LE MOSTRE HANNO SEMPRE GIOCATO UN RUOLO FONDAMENTALE NELLA STORIA DELL’ARCHITETTURA MODERNA, CONTRIBUENDO ALLA DIFFUSIONE DELLE IDEE. IL MONDO PRIMA DELL’ERA DELLA COMUNICAZIONE DIGITALE AVEVA BISOGNO DI UNO STRUMENTO PER VEICOLARE PROGETTI E LINGUAGGI, LE MOSTRE ERANO PRIMA DI OGNI ALTRA COSA I LUOGHI DEL DIBATTITO E DEL CONFRONTO.
UN VOLUME CURATO DA ZOË RYAN NEL 2017 (AS SEEN. EXHIBITIONS THAT MADE ARCHITECTURE AND DESIGN HISTORY, ART INSTITUTE OF CHICAGO, YALE UNIVERSITY PRESS) OLTRE A SELEZIONARE UNDICI MOSTRE CHE HANNO COSTRUITO LA STORIA DELL’ARCHITETTURA E DEL DESIGN, RIESCE NON SOLO A RACCONTARE I SINGOLI EVENTI, MA È CAPACE DI TRACCIARE UNA SORTA DI ATLANTE TEMPORALE DELLE IDEE, MAPPANDO L’EVOLUZIONE DEL PENSIERO CHE QUESTA GEOGRAFIA DELL’ESPORRE È RIUSCITA A STABILIRE.
DICIAMOLO SUBITO, L’UNICO DIFETTO DEL VOLUME, SE PROPRIO SI VUOLE ESSERE PIGNOLI, È AVER DATO PIÙ SPAZIO AL DESIGN CHE ALL’ARCHITETTURA E DI AVER TRASCURATO DUE ISTITUZIONI CHE PIÙ DI ALTRE HANNO CONTRIBUITO A COSTRUIRE LA STORIA DELLA DISCIPLINA: LA TRIENNALE DI MILANO E LA BIENNALE DI VENEZIA. ENTRAMBE LE ISTITUZIONI, INFATTI, SONO LE GRANDI ESCLUSE. LA CURATRICE HA PREFERITO USARE L’AMERICA COME PUNTO DI VISTA PRIVILEGIATO, RELEGANDO IL VECCHIO CONTINENTE A UN RUOLO SECONDARIO.
LA COSTRUZIONE DEL LIBRO È MOLTO INTERESSANTE, LE MOSTRE CHE SI SONO SVOLTE TRA IL 1956 E IL 2006 SONO INFATTI ANALIZZATE E OSSERVATE DA PUNTI DI VISTA DIFFERENTI. DESCRIZIONI FOTOGRAFICHE, SAGGI BREVI MA PRECISI NELL’INDIVIDUARE UNA LINEA EVOLUTIVA, MA SPECIALMENTE RECENSIONI SCRITTE NEL PERIODO DELLE MOSTRE CHE, RILETTE OGGI, RIVELANO L’IMPORTANZA DELLE SINGOLE TAPPE PER I VISITATORI DELL’EPOCA.
QUESTA LETTURA PARALLELA TRA PASSATO E PRESENTE TRACCIA CON ESTREMA CHIAREZZA LE LINEE DI RICERCA CHE HANNO SEGNATO NEGLI ANNI LA PARABOLA EVOLUTIVA DELLE DUE DISCIPLINE PRESE IN ESAME. MOLTE MOSTRE OGGI NON SAREBBERO STATE POSSIBILI SENZA QUESTI UNDICI CAPITOLI.
AS SEEN È INIZIATO COME UN PROGETTO DELLA BIENNALE DI DESIGN DI ISTANBUL DEL 2014 ED È CONTINUATO PRESSO L’ART INSTITUTE OF CHICAGO.
LE DUE MOSTRE DA CUI TUTTO HA ORIGINE SONO QUELLE ORGANIZZATE DAL MUSEUM OF MODERN ART DI NEW YORK, MODERN ARCHITECTURE: INTERNATIONAL EXHIBITION E MACHINE ART.
