L’immagine tra Saturno e Venere. Tempo della ripetizione e tempo trasformativo nell’arte visiva dagli anni Sessanta

IL CONFRONTO FRA DUE «BANCHETTI» ESEMPLARI (QUELLO DI BERNA, ORGANIZZATO DA MERET OPPENHEIM SOPRA UN NUDO FEMMINILE, E L’ULTIMA CENA DI WARHOL), CIOÈ FRA IL SACRIFICIO DEL VIVENTE IRRIPETIBILE E IL SACRIFICIO DELLA COPIA, APRE IL DISCORSO SULLA CONDIZIONE DELL’IMMAGINARIO OCCIDENTALE NELLA SECONDA PARTE DEL NOVECENTO, DOMINATO DAL CONFLITTO TRA L’ATTIVITÀ DEL SIMBOLO VIVO, PORTATORE DI EROS E DI TRASFORMAZIONE, E LA SERIE: L’ISTANZA DI MORTE CONTENUTA NEL SEMPREUGUALE DELLA RIPRODUCIBILITÀ TECNICA, CON LA SUA IMPLICITA CONSACRAZIONE DELLA FINE DELLA STORIA NELL’ETERNO RITORNO DELL’IDENTICO. LA SCELTA DEL GESTO ARTISTICO IN FAVORE DELL’UNO O DELL’ALTRO PRINCIPIO VIENE RICONOSCIUTA, LUNGO IL PERIODO STORICO CONSIDERATO, NEL COMPORTAMENTO DI OPERE SIGNIFICATIVE, CHE LO SGUARDO CRITICO COLLOCA NELLA DANZA MACABRA, IN CUI LA SERIE TRIONFA, O NEL SUO OPPOSTO: IL TEMPO SEMPRE AURORALE DELLA SPOSA: NELLA MALINCONIA SATURNINA DEL SERIALE (LE COPIE COME «ROVINE» NELL’ULTIMO WARHOL, L’UNIVERSO CHIUSO DI KEITH HARING) O NELL’ATTITUDINE ALLA RESURREZIONE (DAGLI ELEMENTI PRIMARI ATTIVI DI YVES KLEIN FINO AI SOGNI ESTREMI ED EFFIMERI DI CHRISTO, PASSANDO PER IL RISCATTO DEL LUTTO DI BEUYS). ETERNO FEMMININO PORTA INFINE L’INDAGINE SUL CORPO AMBIGUO DEL CYBORG (REBECCA HORN, TARO CHIEZO) E CONCLUDE AFFIDANDO AL MISTERO DELLA BAMBOLA MECCANICA E ALLA FIGURA DELL’ASSENZA L’INDICAZIONE DI UN CAMMINO STORICO APERTO.  NELL’ANALISI DELLE OPERE IL SAGGIO DISTINGUE FRA ATTEGGIAMENTO «MIMETICO» (IN CUI L’OPERA RIPRODUCE L’IMPOSSIBILITÀ DEL CAMBIAMENTO AFFERMATA DALLA SERIE) E PRODUZIONE DELLE «APPARIZIONI» (IMMAGINI IN GRADO DI DIVIDERE IL TEMPO) E AFFIDA A UNA NOTA FINALE LA CRITICA ALL’APOLOGIA DELL’ARTIFICIALE, DELLA MIMESI FELICE DELL’APPARENZA QUALE UNICA REALTÀ, DELLA FINE DEL GIUDIZIO DI VALORE, NEL MODELLO IDEOLOGICO DEL POST HUMAN SOSTENUTO DA JEFFREY DEITCH. IL SAGGIO È APPARSO SUL CATALOGO DELLA MOSTRA MODE & ART 1960-1990, PALAIS DES BEAUX-ARTS DI BRUXELLES, 1995-96. NELLO SCRITTO IL RAPPORTO FRA ARTE VISIVA E MODA NON È MAI NOMINATO, MA È SOTTESO COME PROBLEMATICA IMPLICITA DELL’ARTE VISIVA CONTEMPORANEA, NELLA SUA RISPOSTA ANTAGONISTICA O INTEGRATA AL PRINCIPIO DOMINANTE DELLA MODA COME FALSO MOVIMENTO FRA NUOVO E SEMPREUGUALE, IN CUI OGNI ALTERNATIVA È ESCLUSA E LA STORIA STESSA IMPLODE.

«O leaves – Crow sang, trembling – O leaves
The touch of a leaf’s edge at his throat
Guillotined further comment.
                                                         Nevertheless
Speechless he continued to stare at the leaves
Through the god’s head instantly substituted». 
(Ted Hughes, Glimps)

 

«Les cantaban a los muertos ‘Las mañanitas’:
Despierta que el cielo enrojece
ya los pajaritos cantan
ya cantan los faisanes color de llama
mira que ya amaneció».
(Ernesto Cardenal, Quetzalcoatl)

 

1995


PRIMAVERA E TRAMONTO DELLA DIFFERENZA: IL PASTO

«L’ideale sarebbe di dare un Potlatch che non fosse mai restituito».1
(M.Mauss)

 

«Sii plurale come l’universo!».
(F.Pessoa)

