Sara Enrico. Enigmatico Abito/Habitus

C’è una costante nel lavoro di Sara Enrico che credo impronti l’intero suo procedere. Si tratta di una presenza affermativa, assertiva, fisica delle sue forme che viene costantemente alleggerita, ibridata, di fatto complicata da un processo dissimulatorio architettato in modo sottile. La sua prassi risulta inventiva, meticolosa, con una forte componente concettuale, e al contempo è appassionata, giocosa, generosa.
Andando con la mente ai suoi progetti, mi sembra spesso impegnata nel dar forma a una contraddizione, anzi, credo che la sua opera desideri proprio abitare la contraddizione. Certo, una contraddizione sui generis, che non ha più nulla della veemenza provocatoria di cui si ammantò agli inizi della modernità. Piuttosto una contraddizione che è passata attraverso la potenza sconquassante e vitalizzante del pensiero francese, quello decostruzionista in particolare, del quale conserva l’istanza conoscitiva e insieme la disappartenenza all’ordine corrente delle cose, puntando a cercarne un altro di una sostanza etica differente.
La contraddizione alla quale penso, e che vedo come fondamento della poetica di Sara Enrico, è una sorta di struttura aporetica che diventa postura conoscitiva e coinvolge scenari inusuali.
I suoi interventi, pensati soprattutto nello spazio, contengono un alto grado di interrogazione e si nutrono di costanti mutazioni.
Negli ultimi tempi hanno spesso un parterre narrativo sul quale impiantarsi. Ma è impossibile rintracciarvi un’unica narrazione, a meno che non si voglia ridurre la portata del lavoro, che è invece sempre aperto, senza soluzioni, e si pone soprattutto come la drammaturgia oggettuale di un insieme di investigazioni.
L’artista stessa non potrebbe prediligere una narrazione sulle altre, perché la sua è ogni volta un’improvvisazione a partire da elementi che le sono cari e che inserisce nelle sue “partiture” come fossero degli standard jazz. La narrazione è tutta in potenza, e i piani per il suo dispiegamento sono numerosi, sofisticati. Hanno a che fare con i processi, con i cambiamenti di stadio della materia, con gli orizzonti culturali dei materiali, le loro memorie, con ciò che accade nello spazio quando due forme, due oggetti, o “le parti inerti”, i “riverberi materiali” dei linguaggi si trovano a convivere…
C’è un paesaggio diegetico ricco, che fonde territori del sapere e discipline anche distanti, lasciando un grosso margine a chi guarda, un ampio terreno di “conoscenza partecipativa”.
Prendiamo ad esempio le due sculture realizzate per il PAV, a Torino, nel 2017. Cemento e pigmenti danno vita a due forme che evocano atteggiamenti antropomorfi in mezzo alla natura (evocare è un termine ricorrente nelle sue dichiarazioni). Alla base del costrutto figurale c’è la forma e la semantica di un abito, la tuta, un indumento che venne disegnato per la prima volta negli anni Venti dal futurista Thayaht e che riscosse subito un grande successo per l’economicità e la comodità che lo caratterizzavano. Da un’unica pezza di stoffa e con poche cuciture si poteva ottenere un capo d’abbigliamento dalle potenzialità enormi, capace di assicurare libertà ai movimenti del corpo e di annullare finanche le differenze sociali. Ma la tuta, che oggi funziona come sinonimo di sport, relax, comodità, tempo libero, era anche, in realtà, l’abito da lavoro, e quindi un elemento tipico dello schema produttivo fordista. Così, sulla collina verde del PAV, queste sculture sembrano parlare di una riappropriazione del corpo, di una rivendicazione del tempo, disegnano ipotesi di movimenti nello spazio naturale, ma nel frattempo richiamano inevitabilmente quel pensiero operaista che a Torino ha avuto la sua più ampia affermazione.
A guardar bene, poi, non c’è alcun vero corpo e alcun vero movimento… Il piano, dicevo, è evocativo, ed è giocoso, ma intanto lascia aperto lo spazio a una questione, riuscendo a schivare la retorica, anzi, rilanciando un tema del quale da tempo si sono perse le tracce nel dibattito sia politico che sociale, il lavoro. Una narrazione possibile.
Al centro, comunque, il corpo, inserito dentro le sue coordinate ineludibili, lo spazio e il tempo. Concetti che possiamo trattare come astrazioni o che possiamo invece calare dentro il fluire del quotidiano.

