanciare cioè progetti in luoghi museali con progetti invece in luoghi non convenzionali, ma che portassero dentro la magia e la forza del territorio. E questo bilanciamento ovviamente si riflette anche sui soggetti coinvolti, una rete di privati entusiasti e le istituzioni che hanno saputo credere in questa follia.
Giorgio Galotti, ideatore e promotore del progetto
Il progetto Hypermaremma è nato dialogando con Carlo su un terrazzo di Ansedonia, qualche anno fa. Ci ripetevamo il fatto che da oltre 30 anni abbiamo la fortuna di passare del tempo nella bassa Maremma durante le vacanze estive e nonostante il luogo sia di estremo interesse storico, naturalistico e simbolico, era sempre difficile trovare degli stimoli culturali all’altezza. Così abbiamo pensato di restituire qualcosa al territorio secondo il nostro modo di vedere la realtà, riportando in parte quello che facciamo durante l’anno nelle rispettive gallerie e forzando ulteriormente su alcune visioni che volevamo condividere con un pubblico di ampio raggio, anche non necessariamente indottrinato rispetto all’arte contemporanea.
Per essere una prima edizione realizzata con pochissimi fondi privati, il risultato è stato sbalorditivo, decisamente oltre le aspettative, sia in termini di qualità dei lavori presentati dagli artisti, sia in termini di ricezione e feedback da parte del pubblico. Nella costruzione del progetto ci siamo sempre ripetuti il fatto che dovesse mantenere un tono umano e alla portata delle nostre energie fisiche, mentali ed economiche. Quindi tutto il progetto è stato costruito come si farebbe in un gruppo familiare che funziona, dividendoci compiti per raggiungere gli obiettivi prefissi. Nonostante io e Carlo ci conosciamo da una decina di anni e condividiamo alcune amicizie, non avevamo mai lavorato insieme, quindi anche sotto il profilo professionale è stata una bella scoperta rendersi conto di avere accanto delle persone che la pensano esattamente come me in un momento abbastanza particolare per un ambito come quello dell’arte contemporanea. L’umanità è stato forse il sentimento maggiormente condiviso con lui e con le persone che ci hanno aiutato a realizzare tutti i vari capitoli del progetto, l’umanità intesa nei sui pregi e nei suoi difetti, che ha reso tutto estremamente intenso. Al momento l’idea sarebbe quella di comporre un mini board di persone che hanno condiviso con noi questa prima edizione, che possa da un lato preservare la naturalezza del prodotto finale e dall’altro stuzzicarlo per renderlo ancora più ambizioso. Non abbiamo ancora fatto il punto su quello che accadrà, ma sicuramente il vento di Ponente che soffia su queste coste ci terrà ben ancorati al territorio e alle nostre idee iniziali, quindi mi sento di poter assicurare che il progetto potrà solo crescere, speriamo di farlo nella direzione giusta.
Alessandro Piangiamore, artista
Prologo – 9 gennaio 2019: la mail di un amico aveva preannuciato la telefonata di Carlo (e Giorgio). Volevano parlarmi di un progetto di mostra in un sito archeologico, un posto aperto. Paura. Sono sempre luoghi mastodontici, penso, lo spazio aperto risucchia, il vento disperde. Segue telefonata di Carlo, “ok” dico, pieno di perplessità, “andiamo a vedere”. La visita conferma le mie sensazioni: molto spazio, tanto vento, pietre che hanno ascoltato storie, alberi e sterpaglie e alla fine, in cima al promontorio, una vista impagabile sul mare. Pare che ci siano anche molti animali selvatici, che ovviamente vanno in giro soprattutto la notte, mi domando dove trovino da bere. Durante il viaggio di ritorno, Carlo mi parla di un mio vecchio lavoro del quale si ricorda sempre con entusiasmo, un mattone forato, all’interno del quale è incassata una conchiglia tropicale. “Sarebbe perfetto!” dice lui. “Un lavoro monco” rispondo io. Quel mattone doveva essere integrato nel solaio di una casa in costruzione, era nato specificatamente per quel luogo, in occasione di una bella mostra (There is no place like home, Roma, 2014), ma non era stato esposto, non ricordo perché, come speravo. Ci salutiamo e promettiamo di rivederci presto.
Parodo – Passa del tempo, altri incontri, telefonate, un’altra visita alla città di Cosa. Poi due giovani galleristi che zappano la terra, provando a livellarla.