La luce d’oro che promana dal Banchetto imbandito da Meret Oppenheim nel 1959 a Berna lancia una sfida, a distanza di quasi trent’anni, alle innumerevoli quinte della scena sacrificale su cui Andy Warhol, fra il 1985 e l’86, nello spazio attiguo al Cenacolo delle Grazie, fa esplodere l’Ultima Cena di Leonardo in mille pezzi.
Non a caso il rituale di Meret Oppenheim – il pasto consumato dai convitati sul corpo nudo di una donna distesa sul tavolo del banchetto, coperta di cibo e col volto dipinto d’oro – si compie in onore del ritorno di Primavera, del rinnovarsi visibile del ciclo vegetativo: allo stato primaverile, nella resurrezione e moltiplicazione del principio vitale del germoglio, così come all’Oro che risplende sul volto della vittima sacrificale, viene attribuito, nella celebrazione di questo pasto, un potere irradiante.
Questa radianza a cui si accostano i convitati del Banchetto s’incorpora in loro come nutrimento, e proprio a essa è affidato il compito di riprodurre in ogni partecipante, moltiplicata, l’attitudine a mettere fiori, e poi frutti, in stato di splendore.
La riproduzione – che da questo banchetto sacrificale viene invocata come aggiunta incessante alla prospettiva temporale – è dunque riproduzione del Fiore vivo: il futuro che il sacrificio qui vuole garantire è lo sbocciare del tempo aurorale, la potenza erotica della gemma che sfondi ancora una volta il Tempo. 
«La perdita – dice Bataille nella sua riflessione sulla Dépense come forma arcaica dello scambio – dev’essere la maggiore possibile perché l’attività acquisti il suo senso… Ma il dono non è la sola forma di Potlatch; è ugualmente possibile sfidare dei rivali con distruzioni spettacolari di ricchezza. È attraverso quest’ultima forma che il Potlatch si collega al sacrificio religioso».2
«Ricchezza», nel Banchetto della Oppenheim, non è solo l’abbondanza, la varietà e l’eccezionalità dei cibi che sono offerti direttamente sul corpo della donna distesa, come messi trionfanti sulla terra fertile, ma anche l’indicazione del Valore, la sua precisa localizzazione nella sostanza vivente della vittima sacrificale. Sul suo volto infatti l’Oro non compare mediato da una maschera, ma incorporato organicamente alla pelle, tramite la pittura: qui l’Icona (nel senso sacrale, bizantino del termine) respira. Coincidendo col volto, l’Oro non è possesso estraniato dal Soggetto, res, ma qualità dell’essere individuato. Questa è la ricchezza ostentata davanti ai convitati: essa si trova riunita sinteticamente sul corpo nudo: il carattere femminile, floreale e nutritivo della Primavera e il carattere maschile, segnico, del metallo glorioso. Il sacrilegio taumaturgico che si compie nell’attuazione del Banchetto di Berna è di sperimentare e incorporare entrambi questi caratteri direttamente, attraverso il contatto con la nudità umana vivente: non dalla nudità insignificante, infatti, ma dalla nudità significativa, portatrice del valore, si rigenera l’Horror Sacri, il trasformatore, il suscitatore di metafore.
Attraverso l’attuazione psicofisica del Banchetto da parte dei partecipanti il potere del Simbolo vivo viene moltiplicato e garantita la sua diffusione nel mondo: l’Eros, penetrato nei convitati, si mescola alla diversificazione storica e mette fiori e frutti.
Ciò che caratterizza l’operazione della Oppenheim come rituale autentico è il fatto che nel processo di valorizzazione di una pratica quotidiana destinata alla sopravvivenza venga coinvolta una comunità reale (al Banchetto di Berna, svolto in forma privata, partecipa un gruppo fondato su vincoli di amicizia, che condividendo il pasto lo realizza come esperienza significativa, in cui il nutrimento è portatore e riproduttore del Simbolo) e non vengano coinvolti invece uno spazio e una comunità segnati dal Codice: è noto il rincrescimento e poi il pentimento con cui la Oppenheim acconsentì poco dopo, su invito di Breton, a riprodurre questo Banchetto all’Exposition Intérnational du Surréalisme alla Galérie Cordier a Parigi: incorniciato in un sistema ed esposto alla spettacolarizzazione, il Banchetto di Berna rischiava di perdere il proprio senso effettivamente cultuale, di partecipazione misterica.
Ma un’altra particolarità caratterizza il banchetto di Meret Oppenheim come «sacrificio»: lo splendore che coincide col volto della Vittima. Che proprio il volto, il portatore del Nome, il marchio della riconoscibilità e della differenza, sia illuminato e sostanziato dall’Oro, segnala il valore attribuito al soggetto individuale nella sua unicità, nel suo destino rischioso e irripetibile. Qui – in questo volto – è il Soggetto, qui il Nome, qui il Valore: di qui si rinnova la Primavera.
Ma quale Primavera è possibile se a essere sacrificata è la Copia? Quale salvezza e quale riscatto senza sacrilegio?
Nell’Ultima Cena di Andy Warhol – in cui l’immagine della divinità e della Vittima non può comparire mai se non come «riproduzione» – il portatore dell’Oro e del Nome sarà sempre intoccabile; rifratto in varianti moltiplicabili all’infinito, esso diventa schema, che può fornire nutrimento non all’Eros ma solo all’Ironia.
È l’Ironia infatti – lo sguardo che prevede la Morte – a registrare, nella logica della produzione seriale, l’azzeramento di valore di ogni individualità singola e la sua trasformazione automatica in fregio della Continuità, in modulo del ritmo. 
Proprio riflettendo sull’equivalenza e sostituibilità di ogni individuo stabilita dalla logica formale del mondo «illuminato» (premessa ideologica della produzione seriale), Horkheimer e Adorno deducono la «fine delle differenze» che il Sacrificio ancora manteneva nel mondo magico, e con essa la scomparsa del carattere creaturale dentro la forma del Numero e il trasferimento del potenziale sacro all’oggettività (considerata immutabile) del Sistema: nel rituale mitico «il carattere sacro dell’Hic et Nunc, l’unicità dell’eletto, lo distingue radicalmente, lo rende, anche nello scambio, insostituibile. A ciò mette fine la scienza. Non c’è, in essa, sostituibilità specifica: vittime sì, ma nessun dio. La sostituibilità si rovescia in fungibilità universale… e non è in luogo o in rappresentanza, ma frainteso come mero esemplare, che il coniglio percorre la via crucis del laboratorio».3
Esemplarmente, nella Cena di Warhol, l’azzeramento del Simbolo vivo diventa «ambiente»: per questa coscienza storica tutta negativa il Cristo annuncia il sacrificio, ma la catastrofe è già avvenuta.
In questo banchetto sacrificale infatti non c’è promessa di resurrezione: esso non porta trasformazione ma solo labirinti di equivalenza nel mondo delle copie. D’altronde  la sostituibilità prevista dalla riproduzione seriale è incompatibile con la concezione della morte come evento simbolico, proprio perché per essa la scomparsa della singolarità non ha rilievo dal punto di vista del Valore.
La soluzione ambientale scelta da Warhol per questa problematica, nella Cena, la estremizza in modo radicale, proprio perché è diretta a mimare paradossalmente la forma drammatica del Sacrificio come rituale collettivo. Con gesto caratteristico, in questa operazione Warhol non si limita ad allineare in modo contiguo le riproduzioni dell’Identico, come nella pratica ambientale delle «Tappezzerie»4:  là Thànatos agiva come la testa di Medusa, con l’effetto narcotico e paralizzante del Sempreuguale, dal cui sguardo si veniva controllati da ogni parte. Qui proprio il Significato, frantumato, reduplicato, smontato e rimontato, travestito con timbri cromatici o nel tessuto mimetico militare, è immesso a vorticare nella relatività assoluta, per cui la totalità ritorna allo stato caotico.
Ma l’immagine fondante che dà origine all’iconografia dell’Ultima Cena (come tappa di un mito sacrificale) è pur sempre la distribuzione del Simbolo vivo come nutrimento per la comunità5: su questo l’Ironia che presiede alla riproducibilità seriale organizza sfarzosamente la sala della Distruzione e ci dice che per la rigenerazione della sostanza vivente questa cena sarà davvero «l’ultima». Ciò che qui vortica nel caos, infatti, come frammento ossessivo, è quella scomparsa del Tragico dalla rappresentabilità (proprio a causa della sua ripetizione, della riduzione dello choc ad articolo di consumo nei Media) su cui riflettevano, negli anni ’62-’63, le serie warholiane dei Disasters e delle Electric Chairs: nella Cena proprio questa scomparsa diventa il materiale organizzativo dello spazio.
Molto prima del banchetto di Warhol, naturalmente, la nozione di «Centro» è diventata problematica, ma ciò che specificamente pone in stato di confusione la scena del dramma sacrificale, in questa Cena, è che in essa sono confluiti – come a priori ideologici della Forma – l’infinito della riproducibilità tecnica delle immagini e l’infinito del Principio di Equivalenza, come proiezione, anche nell’immaginario, del dominio del valore di scambio, assunto come dato di Natura.
La combinazione di questi due vortici, per così dire, genera quell’uragano permanente che nella Cena di Warhol scuote la scena e l’autenticità del «sacrificio». Ma si tratta di un falso movimento, che prende complessivamente il carattere di trompe-l’oeil: prigioniero della serialità e del Codice fin dal suo apparire, ogni elemento di questo banchetto è infatti il frammento di una catastrofe sperimentabile solo stilisticamente, come artificio retorico, in cui però esso scompare come materia passiva, senza riscatto nella reificazione. 
Così l’Ultima Cena di Warhol è la celebrazione di un avvenuto tramonto: l’annuncio che lo stato di non-vita, di apparenza, è divenuto perenne o, per dirla in modo paradossale, che si rinnova continuamente. Il nutrimento distribuito in questo banchetto è infatti la proliferazione infinita delle immagini, prevista dalla loro riproduzione seriale. Ma la sostituibilità del Valore lo cancella: ripetuto e relativizzato, esso scompare dalla scena dell’abbondanza.
Perciò, pur derivando da un processo di «accumulazione», la Cena di Warhol non espone la ricchezza autentica che il Sacrificio esige per ottenere la palingenesi del Tempo, e ogni punto di questa Catastrofe avverte i convitati che alla collettività storica gli Dei non concederanno un cambiamento.

LA DANZA MACABRA: LE GHIRLANDE DEL SEMPREUGUALE

«Teu corpo real que dorme
É um frio no meu ser».
[«Il tuo corpo reale che dorme 
è un freddo nel mio essere».]
(F.Pessoa) 

In The Shadow (1981) l’autoritratto frontale di Warhol si divide da quello della sua Ombra, che lo ripete di profilo, completamente invasa dal buio fotografico. Legati insieme da una medesima radice (o soglia), i due volti si spartiscono ciascuno una metà del Tempo. Ma se la faccia illuminata e frontale guarda verso di noi come occupatori momentanei dell’Eterno Presente, che cosa guarda – deviata la prospettiva – l’Ombra?