MODERN ARCHITECTURE: INTERNATIONAL EXHIBITION DEL 1932 E MACHINE ART DEL 1934 SONO DUE MOSTRE DOVE ARCHITETTURA E DESIGN VENGONO PER LA PRIMA VOLTA EQUIPARATI ALLE ALTRE ARTI. NON DIMENTICHIAMO INFATTI CHE IL MUSEO D’ARTE MODERNA DI NEW YORK È STATO LA PRIMA ISTITUZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE AD APRIRE UN SETTORE DI RICERCA DEDICATO AD ARCHITETTURA E DESIGN. QUESTE DUE MOSTRE HANNO COSTITUITO UNO STRUMENTO CAPACE DI ORIENTARE LA DIFFUSIONE DELLE DUE DISCIPLINE NEGLI STATI UNITI E NON SOLO. ATTRAVERSO DI ESSE SONO STATE DETTATE LE REGOLE DELL’ESPORRE.
LA MOSTRA DEL 1932 SI PONE COME OBIETTIVO L’INDIVIDUAZIONE DEI MOVIMENTI CHE DEFINISCONO LE REGOLE DELL’ARCHITETTURA DELL’ETÀ DELLA MACCHINA; STILI, MATERIALI E TECNOLOGIE SONO I NUOVI CANONI ELETTI PER DEFINIRE L’ARCHITETTURA DEL NUOVO SECOLO.
ERA DIVISA IN TRE SEZIONI, LA PRIMA ANALIZZAVA IL LAVORO DI NOVE ARCHITETTI PROVENIENTI DA EUROPA E STATI UNITI, NELLA SECONDA ERA PRESENTE UNA SELEZIONE DI GRUPPI INTERNAZIONALI, LA TERZA SI CONCENTRAVA SULL’HOUSING.
MACHINE ART, DEL 1934, CURATA DA PHILIP JOHNSON, METTE IN SCENA UNA LUNGA SERIE DI OGGETTI PRODOTTI ATTRAVERSO LE MACCHINE INDUSTRIALI, OGGETTI D’USO COMUNE E COMPONENTI DI STRUTTURE PIÙ COMPLESSE. PER LA PRIMA VOLTA IN UNA MOSTRA DI QUESTO TIPO, L’ALLESTIMENTO HA UN’IMPORTANZA FONDAMENTALE IN QUANTO PRESENTA GLI OGGETTI ATTRAVERSO I DISPOSITIVI FINO A QUEL MOMENTO USATI PER ESPORRE L’ARTE. UN’ATTITUDINE POI CONSERVATA E MODULATA IN MODI DIVERSI NELLE MOSTRE SCELTE PER COSTRUIRE QUESTA BREVE STORIA.
Il viaggio comincia con This Is Tomorrow del 1956, una mostra organizzata alla Whitechapel Gallery di Londra, che per prefigurare il futuro fa appello alla collaborazione fra le arti applicate. In questa chiamata, gli artisti e gli architetti mettono a sistema la cultura alta e la cultura bassa, cercando di allargare la comunicazione a un pubblico più vasto di quello che di solito era interessato al design.
Gli artisti invitati sono divisi in gruppi e presentano lavori multidisciplinari, curando loro stessi la messa in scena dei lavori da esporre.
Il catalogo è pensato come guida e completamento della mostra, i curatori in questo caso lasciano alla libera interpretazione dei visitatori i contenuti, nessuna lettura preconfezionata. La mostra si presenta al pubblico dell’epoca come un vero e proprio lavoro sperimentale.
Per descrivere l’architettura si dà spazio alle esposizioni universali, dove l’architettura va in scena nella sua realtà fisica, attraverso la costruzione di padiglioni. L’origine di questo rapporto esposizioni-architettura è rappresentato dalla realizzazione del Crystal Palace a Londra nel 1851.