Epilogo – Una conchiglia vuota gocciola su un pavimento in cemento (2011-2019), è una scultura in cemento consistente in una lastra che ingloba una conchiglia dalla quale, lentamente, sgorga acqua di continuo. È stata collocata nella parte più alta della città di Cosa, laddove si vede ma non si sente il mare. È una fontana per gli occhi umani e dà da bere agli animali.
Giovanni Vetere, artista
Mi sono presentato due giorni prima dell’apertura della mostra con una cisterna contenente 300 litri d’acqua, un acquario verticale in plexiglas, cinque sculture in ceramica, un generatore, un operaio, una madre e un padre, e un’installazione molto ambiziosa da realizzare in un’antica cisterna romana. Insieme abbiamo creato Liquid Ground, un’esperienza immersiva che ha invitato i visitatori del parco a contemplare il ritrovamento dell’uomo acquatico e a riflettere sulle conseguenze che questo assurdo ritrovamento può avere sulla concezione del corpo umano e il suo forte legame con la natura; con l’acqua.
Lo spettatore è sotto terra, il mio corpo è sott’acqua. Tutto ciò che vedo sono macchie colorate muoversi davanti a me, sento voci ma non vedo volti, mi sento distante e l’acqua che mi avvolge mi estranea dal mondo. Un fastidiosissimo prurito alla gola non mi permette di concentrarmi, ma come faccio a tossire sott’acqua? Posso solo aspettare adesso, non posso fare nient’altro che aspettare che qualcuno gridi il mio nome più volte. Perché se lo sentivo una volta sola poteva essere uno spettatore, ma mia madre lo gridava più volte come quando dovevo alzarmi per andare a scuola, e quando facevo finta di non sentire lei allora gridava: “A calci in culo ci vai a scuola!” Adesso la stessa voce mi chiama, felice di farmi risalire a galla e farmi respirare, farmi tossire, felice perché comunque, a differenza degli altri, lei sa che non sono una creatura acquatica.
“Giovanni! Giovanni! Giovanni! La performance è finita.”
Lorenzo Bassetti, collezionista e supporter del progetto
Hypermaremma è un’iniziativa intelligente e di qualità che colma un vuoto. In una zona come la bassa Maremma, dove c’è una enorme sensibilità ai temi per cui è stata pensata. È per questo motivo e per la conoscenza e l’amicizia verso gli ideatori, conoscendone bene le doti, che ho deciso di supportare questa iniziativa, che si è rivelata di grande qualità e successo. La partecipazione e l’indice di soddisfazione dei partecipanti stessi sono stati oltre le aspettative.
È stata alla fine un’enorme soddisfazione ricevere commenti entusiastici da chi ha avuto la possibilità di partecipare. Mi sono appassionato al lavoro di tutti gli artisti coinvolti, in particolare a quello di Alessandro Piangiamore, che ho avuto il piacere di supportare nella mostra organizzata presso la città di Cosa. Credo infatti che tra tutti i capitoli di Hypermaremma, sia stato sicuramente l’esempio di quello che andrà fatto in futuro nell’ambito della manifestazione, anche per la gran quantità di lavori site-specific realizzati da artisti di grandissimo standing, alcuni anche molto giovani. Una collaborazione con il Museo della Città di Cosa che ha dato a molti la possibilità di scoprire un posto magnifico, ma purtroppo ancora troppo poco valorizzato e frequentato.
Emiliano Maggi, artista
Ho voluto un cancello. Come in ogni posto prezioso. Ho voluto un cancello per un ingresso a un mondo immaginario, “vivo” all’interno del parco. Come una grande Natura Morta, dove le forme e le decorazioni in ceramica sono in continua metamorfosi. Sirene, Arpie e Fauni si muovono su livelli diversi. Una transizione tra forme, stati e funzioni.
Le percezioni si trasformano in immagini associative e narrazioni simboliche. In alto, al centro, la Venere, come una grande sirena, a simboleggiare quelle fantastiche possibilità dell’inconscio. Il cancello trasmette l’ultimo destino dell’eccessiva metamorfosi: la sparizione, come la sparizione della Città di Cosa.