«È lo Spleen a produrre senza posa ‘Antichità’ e in effetti la modernità non è altro in Baudelaire che l’antichità più nuova…».6 (Benjamin)

È il viaggio di ritorno delle Copie quello che l’Ombra vede incamminarsi verso di lei: esse avanzano in processione una dopo l’altra e conducono il Passato come forma assoluta del Tempo.
La luce nera che accompagna questo movimento di ritorno, in varie operazioni di Warhol dalla fine degli anni Settanta, non garantisce alcuna «felicità del Circolo» nel senso nietzschiano del termine. Non è «gaia» la scienza warholiana che in Black On Black Reversal del 1979 rifrange l’antica immagine seriale sull’ultima, in un’ondata buia che le sommerge entrambe; così, un’inesorabile vendetta storica colpisce gli stereotipi degli Idola di massa, serializzati da Warhol in passato, che si ripresentano riuniti in serie verticali parallele nel 1981, come «ricordi» nell’edificio cimiteriale dell’autocitazione (Myths): la stessa operazione warholiana infatti è colpita dalla maledizione che ha innescato e dalla quale non prevede scampo. Non è un caso che, fra le colonne dei Miti che si trovano riuniti per questa celebrazione, fra Superman, Greta Garbo, Micky Mouse, Beuys…, si trovi – come confine laterale in cui confluiscono tutte le immagini – proprio la serie bifronte di Warhol e della sua Ombra: «Noi neghiamo i traguardi finali: se l’esistenza ne avesse avuto uno, esso sarebbe già stato raggiunto». (Nietzsche)
In Myths le immagini seriali battono allo sguardo dell’Ombra che le attende, come alla propria riva. Ma a tale sguardo le Copie – il Sempreuguale della riproducibilità tecnica – riappaiono dall’orizzonte come «rovine». Così si realizza nell’universo di Warhol il paesaggio allegorico. La coscienza storica della caducità si presenta qui, ironicamente, come retroscena buio della Ratio che presiede alla continuità della logica seriale, su cui si modella la produzione automatica delle merci. La Malinconia ha invaso lo spazio dell’Ironia: e già da qualche anno l’immagine di Warhol come Vanity, il Self-Portrait With Skull, si è aperta uno spiraglio fra l’infinito delle Copie.

«Acordei para a mesma vida para que tinha adormecido».                    
[«Mi sono svegliato alla medesima vita a cui mi ero addormentato».]
(F.Pessoa)

