TERZO SPAZIO ESPOSITIVO (SENZA CONTARE IL TEATRINO VENEZIANO) DELLA PINAULT COLLECTION, LA BOURSE DE COMMERCE HA APERTO DA POCO LA SUA PRIMA SEDE FRANCESE A PARIGI, NELLO STORICO PALAZZO DELLA BORSA, A DUE PASSI DAL LOUVRE E DAL CENTRE POMPIDOU. ARTICOLATA ALL’INTERNO DEL GESTO ARCHITETTONICO DI TADAO ANDO E DELL’IDENTITÀ STORICA DI UN EDIFICIO PATRIMONIALE OTTOCENTESCO, LA PINAULT COLLECTION SI OFFRE OGGI SULLA SCENA ARTISTICA CONTEMPORANEA CON UNA PROGRAMMAZIONE INTERDISCIPLINARE E DINAMICA, DOVE SPAZIO, ARTE E PUBBLICO DIVENTANO DEI DISPOSITIVI DI SPERIMENTAZIONE CREATIVA ED ESPOSITIVA.
ABBIAMO INCONTRATO MARTIN BETHENOD, IL DIRETTORE GENERALE DELLA BOURSE DE COMMERCE.
Pamela Bianchi: La Bourse de Commerce nasce, sulla scia degli spazi veneziani, dall’incontro di tre aspetti fondamentali, architettonico, artistico e patrimoniale, che ne contraddistinguono la complessità. Come fare per abitare e dialogare con uno spazio così complesso? Come mettere in atto la politica espositiva e culturale della Pinault Collection e restare in sintonia con l’allure storica di un monumento nazionale, l’intervento di Tadao Ando e la ricchezza della collezione?
Martin Bethenod: Innanzitutto, c’è alla base una volontà abbastanza semplice e molto pragmatica, ossia quella di dedicare più spazio possibile alla presentazione delle opere. Può sembrare banale come riflessione, ma è quella che regola ad esempio Punta della Dogana, dove non esiste uno spazio che non sia d’esposizione. Nello spazio veneziano, c’è solo un centinaio di metri quadrati dedicati a spazi per così dire tecnici, come l’ingresso seguìto subito dal guardaroba (che apre poi direttamente sulla prima sala) e che spesso molti artisti cercano d’integrare nei loro progetti espositivi. Da questa volontà spaziale ed espositiva è nata poi implicitamente l’idea di porosità che contraddistingue la Pinault Collection e che a Parigi si è tradotta in una decina di spazi permanenti, disegnati per essere dedicati esclusivamente alla presentazione delle opere.
C’è inoltre la questione del site-specific che, di nuovo, nasce a Venezia e che qui a Parigi si sta articolando nel superamento dell’idea di mostra intesa come unico mezzo attraverso il quale presentare un’opera. L’approccio curatoriale adottato nella sede parigina cerca di offrire nuovi spunti per esporre l’arte contemporanea e insiste piuttosto sull’idea di contestualizzazione e di dialogo tra le opere e il contesto architettonico. Non dunque la convenzionale parete bianca, l’etichetta al muro o la parete divisoria per presentare i lavori, a Parigi (come a Venezia) privilegiamo altri modi, furtivi, permeabili, che vanno oltre le gerarchie tradizionali espositive, e che investono spazi pubblici esterni ed interni (cosa che ci ha portato spesso a Palazzo Grassi ad avere delle opere nella scalinata centrale, o a Punta della Dogana nel piccolo spazio in punta).
Per Parigi, abbiamo fatto la stessa cosa, ed è così che il topolino bianco di Ryan Gander (/…/…/…, 2019) si trova all’ingresso, dopo il bookshop e appena prima di entrare nel corridoio che precede e circonda la rotonda, o che i piccioni di Cattelan (Others, 2011) sono sul davanzale della cupola, che due video di Lili Reynaud Dewar sono esposti nel vano di una delle scalinate interne (uno di questi realizzato durante il disallestimento della mostra a Punta della Dogana Dancing with Myself del 2018), e che l’installazione di Philippe Parreno (Mont Analogue, 2001) si trova sulla punta della colonna medicea, nel piazzale esterno della Bourse.
