IN OCCASIONE DELLA MOSTRA TEMPORARY LANDSCAPE. ERBARI, MAPPE, DIARI AL PAV PARCO ARTE VIVENTE DI TORINO E DI ARCHITETTURE DELL’ISOLAMENTO PRESSO LA TENUTA DELLO SCOMPIGLIO DI VORNO, PROPONIAMO UN APPROFONDIMENTO SUL LAVORO DI EUGENIO TIBALDI A PARTIRE DAGLI SVILUPPI DEGLI ULTIMI CINQUE ANNI.
Di virate, il lavoro di Eugenio Tibaldi, ne ha effettuate molte. Mutamenti che lo hanno portato ad addentrarsi sempre più nel dettaglio, nello spazio interstiziale delle quotidianità, muovendosi nella invisibile, sottile linea della marginalità, umana, sociale, relazionale, culturale, politica, architettonica, urbanistica, geografica. «Perché il margine – non manca di affermare – ha una sua poetica e una sua estetica». Tuttavia, quelle compiute dall’artista piemontese (nato ad Alba nel 1977) sono svolte apparenti, di formalizzazione e di sguardo. Perché sono solo modi diversi che lo conducono a posizionarsi in nuovi punti di vista e di visione, sempre della stessa tematica. Sebbene negli ultimi periodi molte ricerche artistiche si muovano nelle periferie delle grandi città, Eugenio Tibaldi, nella radicalità delle sue esperienze, ha scelto di viverci in quelle periferie tanto nominate, spesso vituperate, molto violentate, ma raramente conosciute oltre il dato e vissute dall’interno della loro essenziale ossatura. Sono oltre vent’anni (ovvero a partire dal 2000) che registra, misura, trascrive, estrapola, focalizza, gli elementi caratteristici e caratterizzanti di tante periferie. Estremismo, perché scelse di condurre questa chirurgica osservazione trasferendosi direttamente dal Piemonte in quell’area che, nell’immaginario collettivo, rappresenta la periferia per antonomasia, l’hinterland napoletano. Nelle periferie di Napoli ci ha vissuto fino al 2016, fondendosi con i vicoli, con le spiagge, con le architetture, attraversando quei luoghi che per lui sono «erroneamente definiti periferie, quando in realtà sono degli ammortizzatori sociali», funzionali alla sopravvivenza della classe piccolo borghese; luoghi a lungo visti come la «cintura rossa» e verso cui, già a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, in molti, non solo artisti, volsero la loro attenzione. Questo suo «stare dentro» sembra fare eco alle indagini eversive di Ugo La Pietra, che già negli anni Sessanta miravano alla modificazione dell’esistente.
Nel 2016, una nuova sferzata. E un sostanziale cambio. Dal caos partenopeo, dopo la realizzazione di Questione di appartenenza al Museo MADRE, Tibaldi si trasferisce nella ordinata e aristocratica Torino, per realizzare Seconda Chance.
Nel Museo Ettore Fico predispone una magnifica installazione, quale risultato di un’ampia ricerca a Barriera di Milano del capoluogo piemontese, indagando come poter ancora conferire una nuova identità a un quartiere che ha perso la sua soggettività industriale. Una complessa e articolata macchina composta attraverso l’assemblaggio di innumerevoli oggetti, donati all’artista o da lui direttamente acquistati e che nelle sue mani sono diventati altro. Una reale «migrazione», fisica e di contenuto, attraverso la quale viene attivata la responsabilità dell’artista stesso, che aggiunge significati altri agli oggetti stessi. Mediante il loro accumulo, Tibaldi ha costruito una grande storia, composta e congegnata da numerose microstorie, servendosi di una struttura creata assemblando tubi innocenti, solitamente percepiti come dispositivi momentanei, che invece in quel lavoro diventano componenti indispensabili dell’intero meccanismo. Con uno «sguardo più in prospettiva, è una figurazione per raccontare la mia situazione. Un lavoro fatto nel 2014 e di cui ho preso coscienza nel 2016. Rivedendolo, analizzando la mia pratica con maggiore coscienza e il perché lo faccio, capisco che qualcosa stava cambiando. Focalizzo che, in realtà, quelli realizzati fino ad allora non sono tanti progetti, ma un unico macro-progetto che conduce al mio lavoro allo Scompiglio». Un nuovo spostamento, quello che da Napoli lo ha condotto a Torino, che, naturalmente, ha lasciato dei segni, delle tracce. Anche nelle opere. Perché da quando si è allontanato da Napoli pure il suo lavoro ha subito delle trasformazioni, sicuramente di senso e significato, con un conseguente cambiamento anche del concetto di margine.