Massimo Mininni, curatore, La Galleria Nazionale
I curatori, con questa interessante operazione, hanno recuperato la storia locale e le sue tradizioni, utilizzando l’eredità del passato come chiave di lettura per interpretare il presente, mettendo in risalto alcune aree e edifici storicamente importanti, quali il Parco Archeologico della Antica Città di Cosa, il Palazzo Collacchioni nella Rocca Aldobrandesca di Capalbio e il maneggio nella Capanna di Sant’Irma, trasformandoli in centri in grado di ospitare l’arte contemporanea, offrendoci così una nuova e singolare lettura e un confronto tra cultura e luoghi locali e altre esperienze artistiche in un amalgama tra contemporaneità e passato. L’archeologia, l’architettura medievale e la tradizione equestre maremmana sono state il collante e lo scenario per leggere i diversi linguaggi che gli artisti invitati hanno usato, restituendoci un insieme di visioni suggestive in cui il tempo si mescola. In Hypermaremma il passato e il presente esistono in un rapporto di natura circolare, ribadendo che la storia ha da sempre ispirato anche gli artisti contemporanei e di conseguenza le loro opere ne hanno influenzato modi e tempi d’interpretazione.
Pietro Pasolini, artista
Già dopo pochi minuti dalla prima visita al Parco Archeologico di Cosa, sentivo la necessità di realizzare un’opera che dialogasse apertamente con la natura circostante, riallacciandosi al tempo stesso all’architettura del luogo e al concetto di storia come maestra per le future generazioni. Se il Comizio, circondato da olivi millenari, era stato per secoli il centro dell’attività politica e sociale della città, l’intervento artistico doveva riuscire a capovolgere l’utilità antropocentrica di questa struttura, ponendo al centro del discorso la natura e al suo perimetro l’uomo.
In un momento storico in cui rifiutiamo di affrontare con il dovuto impegno la crisi climatica, We are the Land insiste nel mettere al centro del discorso politico la tutela dell’ambiente.
Marco Niccoli, Galleria Niccoli, Parma
Andrea Alibrandi, Galleria il Ponte, Firenze
Siamo stati contagiati fin da subito dall’entusiasmo di Carlo Pratis e di Giorgio Galotti, e davanti alla loro richiesta di avere un’opera di Mauro Staccioli, davvero non c’è stato modo di dirgli di no. Facemmo un sopralluogo agli scavi e fu una giornata incredibile, ci parve subito una location ideale per un progetto di arte contemporanea, un luogo magico in un territorio d’eccezione come la Maremma. Pensammo subito a un’opera del 2003, i Prismoidi, Mauro così li definiva: “Appaiono come dadi lanciati sul tavolo in maniera casuale a definire una pluralità di orientamenti e di punti di vista in uno sconcertante assetto precario”. L’intento delle sue sculture è sempre stato quello di modificare il contesto nel quale venivano inserite, attraverso un’opera di riconfigurazione dello spazio e dell’intero paesaggio circostante tramite le sue geometrie visionarie.
Il giorno del montaggio è stato un momento corale di divertimento e di condivisione e fin da subito abbiamo avuto conferma che l’opera scelta interagiva perfettamente con l’ambiente spettacolare del Parco Archeologico. L’energia dei giovani artisti ha fatto il resto, rendendo il tutto fresco e naturale. Bravi!
Gianni Politi, artista
L’opera è stata realizzata esclusivamente attraverso l’ossidazione (fenomeno del tutto naturale e per questo evolutivo nel tempo). L’utilizzo di questa tecnica vuole sottolineare l’importanza di riscoprire a livello artistico il fatto creativo per eccellenza: la cooperazione tra uomo e natura. Quando si entra con una propria opera in un luogo in cui il contemporaneo non ha diritto di esistere se non per una forzatura della volontà di alcune persone, bisogna farlo banalmente con grande rispetto e soprattutto con un animo quieto. Per questo ho immaginato la mia opera come una presenza oltre che fisica anche temporale. Nella Città di Cosa convivono principalmente due gruppi temporali distinti, un tempo pubblico, quello degli etruschi prima e dei romani poi, e un tempo privato, quello del visitatore che entra nel sito archeologico. La mia opera rappresenta un terzo tempo, quello privatissimo, con la forma di un grosso dolmen preistorico. Per me il tempo privatissimo è il tempo eterno di chi lascia tracce sotto forma di artefatti, di colui che solo può capire il tempo pubblico perché il suo tempo privato è potenzialmente pubblico. In quanto artista penso di aver portato ad Ansedonia tutte le mie ambizioni, i miei desideri e anche le mie frustrazioni.