PB: Questo tipo di approccio curatoriale non definisce in qualche modo l’attuale processo di democratizzazione degli spazi espositivi, dove la gerarchia tra spazi nobili d’esposizione e spazi secondari di giunzione, passaggio o riposo scompare completamente?
MB: Non so se si possa chiamare democratico come approccio, ma ad ogni modo è pensato prima di tutto dal punto di vista dell’artista e poi da quello del pubblico (benché le due questioni siano mutualmente al centro delle azioni della Collection). Si tratta di dare voce e corpo alla voglia di interagire con la natura non standardizzata dei nostri spazi e di domandare agli artisti d’intervenire in un contesto che sia per loro diverso e potenzialmente interessante dal punto di vista creativo. In effetti, tra i diversi modi di esporre le opere all’interno di un percorso discorsivo autonomo, a Parigi abbiamo voluto insistere sull’idea di “incontro”.
PB: Mi chiedo se quest’idea d’incontro non sia legata a quella di promenade tipica di Tadao Ando. In effetti, gli interventi di Ando in ambito museale portano in seno una volontà museografica e curatoriale forte, basti pensare al Chichu Museum di Naoshima, il museo ipogeo giapponese costruito per esporre tre opere (una di Walter de Maria, una di James Turrell e una di Claude Monet), e dove l’opera principale è perlopiù l’esperienza dinamica dell’intero complesso architettonico.
MB: Quest’idea di promenade è chiaramente presente, sia alla Bourse de Commerce che a Punta della Dogana. A Parigi si organizza attorno alla struttura centrale del cilindro, a Venezia intorno al cubo, e in entrambi i casi nasce dalla volontà di articolare uno spazio espositivo con vista verso l’esterno e dall’esterno. Questa relazione spaziale è molto importante e non solo definisce i tratti dell’esperienza spaziale degli edifici della Collection, ma impatta soprattutto le scelte curatoriali e di allestimento. Di nuovo, si tratta di un approccio nato a Venezia e che qui a Parigi stiamo riproponendo sulla scia della continuità. Non solo c’è l’articolazione tra l’interno (dell’edificio) e l’esterno (della città), ma c’è anche una relazione visiva che si struttura tra gli interni e gli esterni messi in scena dal cilindro centrale della rotonda. La volontà è quella di offrire ai visitatori la possibilità di vivere un’esperienza visiva diversa, più sottile e calcolata (pur sempre nella sua dimensione effimera di casualità dei punti di vista). Per spiegarmi meglio, prenderò di nuovo l’esempio di Palazzo Grassi, perché in effetti c’è un aspetto che ho sempre apprezzato dell’articolazione architettonica e decorativa di questo palazzo, che è la relazione tra realtà e rappresentazione. Le pareti dello scalone d’onore affrescate da Michelangelo Morlaiter e Francesco Zanchi ritraggono dei personaggi in trompe-l’œil appoggiati a delle balaustre e ripresi nell’atto di osservare, e uno dei piaceri offerti dal palazzo è proprio quello di vedere continuamente una sorta di mise en abyme, di vedere ossia questi personaggi rappresentati sovrapporsi visivamente alle persone che passeggiano negli spazi di esposizione o, anche loro, appoggiati alle balaustre dei vari piani. Alla Bourse de Commerce abbiamo lo stesso gioco dinamico di sguardi, ma ancora più enfatizzato. Ossia, quando si è al piano terra, all’interno della rotonda o intorno ad essa, si è sovrastati dai visitatori ai piani, affacciati ai bordi del cilindro centrale e dai personaggi rappresentati nella parte inferiore della cupola che ritrae uno spaccato del commercio ottocentesco nelle cinque parti del mondo.