IBM Pavilion del 1964. Come in ogni esposizione universale, il padiglione racconta una tematica: nel caso dell’IBM una riflessione su come i computer avrebbero cambiato la nostra vita. Il padiglione è realizzato da Kevin Roche e John Dinkeloo, mentre è curato nell’allestimento e nei contenuti da Charles e Ray Eames. L’idea del padiglione è quella di spiegare come il design avrebbe nel futuro mediato le relazioni umane. La sala multischermi è forse lo spazio che meglio rappresenta questo concetto attraverso una rappresentazione simultanea di immagini diverse. La posizione degli schermi e la perfetta sincronizzazione dei contenuti sono forse il primo esempio di un’esposizione multimediale.
L’Expo del 1970 cerca di spiegare attraverso l’impianto urbanistico e alcuni padiglioni la filosofia dell’architettura metabolista giapponese. Il masterplan dell’Expo fu concepito da Kenzō Tange, il padre del movimento, e il padiglione più rappresentativo, il Takara Beautilion, fu realizzato da Kishō Kurokawa.
Nel padiglione un complesso di capsule si incastrava in un sistema strutturale prefabbricato estendibile all’infinito. Questa esposizione più delle altre ha contribuito a creare attorno a questi eventi un’atmosfera mitica, trasformandola in un vero e proprio laboratorio di idee.
Con Italy: The New Domestic Landscape (1972) ci spostiamo nel mondo del design. La mostra mette a sistema per la prima volta il mondo dei musei, il Museo d’arte Moderna di New York, e il mondo della produzione. Curata da Emilio Ambasz, presenta in parallelo oggetti in produzione e ambienti di un futuro prossimo. Gli oggetti dei designer sono esposti all’interno di un’installazione nel cortile del museo che riproduce uno spazio commerciale. Vengono inseriti all’interno di alcuni volumi in legno e possono essere osservati attraverso una vetrina. Gli ambienti, che occupano le sale del museo, sono accompagnati da videoinstallazioni, disegni, collage e modelli che prefigurano l’abitare del futuro, amplificano il valore del design come struttura di un mondo in grande trasformazione.
Ogni ambiente era realizzato da un progettista che ha segnato la stagione dell’Architettura Radicale ma anche la storia del design. Ricordiamo fra tutti Superstudio, Ettore Sottsass, Ugo La Pietra e Gae Aulenti.
Sono trascorsi solo pochi anni e sempre a New York, al Cooper Hewitt, Smithsonian Design Museum, inaugura MAN transFORM. Curata da Hans Hollein e Lisa Taylor, si pone come obiettivo di allargare la definizione di design ad oggetti d’uso comune. Non a caso Hollein era l’autore di un famoso saggio dal titolo Tutto è architettura. La mostra sembra dialogare a distanza con Italy: The New Domestic Landscape, contrapponendo al design ufficiale della mostra del ‘72 tutti quegli oggetti che quotidianamente usiamo senza per forza pensare al loro buon design.
La prima installazione è dedicata a una vetrina in cui vengono esposti diversi tipi di pane, in tutte le sue forme, una vera e propria dichiarazione di intenti. Per Hollein dietro gli oggetti coesistono significati diversi, l’oggetto rappresenta il superamento di un’idea statica e codificata di architettura. La sua convinzione è che il design deve essere allineato al quotidiano, rifacendosi alle teorie di Baudrillard secondo il quale il mondo degli oggetti nelle società industriali avanzate si presenta pari a un sistema di segni in grado di funzionare come un vero e proprio linguaggio, che consente agli esseri umani di comunicare la propria posizione all’interno della società. L’oggetto in questo contesto non aveva un valore in sé, ma doveva rappresentare qualcosa, essere immagine di un sistema di valori indiscutibili e immutabili. La collezione del museo diventa lo spazio di dialogo con gli architetti invitati, di cui fanno parte Ettore Sottsass, Arata Isozaki, Richard Buckminster Fuller.