Guido Pallini, collezionista e proprietario della tenuta “Il Diaccialone” di Pescia Fiorentina
Ho creduto al progetto di Hypermaremma sin dalla prima volta in cui Carlo e Giorgio me ne hanno parlato. Condivido pienamente la loro voglia di dare una scossa al panorama culturale della zona e creare qualcosa; mi ha fatto piacere poter partecipare in modo attivo. Quando mi è stato chiesto di organizzare qualcosa che coniugasse arte e musica, ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di diverso da un vernissage con un DJ, dopo poco ho avuto l’intuizione di coinvolgere i ragazzi del collettivo RadioCircolo. Ho sempre apprezzato la raffinata selezione musicale dei loro eventi e la capacità di proporre sempre degli ospiti di alto livello, mi piaceva l’idea di proporre della musica che potesse stupire ed essere anch’essa una specie di installazione accanto alle due opere realizzate ad hoc per la manifestazione da Hitnes e Leonardo Petrucci.
La performance è avvenuta sotto il murales realizzato da Hitnes e l’atmosfera che si è creata nel pomeriggio è stata magica; abbiamo assistito al dialogo improvvisato tra la Tabla (strumento da percussione originario dell’India e del Pakistan) del maestro Sanjay Kansa Banik e il Buchla (uno strumento modulare per creare musica elettronica) suonato da Filippo Brancadoro e siamo rimasti tutti incantati ad ascoltare l’armonia tra uno strumento da percussioni antico e un oggetto moderno quale è il Buchla. È stato bello vedere come i due artisti dialogassero tra di loro con gli sguardi e che poi interagissero con il pubblico allo stesso modo, sembrava che la musica prendesse vita da queste interazioni. Uno dei piaceri più grandi è stato vedere Hitnes lavorare dal vivo sul murales; ho osservato dal basso mentre ha dipinto in piedi su un trabattello con un pennello fissato a un’asta, muovendosi al ritmo di una musica che ascoltava solo lui attraverso delle cuffie. Non c’è stata una bozza né uno studio preventivo e questo grado di improvvisazione mi ha fatto apprezzare ancora di più il risultato finale.
Maria Angela Turchetti, direttore Museo Archeologico Nazionale e Antica Città di Cosa
Guido spesso, come direttore di Museo e Area Archeologica dell’antica Città di Cosa, gruppi di visitatori all’interno degli spazi espositivi e del perimetro delle mura ciclopiche, lungo i percorsi che portano al foro, alle case di Cosa, all’acropoli, ai suoi templi. Al visitatore curioso che chiede ancora spiegazioni, aggiungo, dopo aver ricordato di consultare la mappa della città che quest’anno indica, non solo i principali monumenti archeologici da visitare, ma anche le istallazioni della mostra La Città Sommersa, corredate da succinte spiegazioni di orientamento, che giovani artisti si sono cimentati nell’affascinante e complessa “impresa” di reinterpretare l’Antico. Reinterpretare l’Antico è sempre stata l’ambizione di qualunque generazione successiva a una determinata epoca nell’intento di comprenderne valori e significati e di riappropriarsene, suggerendo nuove e originali rielaborazioni, interpretazioni e spiegazioni. La rilettura dell’arte e dei manufatti antichi li rende più vivi, vicini e comprensibili, ne fa una palestra dove esercitare il proprio spirito di osservazione associando mentalmente forme e significati e caricandoli delle suggestioni che l’età contemporanea vi sa vedere. Così continuando lungo i percorsi di visita è facile tornare a intrecciare Spazio e Tempo andando avanti e indietro nella Storia, soffermandosi all’interno del Comitium, luogo di antiche riunioni, avvolti dai colori cangianti di lastre di ottone disposte ad emiciclo o davanti ad un alto cancello in ferro battuto e ceramica smaltata, significativamente collocato in un’area ancora non scavata della città, “portale” verso nuove scoperte e nuovi orizzonti. Il rimando costante è alle opere antiche e a quelle recenti che si riappropriano suggestivamente dello spazio originario e lo ridisegnano e reinterpretano secondo una pluralità di orientamenti e di punti di vista talvolta suggerendo uno sconcertante equilibrio precario (Prismoidi di Mauro Staccioli), talvolta la