PB: Si tratta dunque di una promenade che si articola tanto con il corpo che con lo sguardo…
MB: In effetti, credo che molte cose siano partite dall’idea a cui Ando ha dato forma con i suoi interventi veneziani, ossia l’idea di concepire la sua architettura come un trattino tipografico, come un tratto che unisce il contesto e l’opera d’arte. Si tratta di un’idea molto ricca ed estremamente fertile se ben articolata e che ci ha permesso, ad esempio, di dire di no a due cose. In primis, al white cube, ossia all’idea di ricostituire uno spazio sicuramente perfetto, ma ormai standardizzato. Pur essendo uno spazio espositivo privilegiato da molti è tuttavia prima di tutto uno spazio che traduce un’idea d’arte modernista, che non ci rappresenta, e poiché credo che l’autonomia di un’opera d’arte sia oggi più che mai garantita solo imperfettamente (e parzialmente), la Pinault Collection cerca al contrario di offrire degli sguardi nuovi ed inediti sulle opere e di mettere in luce l’imperfezione della loro autonomia grazie soprattutto ad un dialogo serrato con il contesto e con modalità espositive non convenzionali.
PB: Possiamo parlare dunque di una volontà non tanto di uscire dal contesto, quanto piuttosto quella di far entrare ciò che normalmente è fuori campo?
MB: Assolutamente. Si tratta della volontà di mostrare sempre qualcos’altro di inedito anche nel già visto. Approccio, questo, che all’inizio e in alcuni casi è stato un po’ difficile da far capire e accettare. Le critiche che abbiamo avuto al momento dell’apertura della Punta della Dogana erano in gran parte inscritte nell’ortodossia modernista e cercavano di accentuare la presunta incapacità dello spazio a rispondere ad una vocazione espositiva: “qui non si può mostrare niente… come si può esporre delle opere su dei mattoni, come puoi pretendere di focalizzare lo sguardo sull’opera quando l’occhio attraversa le finestre per andare dall’altra parte del canale e contemplare ad esempio Palladio…”.
PB: Torniamo all’idea di tratto che unisce…
MB: Da una parte c’è dunque l’anti white cube, dall’altra c’è invece una sottigliezza che riguarda la volontà di allontanarsi da quell’effetto dello “choc contestuale” che è ormai diventato un’altra forma di manierismo dell’arte contemporanea, forma quasi caricaturale, per cui si espone un’opera provocatoria in un contesto storico. L’approccio della Pinault Collection è invece più sottile e si situa all’interno di un processo per cui l’architettura serve sia da contesto creativo e sperimentale, che da quadro di protezione per le opere che mette in atto una forma di distanziamento, senza però mai ridursi all’ideologia del white cube.
PB: Torniamo per un attimo all’architettura di Tadao Ando e al rapporto con la Pinault Collection e soprattutto al ruolo dell’intervento architettonico in termini curatoriali. Come fare per appropriarsi di spazi così ricchi e già di per sé narrativi e renderli piuttosto dei dispositivi di sperimentazione espositiva?
MB: Penso che l’architettura di Ando (e in particolare della Bourse de Commerce) organizzi lo sguardo. A Parigi tutto è leggibile perché tutto è organizzato: l’opera esposta, l’architettura antica, la sua reinterpretazione contemporanea; tutto è visibile, tutto ha un senso, ma tutto è organizzato. Questa distribuzione organizza lo sguardo e di fatto ha strutturato il principio di allestimento e curatela della mostra inaugurale che, tra l’altro, si basa sui concetti già evocati di sguardo, trasparenze, incontro e relazione.