Dal mondo dei musei passiamo alle mostre organizzate in occasione del Salone del Mobile di Milano, evento che da sempre caratterizza il mercato. Memphis del 1981 è una mostra organizzata come evento collaterale del Salone del Mobile, non è finanziata da alcuna istituzione ed è pensata da Ettore Sottsass e dalla critica Barbara Radice per dare una scossa a un mercato stagnante e a un design incapace di reiventare se stesso dopo lo sviluppo della produzione industriale degli anni ‘60 e ‘70. Sottsass si circonda di un gruppo di giovani designer, sceglie materiali poco pregiati, colori forti e un design non proprio funzionale. I mobili sono concepiti per produzioni limitate, hanno un costo alto per il materiale di cui sono fatti. Producono stimoli forti, necessari a un mondo che consuma immagini a ciclo continuo attraverso la tv e i media. I pezzi si confondono in un certo senso con delle opere d’arte e sono uno shock per il mercato dell’epoca.
La mostra, così come il gruppo di designer, ha un successo immediato e riscrive le regole del fare design, che da quel giorno avrà bisogno di continui stravolgimenti di fronte ai cambiamenti. Non è un caso che Sottsass avesse già partecipato alle mostre Italy: The New Domestic Landscape, al MoMa, e Man transFORM. È uno dei pochi progettisti capaci di mettersi in gioco di continuo. In quel momento storico aveva deciso di ripartire indirettamente dalle teorie di Baudrillard, che aveva capito che gli oggetti avevano perso il loro significato originario e dovevano assumerne di nuovi. Il filosofo francese negli stessi anni aveva sostenuto la necessità di superare la teoria critica che aveva caratterizzato la prima fase della sua riflessione, affermando che il sistema degli oggetti non esisteva più perché, a suo avviso, noi non ci proiettiamo più nei nostri oggetti. In quello stesso testo Baudrillard immaginava l’arrivo di un’ulteriore fase, quella in cui l’oggetto si stava trasformando in un materiale performativo. Per Sottsass e tutti i designer che ne fanno parte, Memphis rappresenta proprio questa trasformazione dell’oggetto che torna ad essere protagonista dello spazio della casa in un modo completamente nuovo.
Nel 1993 Droog si configura come un’esposizione che utilizza gli stessi metodi comunicativi di Memphis. Fa parte del Fuori Salone di Milano, ma definisce un’altra tipologia di oggetti che mette a sistema l’artigianato e la semplicità degli oggetti cosiddetti comuni. In mostra ci sono invenzioni di una estrema semplicità. Gli oggetti sembrano invitare l’osservatore a guardarli per la loro sintesi concettuale e praticità d’uso e cercano, inoltre, di definire il carattere di una scuola olandese che, in quello stesso periodo, si faceva strada anche nel mondo dell’architettura per le stesse ragioni.
Mutant Materials in Contemporary Design, curata da Paola Antonelli e realizzata al MoMa di New York nel 1995, analizzava i materiali e come la tecnologia avesse permesso un loro utilizzo diverso anche nel campo del design. Una mostra che in un certo senso ha ripreso la filosofia della mostra del 1934, Machine Art, in cui oggetti d’uso comune dal design anonimo entravano negli spazi di un museo d’arte moderna e venivano catalogati come oggetti di design. Qui i diversi lavori, invece di essere organizzati per categorie, erano messi in mostra secondo convenzioni scientifiche e considerazioni espressive. Questa è anche una mostra che ha reinventato alcune delle regole dell’esporre attraverso la Touchgallery, uno spazio nel quale era possibile toccare ed entrare in stretto contatto con i diversi materiali.
È stata anche la prima esposizione di design ad avere un website dedicato e ospitato dalla scuola di arti visuali di NY perché il museo ancora non ne aveva uno suo. È stata la prima mostra della curatrice Paola Antonelli, che ha inaugurato una fortunata serie di ricerche e progetti presso il museo che sono riusciti a portare il design a dialogare con un vasto pubblico: Workspheres (2001), SAFE: Design Takes on Risk (2006), Design and the Elastic Mind (2008), Design and Violence (2015).
