Antefatto
Il Parco Internazionale di Scultura Contemporanea “Sculture in Campo”, presso le sue due nuove sedi “al coperto” IPOGEO e PROGETTI, entrambe all’interno del borgo storico di Bassano in Teverina, dal prossimo 11 settembre ospiterà una piccola, intima quanto intensa mostra-omaggio dedicata a Cloti Ricciardi (Roma, 1939). Dell’artista romana il pubblico ha potuto recentemente imbattersi in Respiro (1968) al Palazzo delle Esposizioni, in occasione della Quadriennale d’arte 2020. La mostra a Bassano in Teverina, con la collaborazione di Mariolina Ricciardi, sorella di Cloti, accoglie un nucleo di opere che magistralmente fondono materia, pittura, scultura e installazione con un’analisi dello spazio e un linguaggio formale personalissimo, difficilmente ascrivibili agli “ismi” del nostro tempo. Voluta e organizzata da Lucilla Catania, nella sua duplice veste di presidente di “Sculture in Campo” e di amica-collega di lungo corso di Cloti, questo omaggio espositivo rientra nella più ampia progettualità del Parco di contribuire a rimuovere quel velo dietro il quale si cela ancora l’attività di tante, troppe artiste ignorate, sottovalutate, prive di approfondimenti storico-critici adeguati, nonostante abbiano apportato all’arte contemporanea un contributo ineludibile.
È il mese di maggio scorso quando Lucilla Catania mi chiede di curare la mostra di Cloti. Accetto subito di buon grado e, di lì a qualche giorno, ci troviamo entrambi nella casa-studio di Cloti Ricciardi, nel cuore di Roma.
Una lunga storia di amicizia e di lavoro
L’abitazione-studio di Cloti è situata al piano intermedio di un antico palazzo romano dall’atmosfera romantica, incastonato in un viottolo caotico tra ristorantini e negozietti di souvenir a un tiro di schioppo da Fontana di Trevi. Mentre saliamo le strette scale tagliate per far posto a un angusto ascensore, mi viene spontaneo chiedere a Lucilla quando ha conosciuto Cloti. «Nei primi anni ’90. La conoscevo già di fama. L’incontro con lei è stato l’inizio di una lunga storia umana e professionale, bella, importante e altrettanto bizzarra, soprattutto se analizziamo il contesto artistico romano di quel periodo». «Cioè?». «Eravamo due artiste, due donne, appartenenti a generazioni artistiche molto diverse sia per età che per tematiche di ricerca. Cloti era espressione pura della ricerca sperimentale degli anni Sessanta/Settanta. Io, invece, espressione altrettanto pura degli anni Ottanta, del ritorno all’opera, a una visione classica dell’arte e della scultura». «Difficile intendersi?», le ribatto. «Assolutamente no, anche perché eravamo due artiste atipiche. Nell’arte romana degli anni Ottanta e Novanta il modello dominante era quello maschile che si fondava su un’idea molto semplice: gli artisti si organizzavano in gruppi di lavoro sulla base di affinità linguistiche, quindi per somiglianza. Riproducendo una logica militare, questi gruppi andavano alla conquista, spesso sostenuti da critici d’arte affiliati a questo o quell’altro gruppo di gallerie d’arte che potessero occuparsi del loro lavoro. In ballo c’era l’affermazione del gruppo sia sul piano culturale che, successivamente, su quello del mercato. Il rapporto di lavoro e di amicizia tra Cloti e me si basava sulla differenza, sulla diversità e sulla curiosità che questa diversità produceva. Nessuna galleria da conquistare dunque, piuttosto un percorso da fare insieme, un attimo delle nostre esistenze da condividere». «Per questa libertà di azione e di comportamento, in un sistema dell’arte governato quasi esclusivamente dagli uomini, avete avuto un prezzo da pagare?». «Sì, soprattutto Cloti. Unica donna-scultrice a Roma in quegli anni socialmente e culturalmente rivoluzionari, ha vissuto pesantemente un’incomprensibile e ingiusta emarginazione. Il sistema, all’epoca, non prevedeva l’esistenza di figure femminili, l’arte era solo per uomini. La sua adesione al movimento femminista romano ne è la riprova. In modo meno severo io stessa ho vissuto analoghe limitazioni. Solo nei recenti anni Duemila le giovani artiste, in massa, hanno sfondato quel muro di gomma che le opprimeva entrando prepotentemente nel mondo dell’Arte. La storia è cambiata, posso affermare che la quantità è diventata finalmente qualità. Nonostante ciò, ancora oggi, le conseguenze nefaste di quella discriminazione di genere pesano molto e rendono difficile il pieno riconoscimento del valore artistico di figure femminili di indubbio valore e talento». «Tu e Cloti avevate delle, possiamo dire, affinità elettive?». «Sì, un modo simile di sentire il mondo e di vivere l’arte. Sul piano della sensibilità artistica due aspetti ci univano: la ricerca della semplicità e della sintesi nella costruzione dell’opera. Cloti aveva la straordinaria capacità di saper utilizzare, senza preclusione alcuna, qualsiasi materiale o oggetto che fosse adatto a esprimere l’idea di quell’opera in quel determinato momento. La sua libertà creativa era infinita e incondizionata. Mi vengono spesso alla mente certe espressioni del suo viso piene di meraviglia, di stupore e di curiosità. Del resto i grandi artisti e le grandi artiste sono eterni/e adolescenti, e Cloti è così tuttora».