Innanzitutto abbiamo voluto insistere sulla questione dell’apertura (e dell’alternativa al white cube) facendo delle finestre, sia quelle sul cortile esterno che quelle interne sulla rotonda, dei dispositivi d’incontro. Ad eccezione di due casi, la galleria fotografica (che abbiamo oscurato per motivi di conservazione) e la sala dedicata ai dipinti di Marlene Dumas (a cui abbiamo chiuso l’unica finestra che dava sul cortile perché avevamo bisogno di uno spazio lineare a forma di U), tutte le altre finestre sono aperte. A ciò si aggiunge la questione del dialogo e dell’incontro che abbiamo cercato di strutturare nelle varie gallerie espositive tra le opere e il contesto contemporaneo e storico. È così che abbiamo installato le opere di alcuni artisti di origine africana o afroamericana come David Hammons, Kerry James Marshall e Lynette Yiadom-Boakye in modo da farle dialogare con le rappresentazioni iconografiche coloniali e postcoloniali della cupola. Detto altrimenti, ogni volta che ci si ritrova di fronte ad una delle loro opere, dietro si ha sempre una delle finestre interne che mette in scena un gioco di co-visibilità con le rappresentazioni sulla cupola. Così, davanti alla coppia di The Embrace di David Hammons, basta alzare lo sguardo per avere sullo sfondo la rappresentazione dei guerrieri africani, e di fronte alle opere di Kerry James Marshall, basta guardare oltre la finestra per vedere sulla tela dipinta e montata alla cupola la sezione dedicata alle Americhe. In questo senso, sia le finestre che le decorazioni ottocentesche sono state decisive per l’allestimento delle opere.
PB: Mi sembra dunque che ci sia una volontà implicita non di esporre semplicemente delle opere in uno spazio dato, ma di fare di questo spazio e della storia che si porta dietro un parametro costitutivo dell’intero processo curatoriale. Possiamo parlare di un approccio che va oltre l’autonomia delle forme uniche nello spazio ma che integra nel proprio sistema l’idea di mostra come di un costrutto aperto e dinamico?
MB: In un certo senso sì. Tutto, in effetti, si costruisce simultaneamente, e parte da un’esperienza di unità inscritta nel rapporto Ando, arte contemporanea e Pinault Collection e di cui la Bourse de Commerce ne è la restituzione visiva più emblematica. Bisogna dire comunque che l’idea è nata a Palazzo Grassi, dove le sale si articolano intorno alla complessità visiva e spaziale dell’atrio centrale, e si è poi sviluppata a Punta delle Dogana, dove ogni sala pur avendo una sua unità e autonomia è al tempo stesso in dialogo continuo con gli altri spazi grazie alle aperture del cubo centrale. Quando progettiamo una mostra non pensiamo solo all’autonomia delle varie sale e alla logica del percorso espositivo, ma cerchiamo soprattutto di strutturare una rete di riflessi e salti concettuali per arrivare a formulare un’esperienza espositiva totale. Per tornare alla sede di Parigi, in questo caso la sottile articolazione tra autonomia e contestualizzazione è messa in atto dall’idea di “sguardo che attraversa” e che come abbiamo detto si sviluppa in vari modi: attraverso piccoli giochi di faccia a faccia (come quello tra le opere di Thomas Schütte e Marlene Dumas), grazie al dialogo con le decorazioni della cupola e poi ovviamente attraverso la rete di sguardi tra il pubblico del piano terra e dei piani. In ogni caso, bisogna mettere sempre un po’ di prudenza in quest’approccio, vale a dire che ci sono opere con cui funziona e opere con le quali si tratterebbe solo di forzare il costrutto estetico e concettuale dell’opera e dell’artista. Diciamo che questo esercizio curatoriale non è sistematico nel nostro approccio.
PB: Che ruolo svolge la rotonda centrale all’interno di questo sistema espositivo?
MB: La rotonda è un vero e proprio strumento visivo, uno strumento per organizzare la visione, ma soprattutto un vero spazio di protezione. Mi piace molto quest’idea di prendersi cura delle opere, del curare [parla in italiano], di dar loro un luogo, un contesto, una scala di visione. In questo senso è uno spazio di pura visione che, tra l’altro, ha un opposto quasi concettuale, che è questa forma che abbiamo visto svilupparsi molto nei musei degli anni ’90, ossia l’atrio. In molti musei americani, ma non solo, l’atrio nasce da un’utopia, o meglio da un’ideologia per la quale aspetti espositivi e artistici si fondono (attraversandosi) ad aspetti più funzionali – spesso legati a un modello economico e sociale preciso. In questo senso, la rotonda è esattamente l’opposto, è cioè uno spazio che possiede al tempo stesso la centralità di un atrio, ma che è protetto da ogni altra funzione che non sia la contemplazione dell’opera. La circolazione è lasciata all’esterno, così come il guardaroba, la biglietteria e tutti gli altri servizi messi in atto da uno spazio museale. La rotonda è pura presentazione.