Con Massive Change: the Future of Global Design (2004) la mostra cambia la sua forma, anche attraverso l’uso dei media, diventando un libro, un programma radiofonico e un website. Un’attitudine, quella del curatore e graphic designer Bruce Mau, che è servita in particolare a diffondere un’ideologia la quale crede nel potere del design come strumento per comunicare idee sulla società e aiutarci a pensare il mondo in modo diverso. L’esposizione, più che di oggetti, era fatta di tematiche affrontate attraverso un linguaggio grafico, fatto di immagini e testi che costruivano uno spazio fisico capace di riprodurre la complessità visiva delle piattaforme digitali. Inoltre era organizzata secondo undici economie e non attraverso temi tradizionali, in modo da rafforzare le relazioni essenziali tra persone, design e temi specifici come la mobilità, l’energia e le reti di distribuzione.
Si torna a parlare di architettura con una mostra del 2005, attraverso un’istituzione che fa della diffusione e della conservazione delle idee architettoniche la sua missione: il CCA (Canadian Centre for Architecture) di Montréal. Sense of the City: An Alternative Approach to Urbanism è curata da Mirko Zardini, direttore del CCA, famoso per sapere raccontare l’architettura e la città attraverso chiavi di lettura sempre originali e inconsuete.
In questa mostra offre la visione di un urbanismo sensoriale, ripensando ed evidenziando le qualità latenti delle nostre città attraverso la dimensione sensoriale degli spazi. Divisa in cinque sezioni (città notturna, città delle stagioni, i suoni della città, superficie della città e aria della città), è una ventata d’aria nuova in un mondo abituato a raccontare l’architettura solo attraverso liste di edifici e architetti conosciuti. Zardini descrive il suo approccio attraverso una definizione precisa, le sue sono mostre che parlano di architettura e non che descrivono l’architettura, attraversano altre discipline per rendere evidente il vero significato del design.
Super Normal. Sensations of the Ordinary (2006) si presenta come un’esposizione ibrida, un po’ monografica un po’ collettiva, ed espone il lavoro dei curatori e di altri designer allineati alle loro idee.
Jasper Morrison e Naoto Fukasawa partono dai loro oggetti per definire una filosofia di design di cui loro non sono gli unici portavoce. Un’idea di design che favorisce la sintesi piuttosto che l’innovazione. Come la mostra Memphis, Super Normal reagisce al design che l’ha preceduta. Anche il modo di esporre i singoli pezzi è più informale, spariscono i piedistalli e troviamo al loro posto tavoli multilivello. Rintracciamo l’origine di questa mostra in due illustri precedenti al MoMA, Useful Object (1945/46) e Good Design (1950/51).
Si conclude il viaggio e siamo giunti a un’altra parte interessante del libro. Le tappe infatti non vengono descritte attraverso una schedatura, come spesso avviene in questo tipo di libri. Sono analizzate da punti di vista diversi, sia alla luce del periodo storico sia a distanza di anni vengono rilette e analizzate sotto un’altra prospettiva. Il libro, quindi, non ha il limite della visione unidirezionale. Le mostre non rappresentano capitoli attraverso i quali dimostrare una linea evolutiva precisa, ma sono occasione di dialogo e confronto, raccontano storie dentro altre storie, anche attraverso la voce dei protagonisti. Questa visione multipla è preziosa per chiunque si voglia avventurare in una storia della disciplina molto particolare, che procede in parallelo alla storia ufficiale scritta dagli storici del design.
Come ho già detto, la selezione di questo libro non è esaustiva sull’argomento, manca qualcosa di importante, eppure ha il pregio di creare un percorso di senso in cui le mostre dialogano tra di loro a distanza di anni. La selezione sembra suggerirci che una mostra non è mai un progetto compiuto, ma per avere significato deve nutrirsi degli sguardi dei suoi visitatori, dell’influenza sui costumi della società e sull’economia di mercato che guida sempre l’evoluzione del design e dell’architettura.
Altro pregio del discorso avviato con As Seen è quello di considerare che non sempre le mostre importanti sono presentate all’interno dei musei perché anche gli spazi indipendenti hanno contribuito al diffondersi di linguaggi e idee innovative.
Arte e Critica, n. 95, autunno – inverno 2020, pp. 100-103.