L’attitudine malinconica che lentamente pervade il cosmo delle apparenze, nell’operazione di Warhol, non è che una tappa – per meglio dire, un’inclinazione della Danza Macabra che percorre il territorio dell’Arte Visiva nel suo confronto con i caratteri della Modernità e che, press’a poco a metà del Novecento, ha accelerato il ritmo del suo movimento in una costante riedizione dell’istanza di morte. 
Nel sortilegio di questa danza, che spesso si presenta sotto il travestimento del gesto critico o comunque liberato dal mito, cade irretita ogni prassi artistica che si realizzi più o meno consapevolmente come mimesi della «Seconda natura». Ribadendo come «mistero naturale» (oggettivo) l’odissea della Forma-Merce con tutto il suo corteggio d’innovazioni tecnologiche, quest’attitudine artistica la assume dentro di sé, come forma del Tempo. Ma l’eterno ritorno dell’Identico e l’immediata destinazione di ogni parvenza del Nuovo alla Morte disegnano il tracciato di un infinito circolare in cui ogni attore della danza precipita come in un abisso. Trascinato in questa voragine, il Tempo storico non perviene finalmente all’Origine, ma implode.
Questo movimento può coinvolgere indifferentemente l’uso artistico dell’Oggetto, del Concetto o del Comportamento: tutti, diversamente abbigliati, s’imbattono nello stesso destino.
Nella pianura novecentesca i danzanti avanzano da ogni parte e si mescolano fra loro; nella lunghezza della prospettiva da cui li guardiamo sul finire del secolo scompaiono le date e le sigle rituali, prevale l’uniformità del ritmo. Vale tuttavia riconoscere qualche partecipante, per il suo costume esemplare.
Nell’Omaggio a New York (1960) Tinguely porta questo processo implosivo del Tempo alla sintesi, nel cuore del suo momento finale: l’accumulazione di rifiuti casuali nel consumo metropolitano, congegnata meccanicamente per un movimento che sviluppandosi la destina all’autodistruzione.
Se in questa operazione è proprio il Caso a cadere nell’omogeneizzazione del tempo distruttivo, nella maggior parte delle operazioni Optical e Cinetiche degli anni Sessanta è la mimesi della Ragione scientifica previsionale a ricostruire l’iterazione neutralizzante della scena percettiva. Nell’ambiente cinetico ogni «gioco individuale» che lo sperimenti o creda di variarlo è equivalente a ogni altro e ogni volta, uscito il giocatore, l’apparato scenico con tutta la sua strumentazione ritorna identico.7
A sua volta nel modulo Minimal – benché esso venga esplicitamente dichiarato come semplice elemento grammaticale di un sistema di forme primarie materiali o concettuali senza intenzione metaforica8 – proprio la volontà tautologica consacra come «mistero» l’equivalenza di tutte le singole unità compositive, che essa vorrebbe invece indicare come legge «oggettiva». Ma in verità nell’operazione Minimal ciò che è onnipotente è il Modello e solo come prodotto della propria stessa logica la Divinità che qui presiede alla Serie può pensare la propria morte: il progetto di Robert Morris – quattro cubi speculari che spariscono nei reciproci riflessi9 – è un’apoteosi esemplare del Modulo seriale come cellula di un Infinito che implode in se stesso.
Parimenti è l’immaginario seriale che determina la problematica speculare nella statuaria fittizia in cui Gilbert & George non incontrano mai se stessi, e ugualmente nel cosmo allegorico di Paolini, in cui ogni Copia celebra il lutto per la scomparsa della propria Origine. I primi, portatori fisici del Codice rappresentativo, possono spostarsi indifferentemente, come modulo compositivo vivente mediato dalla riproduzione fotografica, in qualunque contesto spaziale o di superficie o in mezzo alla documentazione fotografica di qualunque dramma storico contemporaneo che, mentre li ospita come testimoni, viene trasformato dalla loro sostanza modulare in mero sfondo decorativo. Nella poetica di Paolini la maledizione dell’Infinito circolare colpisce il Codice estetico come metafora della Storia: in esso nulla succede che non sia già venuto alla luce una volta e non sia fregio dell’eternità dell’Istituzione, a cui non si sfugge e in cui scompare ogni identità singola. Non a caso nella figurazione allegorica di Paolini la figura della malinconia si sdoppia: sta nello sguardo reciproco dei due Profili classici, che eternamente riflettono sulla propria copia speculare.
Nella Transavanguardia internazionale10 e in tutti i movimenti citazionisti  l’equivalenza fra Codice estetico e Storia, per cui quest’ultima si azzera, perde il carattere malinconico dell’allegoria paoliniana e si trasforma in un meccanismo di accettazione imperturbabile, un automatismo che riproduce l’Equivalenza come potere autoritario che coincide con l’Oggettività.
L’ironia su ogni pretesa di Valore, la riduzione scettica di ogni possibilità trasformativa a «illusione» – fondamenti del Citazionismo che ritiene se stesso l’unico atteggiamento possibile in quanto «realistico», se non addirittura alternativo alla pretesa di novità del mercato, a cui invece cederebbero le Avanguardie – permettono alla produzione artistica una proliferazione infinita di varianti, ognuna delle quali si costituisce proprio in nome dell’assenza di Valore, come teorema dell’Indifferenza.
A questa situazione, in Italia, rimarcando in particolare l’ambiguità della scelta neoespressionista del Citazionismo, risponde Kounellis – proprio perché direttamente impegnato nella riflessione sul carattere storico del Simbolico – dilatando come «ambiente» la serializzazione de L’urlo di Munch, ormai caduto nella maledizione della propria riproducibilità, ossia nella parodia oggettiva.11
Ma c’è un momento della Danza Macabra in cui l’affollarsi senza posa dei partecipanti, l’unisono dei loro movimenti e l’effetto ottico della vibrazione delle loro divise nell’assommarsi, porta alla scena del Trionfo. La Storia, continuamente rinnegata come flusso trasformativo, infine diventa Spazio: in questa situazione il policentrismo rimanda non a una concezione antidogmatica, ma semplicemente a un prender posto delle Copie (o delle Varianti) nel territorio del principio di Equivalenza, che si presenta sconfinato.
Tuttavia non tutte le versioni spaziali del Trionfo si realizzano senza ospitare in sé l’elemento contraddittorio e antagonistico dell’autoriflessione. Tipicamente essa accompagna sempre la dilatazione spaziale del Segno critico, nell’evoluzione scenografica delle operazioni di Buren, dagli anni Ottanta. Il segno concettuale di Buren, nato con intenzione e carattere ascetici, invadendo in modo inarrestabile, spinto dalla sua stessa logica, ogni scena reale e virtuale e controllando nel calcolo previsionale ogni prospettiva e quindi, in ipotesi, la Totalità, proprio mentre ribadisce il dominio del Codice e del Sistema su qualunque spazio diventa infine il perno di una vertigine barocca, e in compagnia del Concetto e dell’Illusione approda all’Opulenza che rinnegava alle proprie origini. 
Ma per estremizzare il Trionfo in cui, nella danza delle Varianti, la stessa energia che le produce le inghiotte e come istanza di morte occupa lo spazio, due gesti artistici opposti – il graffitismo schematico di Keith Haring e il simbolismo macabro delle messinscene fotografiche di J.P. Witkin – allestiscono entrambi «sale del mondo», la cui decorazione è ampliabile all’infinito.
Un apparente contenutismo guida sia i «messaggi» codificati di Haring sia le circostanze delle composizioni di Witkin, ma nelle operazioni di entrambi sono semplicemente le pieghe del vestito della Ripetizione a movimentare le scene.
La proliferazione degli stereotipi, nell’universo di Haring, è un meccanismo inarrestabile: essi vengono inghiottiti, sbucano da qualunque apertura o taglio o ferita, scompaiono e risorgono in combinazioni tanto variamente influenzate dalla loro collocazione nel puzzle visivo, quanto sostanzialmente equivalenti. Un Horror Vacui assegna a questa proliferazione incessante l’ansia di un compito infernale: l’«incastro» fra gli stereotipi, realizzato come meccanismo automatico al quale essi sono già predisposti e funzionali, è un modulo stilistico ricorrente nell’allestimento di questa Totalità a cui non si può sfuggire. Nel tentativo di scampare alla propria scomparsa nella Somma, lo stereotipo di Haring scivola fuori, cerca vita nel mondo esterno, diventa segnale luminoso dentro la pubblicità metropolitana, si appoggia alle anfore, alle tazze, alle T-shirts, alle buste del mercato, invade tanto lo sguardo urbano esterno, sui murales delle periferie, quanto lo sguardo urbano interno (che Haring imprigiona nel suo Pop Shop), diventa transeunte nell’anonimato o accompagna i passi dell’Idolo, dipinto sul corpo di Grace Jones o installato nella sua maschera tribale. Ma resta unità decorativa, e proprio cercando riconoscibilità e integrazione ripete se stesso come immagine già nota.
Anche allo stereotipo dei Fumetti, nelle saghe dell’immaginario massificato, è affidata una sorta di missione epica come quella che in qualche modo tenta la figurazione schematica di Haring, veicolando nei gesti e nelle scritte la distinzione ideologica tra Buoni e Cattivi, tra Divoratori e Salvatori.
Ma la sostanza che riporta ogni stereotipo di Haring nell’Inferno è la sua natura seriale.
Fra questa popolazione infernale il serpente che si autodivora, l’antropofagia, il circuito ossessivo tra cibo ed escremento o la fellatio reciproca fra omosessuali come figura in cui ogni apertura del corpo (come metafora del Mondo) sono controllate e invase dal medesimo gesto, sono tutte varianti di un Uroboro che si chiude in se stesso, figure della scomparsa del tempo storico trasformativo nel cattivo infinito della Ripetizione. La salvezza, nell’universo omologato di Haring, è solo apparente: nell’inferno seriale anche il resuscitatore dell’Energia, The Radiant Boy, non appena compare è subito, potenzialmente, inghiottito.13
Sul versante opposto, nel cosmo di Witkin, paradossalmente proprio il portatore per definizione della Diversità, il «Monstrum», è il perno di un sistema diretto, in ogni sua variante interna, alla Morte. 
«Monstrum», nel sistema di Witkin, non indica soltanto la particolarità abnorme di esseri straordinariamente deformi fisicamente o sessualmente ermafroditi, ma anche il carattere straniante delle perversioni erotiche o l’eccezionalità dell’unione dei Contrari: ossia la mescolanza del codice del Sacro con il codice della massima degradazione, la sintesi metamorfica o copulativa tra l’uomo e l’animale, il vegetale o la res artificiale, il rotolare allegorico di disiecta membra tanto negli angoli più periferici, bassi ed emarginati della quotidianità contemporanea, quanto nelle scene esemplari dell’arte figurativa più illustre.14
Lo scenario organizzato da Witkin intorno alla Distruzione è compatto: il Monstrum o è, per così dire, un ready-made o è il risultato di un montaggio fotografico ulteriormente manipolato, che include perfino il fregio astratto.
Ma anche nella figurazione di Witkin il nesso immediato tra vita e morte è ribadito in ogni apparizione mostruosa; la stessa rappresentazione allegorica convenzionale dell’Abbondanza rigenerativa è parodiata nell’immagine del Cane-Cornucopia (The Cornucopian Dog, 1984), in cui l’offerta dei frutti della terra sgorga dalla voragine aperta nel corpo dell’animale vivo, che ci osserva con fierezza.
Mai le unioni che si realizzano nelle scene di Witkin sono dirette alla rigenerazione, mai le maternità producono figli vivi, cioè Futuro: gli stessi Feti, nudi e impotenti, magari abbandonati su giacigli di chiodi, sono utilizzati come moduli – res passiva – per la composizione di qualche «stanza» di quest’Apocalisse punitiva, senza riscatto. Né l’Ermafrodito, quando compare nei suoi travestimenti voyeuristici, è rigeneratore del Mondo, secondo l’archetipo di perfezione che dovrebbe reincarnare: anche la sua figura è martirizzata nella parodia, trascinata nelle varianti della degradazione.
Anche nelle scene di Witkin, come in quelle di Haring, si ripetono, semplicemente variati dalle circostanze, Urobori negativi: figure imprigionate in se stesse dagli strumenti di tortura delle perversioni erotiche, o l’impossibile movimento delle Siamese Twins (1988) o l’immagine esemplare di The Kiss (1982), in cui le teste mozzate di due vecchi morti confluiscono una nell’altra, nel montaggio fotografico, come un unico organismo fossilizzato. Qui il Bacio è parodiato proprio come avvio del processo rigenerativo: la Storia, in questo Uroboro, è passaggio dall’Uguale all’Uguale, e cioè dal SempreVecchio al SempreVecchio e dal Morto al Morto.
Dunque ogni Monstrum, nella figurazione di Witkin, è il riattivatore di un processo di nullificazione o degradazione del Valore, o il motore di un meccanismo che ogni volta riconduce alla fine della Storia e alla chiusura del Mondo: come riattivatore di un movimento che infinitamente si ripete in un’estasi negativa, anche il Monstrum di Witkin perciò è un modello dell’immaginazione seriale, a cui l’illusionismo fotografico fornisce una finzione narrativa.