La casa-studio
Come dare torto a Lucilla, penso, quando varchiamo l’ingresso dell’abitazione-studio di Cloti, che sembra quella di un’adolescente dei fantastici anni Sessanta a Roma. L’infilata di stanze tappezzate di opere di Cloti e di cimeli dei suoi amici della Scuola di Piazza del Popolo appare quasi come una gigantesca macchina del tempo programmata per un salto indietro di circa sessant’anni. Sì, il tempo da Cloti sembra essersi fermato. Sembra di trovarsi all’interno di una sua gigantesca installazione, in una sua anomia del tempo e dello spazio. Dove per anomia si intende il procedere al di fuori di ogni codificazione, in modo libero e “laterale”, quella sosta in cui ci abbandoniamo a una pausa. Ci accoglie all’ingresso la sorella di Cloti, Mariolina. Mentre attraversiamo le stanze di una casa che sembra interminabile, Mariolina – da me pungolata – ci apre le porte ai suoi ricordi più antichi. «Cloti ha sempre disegnato, ritratti di noi familiari, dei parenti, dei gatti e di tutti quelli che passavano dalla nostra casa. Ma la consapevolezza che volesse fare la “pittrice”, l’artista, l’ho avuta solo quando espresse l’esigenza di affittare un proprio studio dove poter lavorare alle sue opere, con le discussioni e le perplessità familiari che ne seguirono. Nel 1964 suscitava più di una perplessità infatti che una ragazza per bene prendesse un appartamento in affitto da sola per dipingere… Fin da ragazzina l’ho accompagnata nel suo studio in quei primi anni. Spesso andavo a trovarla, passavo parte del mio tempo con lei, a volte ad aiutarla. Più di frequente solo a farle compagnia e a guardarla lavorare. Ho avuto così l’occasione di accedere a un mondo, per me ragazzina, straordinariamente interessante, tra mostre, gallerie, artiste e artisti. Negli anni Settanta ci siamo ritrovate poi nei movimenti di lotta femminista, ciascuna secondo le proprie scelte politiche, nelle sedi collettive di discussione o nelle grandi manifestazioni di piazza».
La militanza artistica e femminista
Mentre Mariolina Ricciardi accenna alla militanza artistica e femminista di Cloti, mi tornano alla mente le parole di Laura Iamurri che avevo sentito pochi giorni prima. «Cloti Ricciardi è un’artista militante, mi verrebbe da dire che lo è sempre stata, almeno dal momento del suo incontro con il nascente movimento neofemminista nel 1970; una militanza importante, all’inizio nel gruppo di Rivolta Femminile, poi nel collettivo di Pompeo Magno. Con la nostra artista sempre in prima linea nei cortei, sempre pronta a mettere a disposizione del movimento femminista romano la propria creatività per gli apparati effimeri delle manifestazioni e per le riviste, alle quali contribuiva con illustrazioni e testi. Della militanza di Cloti le opere non lasciano trapelare traccia evidente. A eccezione di alcuni lavori realizzati nei primi anni Settanta, quasi una verifica condotta insieme al definirsi dell’impegno nel presente, e del piccolo libro fotografico alfabeta (1976), originale tentativo di liberare il linguaggio dalle scorie del patriarcato, il lavoro di Cloti Ricciardi appare come una ricerca autonoma, in dialogo con la sua contemporaneità e con la storia dell’arte, ma totalmente libera da ogni tentazione illustrativa. L’autonomia del suo magnifico linguaggio creativo e la sua militanza politica hanno seguito tracce parallele, senza mai intralciarsi, al contrario sostenendosi reciprocamente con forza».