PB: Questa riflessione fa pensare alla villa La Rotonda di Palladio e alla sala Rotonda del museo romano Pio Clementino progettata da Simonetti. Questi spazi totali però, oltre a mettere in scena una certa idea d’arte, si contraddistinguevano anche per essere degli spazi di socialità. Possiamo considerare la rotonda della Bourse come tale?
MB: Sì, ma se parliamo di una socialità sprigionata dalla mancanza di questi elementi di funzionalità e di strumentalizzazione spaziale, ossia di un luogo in cui si osservano delle opere, in cui si discute con chi le guarda, ma in cui non si circola per cercare il guardaroba e che non si attraversa per cercare ad esempio le scale. E qui torniamo, di nuovo, all’idea di protezione e alla volontà della Pinault Collection di offrire all’opera uno spazio ideale, un espace de méditation, per riprendere il termine usato da Ando per l’unico progetto che realizza a Parigi prima della Bourse de Commerce: un cilindro in cemento alto sei metri dove fermarsi e sperimentare il raccoglimento e la meditazione, che realizza nel 1995 per commemorare il 50° anniversario dell’Unesco. Penso che la rotonda della Bourse de Commerce sia intrinsecamente legata a questo spazio meditativo, per il fatto di essere uno spazio dedicato esclusivamente alla contemplazione, ma che paradossalmente occupa il posto normalmente adibito alla circolazione, alla funzionalità e ai dispositivi di organizzazione dell’atrio.
PB: Parliamo un po’ più nello specifico del rapporto con gli artisti e della programmazione curatoriale della Bourse de Commerce. Ci sarà posto per la giovane arte contemporanea?
MB: La questione è delicata, perché siamo prima di tutto di fronte ad una collezione, e una collezione è costituita innanzitutto e per principio da pezzi che esistono, ma c’è sempre anche la dimensione dell’invito a sperimentare gli spazi della Pinault Collection, come abbiamo fatto a Venezia, e come sarà per Parigi. Spesso infatti invitiamo artisti ad immaginare nuovi pezzi o a reinterpretarne di esistenti, come è stato per tre delle opere della mostra di apertura della Bourse. Prima di tutto quella di Urs Fischer nella rotonda, che dell’opera del 2011 ha completamente ridisegnato e immaginato tutti gli elementi che ci sono intorno (come il basamento). Poi, l’opera di Philippe Parreno che è stata ripensata per essere installata sulla cima della colonna medicea (un’opera già di per sé in divenire e che ha sperimentato vari formati espositivi, come quello al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, quello alla galleria Air de Paris di Parigi, o nella parte superiore del faro di Vassivière). E infine, la terza opera è quella di Pierre Huyghe, Off Spring, un’installazione immersiva che reinterpreta l’opera The Scintillating Expedition del 2002 per la mostra a Bregenz. Per questa prima mostra l’idea è stata insomma quella di invitare gli artisti della collezione a ripensare se stessi. Nel proseguo della programmazione, ovviamente, ci sarà sempre il desiderio d’innovazione interdisciplinare, soprattutto coreografica e musicale (tanto da parte degli artisti che della curatela). Probabilmente, Tarek Atoui che attualmente è esposto nel seminterrato attiverà i suoi dispositivi sonori e non è improbabile che li sposterà anche nella rotonda o in altri spazi della Bourse per un momento di performance. C’è poi anche un secondo aspetto, che è quello di dare la Carte Blanche agli artisti, come spesso abbiamo fatto a Punta della Dogana, come è successo l’anno scorso con Thomas Houseago, o nel 2015 con Danh Vo, o ancora con Roni Horn e Liz Deschenes in occasione della mostra Luogo e Segni che ho curato a Mouna Mekouar nel 2019.
PB: Torniamo alla mostra inaugurale della Borse de Commerce. Uno degli allestimenti che mi sembra più riuscito è quello di Bertrand Lavier nelle vetrine ottocentesche del corridoio che circonda il cilindro di Ando. Ce ne puoi parlare meglio?