«Aurais-je, sans mourir, contemplé le huitième,
sosie inexorable, ironique et fatal,
dégoûtant Phénix, fils et père de lui-meme?
̶  Mais je tournai le dos au cortège infernal».
(Baudelaire)

Secondo Benjamin «per lo Spleen chi giace nella tomba è il soggetto trascendentale della Storia». 15
Nel sistema di Witkin il movimento solo apparente del Tempo – parodia di ogni illusione storica trasformativa – sceglie precisamente la figura dell’itinerario orientato, per rendersi esemplare.
In The Capitulation Of France (1982) su un fondo oscuro e vuoto una sorta di nano con una maschera deforme trascina dietro di sé, per una fune attaccata ai capezzoli, una donna enorme, di laida e decadente grassezza, con le braccia levate in alto ma senza testa e senza mani, sostituite da graffi vorticanti, come un movimento di trottole impazzite.
Se qui la promessa dell’Abbondanza è parodiata attraverso la parodia della sua marcia degradata e senza scopo, dieci anni dopo, in Cupid And Centaur (1992) la stessa marcia ha raggiunto la propria verità: Eros è diventato figura decuplicata della Morte: uno scheletro metà umano metà d’uccello cavalca la propria stessa immagine ingrandita che lo guida. Il cavaliere tiene la testa indietro, rivolta al Passato, mentre la sua cavalcatura spettrale avanza guardando fissamente verso il fondo buio, nella direzione opposta: ma è davvero il Futuro ciò verso cui procede e guarda?

§

Grande è l’imperio di Saturno e grande il suo territorio.
Ma esso non è senza confini. Ha un termine. In qualunque punto può essere contraddetto da un’intuizione dialettica.
Perciò si può tornare a cercare questo punto di fuga, quest’illuminazione liberatrice, anche indietro negli anni, nel rapporto che lega Marcel Duchamp a Man Ray, come due figure che si consegnano da una all’altra il potere del movimento, la mappa per la strada del cambiamento, attraverso l’operazione «a due» di Elevage de poussière (1920).  È noto che Duchamp lasciò appositamente in posizione orizzontale la struttura conclusa del Grande Vetro per alcuni mesi, perché la polvere la ricoprisse in modo casuale. Così com’è noto che diede poi a Man Ray il compito di fotografare il polveroso prodotto di questo trascorrere del Tempo sulla sua opera: esso emerge ancora oggi dalla riproduzione fotografica come geografia di un mondo nuovo, come fantastico paesaggio lunare.
Elevage de poussière è anzitutto un gesto di amicizia durante il comune viaggio nel Tempo: l’indicazione di un orientamento positivo, come nell’archetipo biblico che lega insieme Tobìolo e l’Angelo.
Ma Elevage de poussière è anche l’immagine di un mondo nuovo, che emerge dalla trasformazione della morte in vita: e in prossimità di questo microcosmo redento qualcosa cambia nell’aria, il territorio di Saturno si sfrangia e la riva si schiara. 

LA SPOSA

Con Vent Paris-Nice (1960), sopra il tetto di dell’automobile di Yves Klein, viaggia un segreto: la giornata di vento dell’Immagine. Le nozze del pigmento puro e del Vento si compiono senza testimoni: nemmeno il guidatore del cocchio nuziale può partecipare al rito, può solo veicolarlo fino alla sua momentanea meta. Sa che il Vento è un amante imprevedibile, della materia pittorica esposta sono inconoscibili le risposte durante l’amore. Solo due misure artificiali ha dato il guidatore: il luogo del rituale – l’area per il colore, sulla carta – e la durata del viaggio. Ma Eros si sparge nell’atmosfera: al termine del viaggio la prova delle nozze è sul vestito della Sposa: dove il Vento ha lasciato il marchio si sa.  Ma il pulviscolo di colore in cui si è compiuto il sacrificio della Vergine è scomparso, è in mille rive altrove, viaggia alto imprendibile nell’aria. 