Il tema della relazione tra femminismo e attività artistica in Cloti, come quello del ruolo dell’autocoscienza femminista nella nascita di lavori del tipo di Expertise, li approfondisco telefonando a Benedetta Carpi De Resmini. «Atto di Nascita, n.714 Ricciardi Clotilde, è con questo semplice gesto che l’artista si definisce, si presenta in maniera netta, indiscutibile. Era il 1972 quando Cloti Ricciardi rimarcava l’orgoglio dell’essere donna: nell’opera Expertise. Conferma di identità stampa il suo certificato di nascita in un formato sovradimensionato, delle misure di un poster, apponendovi dei timbri femministi. L’artista utilizza dunque la prova giuridica della propria persona, dandole la dimensione e l’importanza di un quadro. Come in un’autentica di un’opera d’arte, Ricciardi legittima se stessa in quanto artista e rimarca con forza l’orgoglio di essere donna tramutandolo in opera d’arte e assegnandogli, dunque, un valore prezioso». «Se non sbaglio, il vostro primo incontro è stato proprio grazie a questo lavoro?», le chiedo. «Sì, durante la preparazione della mostra MAGMA, tenutasi nel 2018 a Roma, all’Istituto Centrale della Grafica, a pochi passi dalla sua abitazione. La preparazione di questa mostra dedicata al femminismo è stata lunga, tuttavia la scelta delle sue opere è stata invece istantanea. Cloti affermava con semplicità che in fondo l’opera che in qualche modo più la rappresentava era proprio Expertise: “era l’espertizzazione che ero veramente una femmina, l’orgoglio di appartenere a un sesso, che non è un segno di inferiorità ma anzi un segno di gioia, felicità, ironia” (Seravalli, 2013)». Mi congedo da Benedetta con un’ultima domanda: «Oggi nel tempo della fluidità in quanto essenza del nostro essere, riscoprire quest’opera di Cloti cosa può significare?». «Diventa un modo per riflettere su questo momento storico sociale e politico: non per negare questo tempo di cambiamento, ma per continuare sulle orme di Cloti, che è sempre stata un’attivista trasversale, per delineare alcuni punti determinanti per un’azione politica in quanto soggetto di diversità, fuori dal coro».
La malattia, il sorriso e lo sguardo “obliquo” della realtà
Sto ancora riflettendo sulle parole di Benedetta Carpi De Resmini quando Mariolina Ricciardi, rivolgendo lo sguardo verso di me e Lucilla Catania, aggiunge: «Con la sua voglia di sperimentare e con una sorta di instancabile furore creativo, Cloti ha ricercato e prodotto sempre, fino a qualche anno fa, quando è stata sopraffatta non solo da difficili situazioni familiari, ma soprattutto dalla malattia che l’ha allontanata progressivamente dal pensiero e dal mondo reale». Incontriamo Cloti nel suo soggiorno. È seduta al tavolo quando ci saluta. C’è, è davanti a noi, ma è come se non ci fosse. Tuttavia, splende quel suo sorriso inconfondibile che la malattia non è riuscita a sottrarle. È lo stesso sorriso, per esempio, che Cloti ha immortalato di sé in quella pozzanghera in resina epossidica con cui “guarda dal basso” nell’installazione Misura per misura del 1992, presentata alla Biennale di Venezia del 1993. Questo “autoritratto” introduce un altro leitmotiv della sua ricerca, quello delle percezioni ribaltate e differenti, della mutazione dello sguardo al di fuori di schemi prestabiliti, per costruire e riconoscere nuove relazioni e nuovi rapporti con la realtà. L’impiego ricorrente di superfici specchianti, quelle d’acciaio, di vetri trasparenti e di resine opache, sottolinea questa dimensione di percezione nuova (Zanfi, 2000), questa possibilità di capienza di altre immagini. Nella determinazione a “spostare l’orizzonte di ciò che l’opera ci dà a vedere sul limite di ciò che non è visibile, ma già si offre per trasparenze” (Trini, 1989) oppure per riflesso.