MB: Dietro a questo allestimento c’è una storia che merita di essere raccontata. Nell’arredo originario della Bourse inaugurata nel 1889 per l’Esposizione Universale, ci sono queste ventiquattro vetrine che, come è abbastanza comprensibile, pongono oggi non pochi problemi di utilizzo: sono dei dispositivi complicati (stretti, senza sfondo, dalla forma strana), su cui è pressoché impossibile appendervi qualcosa, ma soprattutto sono sia delle opere di design ottocentesco che dei dispositivi espositivi. Volevamo tuttavia integrarle nel percorso di visita, avendo l’accortezza di slegarci dalla logica di questi contenitori complicati e di insistere piuttosto su quella di percorso, di flânerie e di passeggiata che la successione delle vetrine suggerisce. Si trattava dunque di trovare un artista in grado di investire questo spazio dinamico e di dialogare con le vetrine. Bertrand Lavier, fin da subito, ci sembrava l’artista perfetto (soprattutto in riferimento alla capacità del suo lavoro di modificare al tempo stesso lo statuto delle forme e il nostro sguardo su di esse), ma abbiamo preferito lasciar scegliere all’artista, senza imporre l’allestimento. Lo abbiamo dunque mostrato a vari artisti della collezione (il che ci dà già un’idea per i prossimi allestimenti), tra cui Bertrand che subito ci ha proposto un progetto. Tra l’altro, bisogna dire che la Pinault Collection conserva un’opera di Bertrand Lavier dalla sua mostra di oggetti dipinti alla galleria Eric Fabre che è giustamente la mise en abyme di una vetrina dipinta di verde esposta in una vetrina. L’articolazione delle opere di Lavier all’interno di questi dispositivi ha dato vita dunque ad una sorta di meta-Lavier che tra l’altro traduce a livello oggettuale la mise en abyme della Bourse de Commerce: un palazzo ottocentesco che contiene dell’arte contemporanea.
PB: Un’ultima domanda, per chiudere il cerchio. Come si proietta la Bourse de Commerce nel sistema artistico contemporaneo, parigino, francese e internazionale?
MB: Il progetto della Bourse, come quello dei musei veneziani, si costruisce prima di tutto in relazione a Pinault, alla sua collezione e alla sua necessità interiore, poi si esprime nella relazione con gli altri, e farò due esempi precisi: la prima, è l’attuale mostra al Palais de Tokyo di Anne Imhof, dove otto delle opere di Imhof più quelle di Polke provengono dalla Pinault Collection. E questo fa capire bene come la collezione si proponga di mostrarsi agli altri anche in altri contesti. Il secondo esempio è Charles Ray, che l’anno prossimo sarà esposto in una mostra articolata in due diverse sedi, al Centre Pompidou e alla Bourse de Commerce. Qui, ancora una volta, abbiamo seguito la logica dell’artista, vale a dire che noi (Jean-Pierre Criqui del Centre Pompidou e Caroline Bourgeois della Bourse de Commerce) abbiamo seguito e assecondato le scelte dell’artista. Si tratta, di nuovo, di andare oltre la Pinault Collection e pensare piuttosto all’artista come figura primaria del processo non solo creativo ma anche espositivo. Inoltre, per concludere, penso che per pensare la Bourse in relazione al sistema artistico contemporaneo e soprattutto in una prospettiva futura, ci voglia del tempo. A Venezia, ad esempio, Palazzo Grassi esiste dal 2006, ma è stato solo nel 2013 che è stata proposta la carte blanche a Rudolf Stingel; poi nel 2009 ha aperto Punta della Dogana, ma solo nel 2017 abbiamo realizzato il grande progetto con Damien Hirst. Perché la Bourse de Commerce abbia un effetto dirompente, ossia prima di poter sperimentare e deviare la meccanica di questo luogo e l’uso che ne facciamo quotidianamente, è necessario stabilire per così dire un certo meccanismo di normalità.
Giugno 2021