§

La scelta trasformativa dell’Immagine, nella seconda metà del Novecento, si fa strada fra le due correnti insidiose del Nuovo e del Sempreuguale, che onda dopo onda si specchiano reciprocamente: essa vi passa in mezzo segretamente col suo tesoro rigenerativo, finchè d’un tratto si mostra, spalancando un’altra porta del Tempo, col vestito radioso dell’Apparizione. Così, dischiusa improvvisamente in mezzo alla Storia, muove i suoi passi rasente alla Morte ma senza confondervisi, testimone e annunciatrice del mondo diverso da cui proviene, tramite del Meraviglioso che irrompe e perno dialettico.
Ma in questo percorso trasformativo il Tempo storico può spalancarsi in vari modi e l’Immagine dialettica passare splendendo attraverso porte differenti.
Nell’attitudine di Yves Klein il tempo trasformativo procede per conflagrazioni, scoppia nell’istante, col ritmo di azione dei singoli elementi primari: fuoco, acqua, il Vuoto e il corpo fisico delle modelle (la terra compare nel Colore, come puro pigmento) sono chiamati come «attori» del dramma cosmogonico, e ognuno lo realizza secondo il proprio carattere e di ciò lascia un’impronta nel recinto sacro dove si è compiuto l’evento. L’affermazione di Klein, «Le mie opere non sono che le ceneri della mia arte», fa corrispondere il transito dell’Immagine rigeneratrice con l’attimo esatto di manifestazione dell’elemento primario mentre incide sul mondo circostante, col divampare della sua attività reale da uno stato solo potenziale, «grammaticale».
Il Tableau de feu (1956-57), realizzato con fuochi di Bengala blu, non a caso è definito da Klein Tableau d’une minute: la scena dell’evento cosmogonico è allestita in modo funzionale, ma non fa parte dell’Immagine, che è veicolata solo dal carattere generativo del Fuoco nella produzione della Forma: spento il fuoco, la scena rimasta non vale come «scultura», resta solo uno scheletro materiale.
Per questo gesto artistico la Cosmogonia è sempre in atto: anche nelle Anthropométries o nei Suaires di Klein la traccia del corpo umano femminile sulla tela non va intesa come doppio spettrale in un memento mori allegorico, ma come il segno dell’avvenuto transito di un corpo vivente, in tutto il suo potere di distributore di energia. L’impronta del Fuoco che talora accompagna quella del corpo umano, nelle Anthropométries, o le si rende equivalente come testimonianza vitale, o la circonda come un alone che il Fuoco ha trasformato in aureola metaforica, dichiaratrice del Valore.
La Morte, nella perenne drammaturgia cosmologica di Klein, non esiste se non come tappa integrante del ciclo rigenerativo: il principio del Monogold Fremissant – la perdita che si ricostituisce come «ricchezza» proprio disperdendo il Valore nel mondo storico – viene teatralizzato da Klein nel rituale di Ci-Gît L’Espace (1960). Le sottili foglie d’oro, fissate come petali – che sono previste per staccarsi dalla pelle del Monogold a ogni respiro o movimento o accidenti del mondo storico che troppo gli si accosti, e che si diffondono nell’ambiente senza perdere il loro carattere prezioso neppure come frammenti – in Ci-Gît L’Espace ricadono a pioggia sul Monogold poggiato sopra Yves Klein, steso a terra nella finzione della tomba, e nella parabola del loro viaggio ritornano a congiungersi col Valore intero.
Quasi contemporaneamente, dall’altra parte dell’Oceano, anche le Silver Clouds di Warhol (1966) fluttuano scintillando nell’aria, rivestite di materiale sintetico argentato, ma se l’elio che le rigonfia e le fa levitare si esaurisce, esse ritornano a terra, raggrinzite o appiattite, ciascuna alla propria quadrata essenza modulare.
Viceversa in Klein l’Oro è un «tema» che investe sia la materialità dell’archetipo che la sua declinazione nella convenzione del patto economico. La stessa problematica del Valore di Scambio infatti viene assunta da Klein nella ritualità cosmogonica: «De la Matière pour l’Immatériel, de l’Or pour le Vide» – come regola stabilita da Klein per la «Cession des zones de sensibilité picturale immatérielle»16 – assegna il medesimo potere creativo sia alla Presenza che all’Assenza, come perni entrambe del processo rigenerativo. Non a caso, per regola di contratto, la metà dell’Oro ricevuto dall’acquirente veniva ceduta dall’artista direttamente alla Natura, dispersa nel flusso ondoso di un fiume o di una marina: Oro che andando rinasce. 
La «resurrezione» è infatti una modalità interna della Forma, nel gesto artistico di Klein: nella stessa stesura pittorica, la capacità di «radianza» del Colore è delegata a contrastare l’istanza di Morte. Questa condizione si trova esemplarmente nei Reliefs Éponge, dove al potere particolarmente radiante del pigmento puro è affidato il compito di diffondere nell’ambiente la vitalità, strappata agli organismi spugnosi dall’invasione dell’International Klein Blue nei loro pori.
L’eredità del gesto di Klein, relativamente al valore attribuito agli elementi primari, si ritrova a distanza di anni (fra altri suoi frutti) nella chiara luce creaturale del polline raccolto da Laib letteralmente come «voce da un altro mondo», o nella «luce sofoclea» in cui si espongono i materiali naturali nelle operazioni di Kounellis. Ma nell’evoluzione del lavoro di Kounellis proprio la coscienza storica viene gettando un’ombra sul potere luminoso ed energetico del Simbolo vivo, e lo colloca come nella fase di un’eclissi di sole. Sempre più frequentemente infatti, nel gesto artistico di Kounellis a partire dagli anni Ottanta, le strutture del Modulo Minimal intervengono a bloccare in una morsa formale pietrificante la volontà esplosiva degli elementi che comprimono (carbone, fuoco, capelli…), che nelle operazioni di Kounellis dei decenni precedenti agivano con eroismo libero.
Per Beuys, nel Tempo l’immagine trasformativa si presenta come l’elemento dialettico nella condizione di morte.
Anche Beuys, come Klein, si richiama al potere attivo e creativo di elementi materiali come il grasso, la cera, il miele, il feltro…, usandoli proprio nei rispettivi caratteri e comportamenti, come veicoli del Valore e del Significato17; tuttavia la condizione fondamentale in cui sono impegnati il gesto e il cosmo di Beuys è il riscatto del Lutto. Il tempo trasformativo, in questa condizione, passa attraverso quello stadio oscuro per cui, nella decomposizione e fermentazione degli elementi disgregati, proprio il Cadavere diventa il luogo ricompositivo della Vita. La Primavera, in questo caso, non è che il tempo di attesa che accompagna la Reliquia fino alla sua nuova forma nel mondo. In questo senso il «vaso di trasformazione» di Lavendelfilter (1965), in cui lentamente si produce la nascita della resina (come concentrazione) e del profumo (come emanazione), non è diverso dai frantoi sepolcrali di Beuys, da cui l’olio trasuda nell’ambiente circostante.
Ma il carattere di «Apparizione», nel cosmo di Beuys, lo ritroviamo piuttosto in una immagine femminile direttamente antagonista al Lutto: la Queen bee, intrecciata con la figura femminile, che nel ’52 si muove dai disegni di The secret Block for a secret Person in Ireland fino a prendere sostanza plastica nella cera.
Beuys stesso ricollega quest’immagine all’energia vitale rigenerativa:  «The bee cult is basically a Venus cult. This was widespread and influenced by the whole process of honey production as a link between earthly and heavenly levels. The influx of a substance from the whole environment – plants, minerals and sun – was the essence of the bee cult. The allusion is to socialism, as practised in the big watchmaking cooperative of the Republic of the Bees at La Chaux-de Fonds… not… mechanistic state socialism, but a socialist organism, in which all parts function as in a living body…».18
Dalla Queen bee discende direttamente, quasi trent’anni dopo, nel gesto di Beuys, l’immagine attiva della fontana: quell’«Oro a perdere» destinato alla Comunità, che la Honey pump realizza nel 1977, guidando il vortice glutinoso del miele, come una benedizione sacrale, intorno a uno spazio pubblico.
La fontana di miele è il vestito materico con cui, nel gesto di Beuys, il rituale del Sacrificio viene continuamente celebrato, in cambio della garanzia della perenne opulenza; a una materia opposta al miele – il ghiaccio – Calzolari affida invece il compito di vestire l’Apparizione, nel momento in cui la condizione di vita esita sulla soglia della propria scomparsa, in Un volume da riempire in mezzora (1968). La lenta scomparsa dell’Intero nelle sue parti – in gocce, dal parallelepipedo di ghiaccio sospeso in alto al contenitore quadrangolare di plexiglas sottostante, per ricostituire l’Intero sotto altra forma e stato (dalla condensazione alla liquefazione) – accende la luce dell’Immagine proprio sul momento del Confine: direttamente cioè sul volto della vittima sacrificale, che nel corso del Sacrificio trapassa come ricordo nella memoria dei partecipanti e contemporaneamente resuscita come mobile condizione nuova. A questo rituale di trasformazione, nell’operazione di Calzolari, partecipa anche il Colore, e non a caso si tratta del Rosso, convenzionalmente energetico, che dal volume di ghiaccio diventa più trasparente nella sua veste liquida: sul doppio margine di questo Sacrificio muta così anche il timbro cromatico del vestito della Forma, tra materia e astrazione.19
Il percorso iniziatico può svilupparsi in due direzioni: il movimento dall’esterno all’interno, verso il Centro, e viceversa l’approdo all’«illuminazione» soltanto attraverso la pratica dell’allontanamento estremo.
«Apparizione» è nel primo caso l’incontro con il centro indefinibile della Luce, nel percorso  che conduce il guardante dentro i paradossi ambientali dell’Environmental Light Installation di Wheeler (1970) o dello Spazio impenetrabile di Maria Nordman (1972). Proprio la ragione scientifica che costruisce l’architettura e l’effetto ottico, in queste operazioni, è la guida per la discesa nel labirinto irrazionale in cui si smarrisce il viandante della Luce, e proprio la ricerca del punto più interno della materia luminosa lo conduce all’Estasi.20
La via opposta deve percorrere chi voglia raggiungere effettivamente l’immagine trasformativa, nelle operazioni di Christo.
Solo la più grande distanza dalla loro esperibilità immediata e concreta – l’ipotesi, in un certo senso, di guardarle dal cielo e cioè «da un altro mondo» – permette loro di realizzarsi come «Apparizioni». Solo in quest’allontanamento la loro originaria vocazione parodica – la mimesi paradossale ed enfatizzata della riduzione di ogni fenomeno naturale o storico a merce impacchettabile per il consumo, applicata a grandi simulacri convenzionali della Natura e delle istituzioni sociali – può accogliere nella sua veste anche il vento dell’immaginazione utopica. Nella grande distanza i Simulacri spariscono interamente sotto il package, ma il dono che riscatta la loro scomparsa come feticci è la trasformazione momentanea della Merce in Sogno, che è tale, paradossalmente, proprio perché è realizzato: il fiorire di nuove corolle rosa sull’Oceano, il respiro della plastica artificiale sugli atolli del Pacifico.  Veste effimera: la Sposa – come «Apparizione» – dura un giorno.

ETERNO FEMMININO

«Venus  que arde en la tarde y en el alba.
Y me salen más y más imágines de la bibliografia
como van salendo de una tumba jades, turquesas, mariposas de oro».
(Cardenal)