L’acqua e le mappe geografiche
La casa-studio di Cloti è particolarmente calda sotto la canicola romana. Da una finestra aperta di una stanza prospiciente al soggiorno dove ci troviamo, si può cogliere a tratti il gorgoglio dell’acqua che scorre senza sosta da un nasone, la tipica fontanella pubblica della Città Eterna. Chissà quante volte, mi viene da pensare, Cloti si sarà soffermata a contemplare l’acqua di una delle numerose e bellissime fontane della sua città natale, oppure le pozzanghere tra i sanpietrini dopo un violento rovescio di pioggia. Per lei l’acqua è infatti sempre stata vita, vita creativa, un’“insegna” con cui è nato il suo lavoro e che ne ha sovrastato l’esistenza. Al tema dell’acqua ha dedicato una serie di mostre, a partire da Ipotesi grafica, allestita nel 1971 alla Galleria Toselli di Milano, fino a Il piacere dell’acqua nel 2015 a Roma, l’installazione site-specific presso lo Studio Arte Fuori Centro, nell’ambito della rassegna Acque a cura di Laura Turco Liveri. All’acqua rimandano i materiali che riflettono (l’alluminio, il vetro, la resina) impiegati da Cloti, nella sua predilezione per il cambiamento e la molteplicità dei punti di vista, contro una cifra stilistica univoca e il sistema chiuso del rapporto soggetto/oggetto e spazio/tempo. Come l’artista ha dichiarato in un’intervista di Laura Turco Liveri, «La sorgente creativa è sensoriale, emozionale, dopo viene l’elaborazione concettuale».
Un altro interesse ricorrente di Cloti ha riguardato le mappe geografiche, da quella del Bufalini del 1521 a cui si è ispirata per Forma urbis, sequenza sincronica del 1984, fino alla mostra Non parlate ai marinai del 1998, dove esponeva delle lunghe strisce di resina che rappresentavano delle mappe nautiche. Questa sua ricerca ha dato origine al concetto di anomia e, tra il 1987 e il 1988, alle Anomie spaziali, una serie di opere che riguardano spazi fisici, mentali, non codificati dalla logica dell’unicità universalistica; mentre tra il 1989 e il 1991 alle Anomie del tempo, incentrate sulla dialettica interna all’esperienza soggettiva della percezione del tempo.
Le anomie di Cloti
Le anomie di Cloti informano quella sua permanente visione nomadica dell’arte e della vita che forse prosegue anche ora, in modi, tempi, luoghi e dimensioni diversi che la sua malattia comunque ci preclude. Nel salutare Cloti e lasciare la sua casa-studio, pensando alle sue anomie mi viene in mente di telefonare a un’altra persona che ha condiviso con lei amicizia e lavoro per lungo tempo: Roberto Gramiccia. «Metto di lato le ragioni di un solido affetto che pure sarebbero feconde di significati, per parlare di una delle esperienze più appaganti della mia “carriera” di critico e curatore. Vale a dire la mostra a lei dedicata che ideai e curai (con un testo in catalogo di Simonetta Lux) presso la magnifica chiesa di San Pietro alla Carità a Tivoli. Correva l’anno 1997 e Cloti era nel pieno del suo vigore creativo (da quattro anni c’era stata la sua superba sala personale alla Biennale di Venezia di Achille Bonito Oliva). A Tivoli, Cloti espose una selezione delle sue opere più rappresentative dell’ultimo decennio di attività. La chiesa di San Pietro alla Carità fu lo spazio nobile in cui “brillò” il distillato della piena maturità di un’artista che ha rappresentato uno dei vertici di quello che passerà alla storia come “il tempo della Scuola di Piazza del Popolo”», esordisce Roberto. «Perché allora la sua notorietà è inferiore a quella di Festa, Angeli, Schifano e Fioroni?», lo incalzo. «Qualità e riconoscimento della qualità sono due cose diverse. Senza contare che chi ha un minimo di familiarità con quel periodo e con la parabola inquieta e fascinosa delle Scuole romane la conosce eccome. Quella mostra si intitolò: Anomie del tempo e dello spazio. Fu un gran successo e raccolse centinaia di persone a riflettere su un nucleo di pensiero e sulla sua espressione plastica. Un pensiero in grado di falsificare le certezze borghesi e piccolo-borghesi, patriarcali e figlie del potere. Cloti era una femminista che non ri-conosceva i dogmi. Fra i dogmi che respingeva c’era quello che contrappone l’arte concettuale all’arte in generale. Conoscere il suo lavoro significa capire perché.
Nel catalogo della mostra di Tivoli, decisi di salutare Cloti con questi pochi versi che la sua mostra mi aveva ispirato, e che oggi, a distanza di quasi venticinque anni, voglio riutilizzare per salutarla ancora.
Quella volta che / come il calore / un’idea sciolse
il ghiaccio tenace / di un enigma.
Quella volta che / una parola sola / dissipò per incanto /
centinaia di anni / di paralizzanti dubbi.
Quella volta che / più di tutto poté / per la ragione /
e per il cuore / lo svelare una forma / bella e necessaria /
come l’acqua alla vita».
Arte e Critica, n. 96, autunno – inverno 2021, pp. 60-64.