Ed è con il distacco, non solo geografico, nei confronti di quanto realizzato negli ultimi anni e di quanto vissuto durante i mesi di forzata chiusura dovuta alla pandemia, che ulteriori interrogativi sono germogliati nella sua distesa ricerca. Perciò Studio sulle “Architetture Minime” (2017, Palazzo Caracciolo, Napoli), After Leonardo/Giardino abusivo (2019, Museo del Novecento, Milano) e l’installazione Habitat01/Notturno con figura (2021, La Galleria Nazionale, Roma) sono i prodromi di quanto l’artista ha formalizzato nella titanica mostra Architetture dell’isolamento, allestita nello SPE – Tenuta dello Scompiglio, a Vorno (LU) e curata da Angel Moya Garcia. Tappe che segnano quel graduale spostamento e movimento che lo conducono a una visione sempre più micro, a una ricerca di rappresentazione dello spazio interiore, la quintessenza del concetto di margine, nel suo più autentico e primario significato. Perché in Studio sulle “Architetture Minime”, ragionando e confrontandosi, altresì, con personaggi del calibro di Pablo Castro e Giuseppe D’Anna, Tibaldi parte dalla convinzione che sia in atto una «guerra silente», con cui l’uomo si appropria degli spazi urbani, una guerra in cui non c’è un vincitore, «ma una silenziosa resa». Recuperando le tracce dei senzatetto lasciate in città, individua un’estetica dei loro giacigli, con specifiche caratteristiche strutturali, le «architetture minime» appunto. Minime e transitorie, che raccontano microstorie individuali e intime. Raccontano quella marginalità urbana prodotta dall’esclusione di coloro che, in qualche modo, si discostano dalla collettiva organizzazione sociale, sostituendosi a quelle persone che un tempo erano considerate appartenenti alle classi subalterne. Un incedere che consente all’artista di cogliere un’estetica inintenzionale.
In After Leonardo/Giardino abusivo, invece, individuando nuovamente quella estetica marginale di relazione tra l’uomo e la natura, Tibaldi costruisce un’installazione viva attraverso un impianto totalmente sostenibile, in cui le piante vivono anche grazie all’intervento della collettività che se ne prende cura. Uno sguardo verso la natura che emerge in tutta la sua portata nella spettacolare mostra allestita al PAV Parco Arte Vivente di Torino, curata da Marco Scotini. Perché in Temporary Landscape. Erbari, mappe, diari, mediante una selezione di circa venticinque lavori grafici (tra i quali progetti mai concretizzati) compiuti negli ultimi dodici-tredici anni, è prepotentemente dichiarato, e reso evidente, questo filo rosso, sempre latente, di una natura «matrigna al 90%», perché, come dice lo stesso artista, «analizzando il margine, ho raccontato pure della natura e, quindi, anche della violenza della periferia nella natura». «Attraverso i suoi lavori, i suoi sabotaggi – commenta Scotini –, Eugenio crea un verosimile, col quale altera la percezione e discute il nostro rapporto con la natura, di una natura lì e un io qui, come una separazione netta. Mette in discussione l’immaginario di natura incontaminata, quando in realtà è tutto decentrato. Pertanto, è necessario un altro rapporto, di osmosi dal basso, costruttivo, e non produttivo e estrattivo».
Infine, con Habitat 01/Notturno con figura, riflette sullo spazio interiore e sul margine che ognuno di noi ha, strutturandolo come un percorso che può rappresentare «un loop di un giorno o di una vita intera». Ed è in quello strano loop che egli si è imbattuto proprio a Torino e durante il lockdown. Impegnato nella ricerca di un diverso appartamento, è venuto a conoscenza che all’interno del suo palazzo c’era quello del defunto dott.Dinucci, vuoto e abbandonato da tempo. Superare la soglia di quella abitazione ha significato entrare in una dimensione altra, nell’intimità del suo precedente inquilino. Trovarsi di fronte a una buona fetta di vita vissuta, volutamente rinchiusa tra le pareti della propria casa, ha riproposto a Tibaldi quelle annose e irrisolte domande del tipo cos’è una vita? E, soprattutto, cos’è il margine?