L’orgoglio del pavone di notte e di giorno: questo è il carattere che lega insieme, nel gesto di Rebecca Horn, il grande macchinario piumato scuro della Vedova Paradisiaca (1975) e quello chiaro di Der Eintänzer (1978). La figura umana, nascostavi dentro, mentre fa agire il meccanismo che movimenta la struttura e  anima la forma, è già metamorfosata: miracolo di penne e piume aperto o chiuso, in cui la Forma si espande o si contrae come un ventaglio.
La Vedova della Horn raccoglie l’eredità duchampiana: la Fresh Widow (1920), la finestra i cui riquadri sono ricoperti di cuio nero e prevedono «d’être cirés tous les matins comme une paire de chaussures, pour qu’ils reluisent comme des vrais carreaux».21
Ma la «chiusura» della Vedova intorno a se stessa e al proprio buio è data, nell’operazione della Horn, dalle due telecamere che nella stanza ritrasmettono la sua immagine da due monitor; quindi non risulta, come in Duchamp, da un paradosso istituito sulla vista che la finestra bloccata getta, come «opera» e come «materia», solo su se stessa. Il serpente, nel «paradiso» della Vedova, non si nasconde nell’ironia duchampiana sulla dubbia corrispondenza fra Nome e Cosa (come nella Fresh Widow), ma si cela nell’apparato meccanico nascosto, come supporto del Meraviglioso. Ciò vale anche per il macchinario di piume di struzzo intorno al corpo della ballerina, in Der Eintänzer, che corregge in senso meccanico l’avanzata trionfale delle piume, ancora naturalistica, ne La vestizione della sposa di Ernst.
Questa simbiosi ambigua tra meccanismo e Natura, che si fondono uno nell’altra come le due metà di una Sirena, è marcata, nel lavoro della Horn, dalla possibilità che l’apparizione sirenica possa comparire sia veicolata dalla figura umana sia autonomamente, come fenomeno autofecondantesi nella solitudine di uno spazio.22
Il Negativo, nel mondo mitopoietico della Horn, non è distruttivo: esso viene raccolto semplicemente dentro la veste complessiva dell’Immagine, entra con lei nel passo di danza.
Ciò corrisponde all’impulso dell’Eros Mercuriale presente in tutte le operazioni della Horn come intermediario vitale fra lo stato celestiale e quello terrestre, tra il concettuale e il materiale, il geometrico e il rarefatto, l’ironico e il meraviglioso, l’artificiale e il vivente, fino ad apparire talora come attore visibile sulla scena, nella concretezza fisica e attiva del metallo liquido.23
Proprio per l’Eros Mercuriale che le trascina oltre la ripetizione tautologica dei loro meccanismi, le «Apparizioni» di Rebecca Horn sono pronte a entrare in una narrazione in cui ognuna di loro svolgerà una funzione diversa: alla fine del racconto ogni personaggio avrà realizzato la propria logica interna, nella finzione scenica del destino assegnato a ogni Immagine dal singolo vestito con cui essa compare. 
Ma la danza dei vestitini vuoti, spinti ciascuno dal proprio segreto meccanismo interno, rigonfi sulle strutture che li tendono senza ospitare nessun corpo – nella messinscena di Taro Chiezo (1992) – non si organizza nel tempo con lo sviluppo di un racconto, ma come una fiaba.
Questi giocattoli senza testa né sostanza corporea sono stregati: esistono solo come vestiti, superfici codificate dell’Apparenza che copre il vuoto. Con loro danza, in mille rotazioni meccaniche, l’Assenza, come la matrigna di Biancaneve – nel tempo della sua punizione senza fine – è condannata a danzare perennemente sulle proprie scarpette arroventate. La Bambola, di cui qui l’Assenza prende la forma virtuale, perfezionando la propria funzione di «Doppio» in un sistema in cui il Soggetto è incerto, è ormai anch’essa scomparsa nell’evanescenza, e solo il codice esteriore a cui si appella tiene la scena. 
Lo scherno sul Lutto – che accompagna la copiosa messe di mutilazioni o degradazioni (plastiche, grafiche, fotografiche, ambientali…) inflitte alla Figura come metafora privilegiata del Vivente, nella maggior parte dei mondi artistici o referenziali che la recente categoria di Post Human felicemente raccoglie24 – prende qui l’aspetto e la movenza di una festa infinita, di un girotondo inesorabile in cui è trascinato il Tempo, nella figura dell’Infanzia.
Una lotta si svolge, in questa danza movimentata da Taro Chiezo, fra la ragione sadica che contempla l’inutilità degli sforzi dei vestitini per approdare a un senso, e l’ostinata fiducia che promana proprio dai loro volti mancanti, da queste Assenze che, completate dall’altrui desiderio o nostalgia, una per una alludono a quella luce con cui cercano di aprirsi un varco tra il Vuoto assoluto e il Futuro.
Una volontà di grazia ne muove i vestiti delicati, un miraggio le guida nel folle movimento: quello che oltre loro è possibile intravedere camminando dalla parte illuminata del Tempo, ostinati, in bilico. 

Luglio 2021

1. M.Mauss, “Essai sur le don, forme archaique de l’échange”, in M.Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965.
2. G.Bataille, “La nozione di dépense“, in G.Bataille, Critica dell’occhio, Guaraldi, Firenze 1972.
3. M.Horkheimer, T.W.Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
4. Esempi classici sono naturalmente l’invasione ambientale delle carte da parati di Flowers (1964, gall.Sonnabend, Parigi) e di Cow Wallpaper (1966, gall.Leo Castelli, New York), in cui la compatta contiguità delle riproduzioni, bloccando l’orizzonte da ogni parte, genera il predominio della Superficie, proprio come Norma che s’impadronisce, azzerandolo, dello Spazio.
5. Tale immagine fondante non è «neutra», tant’è vero che in relazione a essa Leonardo, nell’Ultima Cena, costruisce un’operazione critica sulla Prospettiva. Infatti, prima della Cena, la prospettiva fiorentina – l’unicità e centralità del punto focale della composizione – era già stata superata da Leonardo con l’invenzione della resa atmosferica nella rappresentazione, per cui tutto nella scena diventa sostanza e veicolo dello Spazio, soglia aperta. Ma nell’Ultima Cena Leonardo abbandona l’indefinitezza atmosferica e proprio guidato dal tema ritorna alla prospettiva fiorentina come «concetto», citazione: la definizione del Centro serve come corona del simbolo che distribuisce il nutrimento. In tal modo la Vittima, come punto irradiante e misuratore dello Spazio, nella Cena di Leonardo risplende riconoscibile.
6. W.Benjamin, “Baudelaire. Appunti e materiali”, in W.Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi, a cura di R.Tiedemann, ed. it. a cura di G.Agamben, Einaudi, Torino 1986, p.434. Per il repertorio fotografico e informativo sull’opera completa di Andy Warhol si veda soprattutto il catalogo Andy Warhol. Una retrospettiva, a cura di K.McShine, Palazzo Grassi, Venezia 1990.
7. Un’eccezione è l’ambiente di Spazio Elastico di Gianni Colombo (1966-67), dove agisce l’oscillazione, programmata elettricamente, degli elastici tesi fra cubi virtuali che frazionano lo spazio cubico in cui si cammina. Nell’ambiente buio di Spazio Elastico la malleabilità neutrale dell’operazione cinetica perde il carattere di fantasmagoria con cui essa abitualmente accoglie e ribadisce l’aura tecnologica, per costruire piuttosto un labirinto di itinerari iniziatici. Un repertorio informativo sull’arte cinetica è fornito da L.Vergine, Arte cinetica e programmata. 1953-1963. L’ultima Avanguardia, Mazzotta, Milano 1983.
8. L’esemplare descrizione di Lucy Lippard nell’esame di Dieci strutturalisti in 20 paragrafi, riportata in G.Celant, Precronistoria 1966-69, Centro Di, Firenze, 1976, pp.79-86, dà però del fenomeno seriale nell’arte Minimal una valutazione completamente positiva, secondo la quale esso sarebbe anzi il perno di una liberazione dell’atto artistico dal Mito e l’avvio di una desacralizzazione del prodotto artistico come impronta del Soggetto, verso una ancor più liberata «dematerializzazione dell’Arte», secondo la nota definizione della Lippard stessa.
9. Progetto citato nel saggio di L.Lippard e J.Chandler, La dematerializzazione dell’Arte, in “Art International”, febbraio 1968, riportato in G.Celant, Precronistoria 1966-69, cit., p.56.
10. È accettabile estendere la definizione coniata da Achille Bonito Oliva alle molteplici situazioni che nell’ambiente artistico internazionale hanno rivendicato, dalla fine degli anni Settanta, la libertà dall’obbligo «avanguardistico» del Nuovo e il ripercorrimento di territori del passato artistico già messi in crisi dalla Ragione critica e conoscitiva: in questo ripercorrimento proprio la coazione a esibire la mancanza di pathos nell’iterazione è per così dire un obbligo stilistico. Per una trattazione più estesa di questo fenomeno (esemplificato nella situazione italiana) rimando al mio saggio La position crépusculaire. Notes sur l’art italien d’aujourd’hui, in “Parachute” n.34, 1984.
11. Kounellis, Senza Titolo, ambientazione realizzata alla galleria Sonnabend, New York, 1980. In particolare su questa operazione di Kounellis rimando al paragrafo “Zèro et Un” del mio saggio La position crépusculaire, cit.
Per un repertorio fotografico e informativo sull’artista vedi soprattutto il catalogo Kounellis, a cura di G.Celant, Fabbri, Milano 1992.
12. Uno splendido esempio di questo sfociare del Concettuale nel Barocco – foce a cui sono approdati anche altri gesti concettuali, nella loro evoluzione – è l’operazione Arguments topiques, realizzata da Buren al CAPC Musée d’Art Contemporain di Bordeaux nel 1991: sia nel labirinto sistematico che intreccia fra loro stanze e corridoi esterni e interni dell’edificio, sia nel fasto con cui gli archi della sala centrale vengono segnati e riflessi all’infinito dall’organizzazione obliqua degli specchi sul pavimento: in essi tutto il mondo architettonico e matematico-geometrico, insieme con l’antico e il nuovo Segno, oscilla come in una conca d’acqua, che fa esplodere illusionisticamente il nuovo spazio virtuale.
13. Per il repertorio fotografico e informativo sull’artista vedi il catalogo Keith Haring, a cura di G.Celant e I.Giannelli, Charta, Milano 1994. 
14. Valga per tutte la «messa in rovina» di Las Meninas (1987), nel cui scenario il voyeurismo sadico prende il posto centrale, coincide con l’occhio della macchina fotografica che ci guarda, collocata in secondo piano come un personaggio fra gli altri, catturando chi la osserva dentro lo spettacolo: vittima, carnefice e complice, secondo l’apostrofe con cui Baudelaire appella il visitatore de I Fiori del male: «Hypocrite lecteur – mon semblable – mon frère!».
15. W.Benjamin, “Baudelaire”, in W.Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo…, cit.
16. La documentazione anche fotografica relativa alle Cessions si trova nell’apparato del catalogo Yves Klein, Centre Pompidou, Paris, 1983, a cui si fa riferimento per il repertorio fotografico e informativo sull’artista, insieme a quello fornito dal catalogo Yves Klein, a cura di A.Passoni, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino 1970.
17. Per il repertorio fotografico e informativo sul lavoro di Beuys vedi soprattutto i cataloghi Joseph Beuys. Natur Materie Form, Schirmer/Mosel, 1992; Beuys. Tracce in Italia, a cura di G.Celant, Amelio, Napoli 1978; Beuys, a cura di C.Tisdall, Solomon R.Guggenheim Museum, Thames and Hudson, New York 1979.
18. Le riflessioni di Beuys sul significato dell’immagine dell’Ape nel suo lavoro sono riportate da C.Tisdall nel catalogo Beuys, cit.
19. La documentazione di quest’opera processuale si trova nel catalogo Teatro delle Mostre, Lerici, Roma 1968. Per il repertorio fotografico e informativo sull’artista si vedano i cataloghi Pierpaolo Calzolari, Charta, Milano 1994 e Day after day. Pierpaolo Calzolari, Canale-Pedrini-Persano, Torino 1994. Sul rapporto di questa operazione con la problematica dell’usura del vivente come misura dell’Astrazione, nel lavoro complessivo di Calzolari, rimando al mio saggio La doppia ombra dell’Astrazione, in “Acrobat Mime Parfait”, n.0, Acrobat, Bologna 1980.
20. Per la documentazione e l’informazione sul coinvolgimento della luce negli Environments si veda soprattutto il catalogo Ambiente/Arte. Dal Futurismo alla Body Art, a cura di G.Celant, La Biennale di Venezia, 1977. Per il senso e la funzione dello Spazio impenetrabile di Maria Nordman rimando al mio saggio Le insidie del paradiso.
21. Il commento di Duchamp alla sua Fresh Widow è riportato nel catalogo L’oeuvre de Marcel Duchamp, a cura di J.Clair, Musée national d’Art Moderne, Paris 1977, p.98.