transitorietà (Terra breve/breve Terra di Renata De Bonis) talvolta la lunga durata dell’eternità (Liquid Ground di Giovanni Vetere o Il volatile a guardia del tempio capitolino di Benedetto Pietromarchi). E tornando nella corte del Museo, la moltitudine di orci in terraccotta di Michela de Mattei aperti come bocche e occhi verso le spettatore fa riecheggiare sonorità oniriche legate alla memoria incantata del luogo… A un giovanissimo visitatore che mi chiedeva il senso di una simile operazione ho risposto che il progetto di Hypermaremma è stato curato da chi ama profondamente questo luogo e lo conosce fin da bambino. Così ora Carlo Pratis e Giorgio Galotti, curatori della mostra, da giovani adulti ed eccellenti professionisti, con fine sensibilità e rispetto, vagliando con cura le opere proposte, hanno scelto Cosa per coinvolgere vecchi e nuovi pubblici e raccontare una “Cosa Nuova”, contribuendo alla sua fruizione e valorizzazione. Un Museo degno di questo nome, un luogo di cultura vivo, sa attrarre e coinvolgere, racconta storie vere, fa tornare più volte il suo pubblico, parla con voci sempre diverse e affascinanti: ci auguriamo perciò che il progetto di Hypermaremma diventi un appuntamento costante nel tempo e che i visitatori sappiamo cogliere quel senso di continuità che lega profondamente passato e presente e siano in grado di rileggere, attraverso nuove ed originali forme scultoree e installative, le testimonianze ormai intangibili o ancora in parte conservate della propria Storia.
Daniel Gustav Cramer, artista
Probabilmente non dimenticherò mai il momento, alcuni mesi fa, da cui tutto è iniziato: a una festa a Torino nel Club Canottieri, l’ultimo giorno di Artissima, un ragazzo si è imbattuto in me dicendomi: «Michael, è un piacere vederti». Io: «non sono Michael». Lui: «Comunque è fantastico che tu sia qui!». Era Giorgio Galotti ed è stato l’inizio del mio coinvolgimento in Hypermaremma. Dalla mia esperienza, la mostra Mare Mare nel castello di Capalbio ha riunito le persone nel modo più rilassato e confortante. Sono stato accolto con calore e ho apprezzato ogni momento della mia permanenza nel luogo. I curatori sono stati ospiti straordinari. Hanno gestito gli spazi all’interno del castello come un ambiente adatto per accogliere le opere in mostra. Poiché la mostra e gli eventi si sono protratti per diversi giorni, c’è stato abbastanza tempo per conoscere gli artisti coinvolti, la regione e la sua meravigliosa tradizione culinaria. In entrambe le opere che ho presentato, l’acqua appare come uno schermo monocromatico, una superficie che si altera all’infinito, allo stesso tempo figurava come una tela bianca che contiene una storia mai raccontata.
Gianni Ferrero Merlino, artista
Uno dei primi testi di Jeff Wall del 1989 è intitolato Fotografia e intelligenza liquida, in cui parla della “intelligenza liquida”, fluida, senza forma, complessa, esplosiva della natura in contrasto con il carattere vitreo e relativamente “secco” della fotografia, in cui l’acqua, i liquidi, giocano una parte essenziale – nel lavaggio, fissaggio e così via – ma che deve essere tenuta attentamente sotto controllo. L’acqua e i liquidi rappresentano la preistoria della fotografia, degli “arcaismi” che la connettono al passato, al tempo, alla memoria, attraverso i processi di produzione antichi, la parte chimica e alchemica del processo fotografico. Nel film Solaris, di Andrej Tarkovskij, alcuni scienziati studiano il pianeta oceanico. Le loro tecniche sono tipicamente scientifiche, ma l’oceano è esso stesso un’intelligenza che li sta a sua volta studiando. Esso sperimenta sugli sperimentatori, restituendo loro i ricordi individuali sotto forma di allucinazioni nel presente, chiedendo di ristabilire un rapporto, forse declinabile in modo diverso. Credo che questa sia una metafora molto calzante, tra le altre cose, per l’interrelazione tra intelligenza liquida e intelligenza ottica in campo fotografico. In fotografia, i liquidi ci studiano, perfino da remote distanze (Jeff Wall, Gestus. Scritti sull’arte e la fotografia, Quodlibet Abitare).
Arte e Critica, n. 94, autunno 2019, pp. 77-87.