Vivendo in un isolamento forzato, dovuto alle norme anti-Covid, l’artista ha incrociato la storia di una persona che invece, volontariamente, si era isolata dal mondo. Nelle stanze di quella casa, letteralmente distanti dal resto della società, aveva ricreato un personale mondo, costruito sulle intime manie e ossessioni, sovrapponendo sempre più, e facendo combaciare, l’esterno con l’interno, eliminando cioè la distinzione fra la dimensione esterna e l’universo interiore. Tutto questo, in un’inaspettata congiunzione, si è armonicamente sincronizzato, divenendo quell’humus rigoglioso su cui Tibaldi ha impiantato la sua titanica e fantasmagorica Architetture dell’isolamento. Un’installazione immersiva di notevoli dimensioni, che richiede un certo impegno mentale, ma anche fisico, e che comporta anche un innegabile aspetto performativo. Mentale nel vano, e pressoché impossibile, tentativo di decifrare tutto quello che, apparentemente, è stato affastellato in una sorta di tunnel posto all’inizio della mostra, che è fatto obbligo di percorrere per poter vedere gli ulteriori lavori. Lì dentro si perde la cognizione del tempo e dello spazio. Impegno fisico perché è necessario superare questa sorta di canale uterino, per uscire dal quale è richiesto al visitatore un certo sforzo, si deve letteralmente piegare, «come l’ossessione che ti fa ripiegare su te stesso». Un tunnel, un canale, che con un Salto nel buio (ricordate il film del 1987?), conduce il visitatore dentro la mente, forse delirante, di sicuro ossessionata e maniacale, del dott.Dinucci. «Non descrivo la storia dell’uomo – racconta Tibaldi –, ma costruisco un macchinario in grado di far vedere il baratro che abbiamo a fianco, dicendo: attenzione puoi cadere lì dentro – e tu diventi sovrano di un regno che ti isola del tutto». Un attraversamento come una sorta di parto, che anziché condurre nella direzione di un fuori avvia, nonostante la sua improvvisa ampia apertura, verso un ulteriore dentro mentale. È qui che Tibaldi lentamente carda la memoria e la storia, intervenendo nella prateria del materiale compulsivamente collezionato dal dott.Dinucci, subentrando lentamente con la propria biografia e la propria storia, iniziando il racconto di quello che è avvenuto in lui in questi due anni di reclusione per la pandemia. «Però la mia è una astrazione del reale: io faccio degli artefatti, non una cronaca». E costruisce qualcosa di altro, diverso da quello che gli oggetti testualmente rappresentano. Isolation landscape 01, una libreria completata da una spada che sorregge una gruccia con una camicia su cui sono appuntate numerose medaglie. Una scansia ricolma delle biografie di personaggi famosi, vuoi dittatori, vuoi santi, come anche intellettuali, è materiale per essere trasformato nelle montagne delle Alpi, quelle che dalla finestra dell’appartamento si possono ammirare, ma al contempo è una reale barriera naturale, un filtro esterno al mondo interno. Un mondo costruito su illusioni, su errate certezze, che hanno spinto il dott.Dinucci a convincersi di possedere degli illustri natali, quale discendente di una gloriosa famiglia militare. E da qui la sua passione per le dittature. E per questo Tibaldi, in Symposium, riprendendo uno dei preziosi volumi sugli uccelli, ha costruito un fantasioso quanto fantasmagorico albero su cui sono state chiamate a raccolta tutte le varie specie di volatili, a partire dall’upupa – alias dott.Dinucci, alias l’artista –, che in ornitologia è l’uccello per eccellenza. Un albero i cui rami spogli riflettono sinistre ombre sulle pareti circostanti, quasi a evocare la follia parodicamente raccontata da Il grande dittatore (1940). Quella forma di supremazia che i Savoia avevano voluto rendere evidente e tangibile con la costruzione di castelli sparsi su tutto il territorio italiano.
Attraverso degli interventi con acquarello, Eugenio Tibaldi, nelle 199 incisioni di Democratization of the human defect raffiguranti i suddetti castelli, ha esplicitato il concetto di potere, o meglio il binomio potere/godere, che, generalmente, è fortemente collegato anche alla sessualità. Così, in ognuno, ha riprodotto elementi fallici, butt plugs e dildo, per rappresentare il reale sollazzo che tali possedimenti letteralmente esprimono. Paesaggi variamente costruiti anche col passare del tempo e con l’accumularsi di bicchieri con residui di vino i quali, di diverse fogge e con rimanenze liquide differenti, creano un inedito, quanto personale skyline di Landscape creator. Un isolamento, seppur dorato e consolatorio, costruito attraverso il circondarsi di libri e oggetti, si può trasformare in un isolamento mentale, ben evidenziato da Isolation landescape 02: l’intero arco alpino scolpito nelle migliaia di pagine dei volumi enciclopedici. Una forte luce ne proietta il profilo sulle pareti che ospitano questa installazione, che è visibile solo da un prestabilito punto di vista, altrimenti si rimane accecati dal faro puntato sui volumi. Le ombre cupe, proiettate sui muri, potrebbero annebbiare qualsiasi mente. Un immenso sapere che, contrariamente a quanto si potrebbe desiderare, anziché darci, butta via le chiavi del mondo. Perché nonostante la raffinata cultura e la distinta erudizione, nessuno è immune dalla possibilità di rinchiudersi in un personale isolamento da tutto quello che ci circonda.
Novembre 2021