22. Questa doppia possibilità dell’Immagine nel lavoro della Horn è documentata dalla diretta partecipazione dell’Immagine stessa al movimento narrativo dei personaggi nei vari film realizzati dall’artista, e invece dalla sua diversa funzione, per esempio, nel racconto metaforico che si sviluppa da una stanza all’altra dell’Hotel Peninsular di Barcellona (River of the Moon, 1992), dove solo gli oggetti agiscono le situazioni in cui un evento si rende probabile.
23. Per il repertorio fotografico e informativo sull’artista si veda soprattutto il catalogo Rebecca Horn, Solomon R.Guggenheim Museum, New York 1993. 
24. Nel commento all’operazione espositiva di Post Human Jeffrey Deitch saluta l’avvento del Regno dell’Artificiale in toni ambigui, nei quali tutto sommato prevale una sorta di ottimismo messianico. Il progresso tecnologico, dato dalla rivoluzione informatica ed elettronica, dallo spazio cibernetico e dalla biotecnologia, è presentato da Deitch come un potere indiscutibile, che assommando tutte le sue ramificazioni viene ad avvinghiare individuo e società in un abbraccio dentro il quale si può solo cercare la migliore forma di adeguamento. Il coito virtuale (telefonico) o con la Macchina o con la Merce (come nei gruppi erotoplastici di Jeff Koons e di Cicciolina, in questo senso un’operazione radicale), quali si ritrovano in molti esempi documentati da Deitch sia nelle pratiche e nell’immaginario di massa, sia tradotti in varie metafore artistiche, sono per Deitch il segnale indicativo che nelle società più avanzate saremmo «già avviati ad assimilare una nuova serie di strutture sociali post-umane». 
Il «concetto di una realtà in fase di disgregazione, determinato dall’accettazione della molteplicità dei modelli della realtà e così dell’artificialità» nelle operazioni di vari artisti oggi emergenti si traduce, fa notare Deitch, nella «ridefinizione della figura attraverso la sua scomposizione e il suo assemblaggio» o nel mescolamento del Tempo, in una sorta di «commistione cronologica» tra stadi temporali diversi ma equivalenti. «Finalmente!» sembra dire l’intonazione di Deitch, che naturalmente fa corrispondere questo «balzo in avanti» del Moderno alla sempre tradizionale «fine delle ideologie» e all’accettazione di un atteggiamento irrazionale, come il più adatto ad assecondare il corso del mondo. 
Che il gesto artistico, nella mimesi di ciò che appare come realtà obiettiva, consideri questo trend come «paradiso» o come «inferno» è tutto sommato poco rilevante nel discorso di Deitch: ciò che conta in esso è che la quantità statistica dei gesti artistici integrati al trend sembra venir trasformata, più o meno dichiaratamente, in «qualità». Se è vero che nel finale del suo discorso Deitch pare assegnare all’Arte una sorta di «controllo ecologico» sulla Tecnologia, complessivamente però egli accompagna i passi del mondo dominato dall’Apparenza con un affettuoso benedicente sorriso fenomenologico. Vedi J.Deitch, introduzione al catalogo Post Human, Castello di Rivoli, Torino 1992.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 

– Bataille G., “La nozione di dépense“, in G.Bataille, Critica dell’occhio, Guaraldi, Firenze 1972.
– Baudelaire C., Les fleurs du Mal, trad.it. a cura di G.Raboni, Mondadori, Milano 1973.
– Benjamin W., Parigi, capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi, a cura di R.Tiedemann, ed. it. a cura di G.Agamben, Einaudi, Torino 1986.
– Cardenal E., Quetzalcoatl. Il serpente piumato, trad.it. a cura di D.M.Turoldo, Mondadori, Milano 1989.
– Horkheimer M., Adorno T.W., Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
– Hughes T., Pensiero-Volpe e altre poesie, trad.it. a cura di C.Pennati, Mondadori, Milano 1973.
– Mauss M., “Essai sur le don, forme archaique de l’échange”, in M.Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965.
– Pessoa F., Una sola moltitudine, trad.it. a cura di A.Tabucchi, Adelphi, Milano 1979.  

Luciana Rogozinski
Luciana Rogozinski