 

Introducing Sara Enrico: The Jumpsuit Theme, veduta della mostra, 2019, Národní galerie Praha. Foto Národní galerie Praha, Katarina Hudačinová
Introducing Sara Enrico: The Jumpsuit Theme, veduta della mostra, 2019, Národní galerie Praha. Foto Národní galerie Praha, Katarina Hudačinová

 

Astrarre. Calcare. Bene. Credo che Sara Enrico intrecci costantemente questi due piani: da una parte astrae, asciuga, raffredda, concettualizza, e dall’altra imprime sulla pelle delle sue opere l’identità fisica, corposa, delle cose. Che si tratti di sculture, di progetti digitali, di dipinti. Lavora sull’impronta, sulla traccia, sul calco, fissa ossessivamente sulle superfici anche la più impercettibile espressione del reale, per poi trasporlo in situazioni inverosimili, spesso visionarie.
Pensiamo alle casseforme in tessuto tecnico realizzate per eseguire le sculture del ciclo The Jumpsuit Theme – al quale in qualche modo si legano, sul piano ideativo, anche i due lavori del PAV – un progetto che ha vinto l’Italian Council 2018 e che ha trovato attuazione nel 2019 in due tappe, al MART di Rovereto, a cura di Denis Isaia, e alla Národní galerie di Praga, a cura di Adam Budak. Il fatto stesso di realizzare le casseforme con un materiale particolare come il tessuto da indumenti tradisce, oltre che un interesse per la sperimentazione, che già di per sé potrebbe rappresentare una componente identitaria del lavoro nei termini di un’attitudine concettuale che si alimenta di una processualità artigianale, la quale a sua volta affonda le radici nel pensiero anarchico, tradisce, dicevo, una necessità di ibridare piani di esistenza fisica differenti, ovvero l’abbigliamento sportivo con la scultura, il cemento dell’edilizia con la sartoria, e di tracciarne sulle superfici le rispettive memorie, come se dalla contaminazione di materie e memorie differenti potessero attivarsi narrazioni altrimenti impossibili, eppure a loro modo necessarie. Come se si volesse dare vita a un altrove della sensibilità che per arrivare a lambire i lidi dell’impossibilità debba necessariamente anche impregnare i sensi della fragranza fenomenica del reale.
Possiamo leggere tale complanarità anche tra forze di segno opposto e “sostanze” di consistenza differenti, ad esempio la forza un po’ cieca, inerte, del cemento che scorre dentro accoglienti e morbide casseforme in stoffa. È accaduto anche nel lavoro presentato da Quartz, a Torino, sempre nel 2019: un telo di neoprene allestito a terra a evocare un possibile indumento, un mantello o una cappa, trova il suo accessorio/spilla in uno scarabocchio fuso in bronzo. Due fusioni diverse, due materiali di aree semantiche opposte – uno antico, nobile, naturale, tutto interno all’arte, l’altro recente, chimico, legato al mondo del sub – messi insieme per creare il destino di una nuova forma.
Ma che tipo di forma? Una forma ambigua, che evoca mentre dissimula, che racconta mentre astrae. Ed è sospesa. Attende.

 

Sara Enrico, Mirroring, dettaglio, 2019, Quartz Studio, Torino. Foto Beppe Giardino. Courtesy Quartz Studio e l'artista
Sara Enrico, Mirroring, dettaglio, 2019, Quartz Studio, Torino. Foto Beppe Giardino. Courtesy Quartz Studio e l’artista
Sara Enrico, Mirroring, veduta della mostra, 2019, Quartz Studio, Torino. Foto Beppe Giardino. Courtesy Quartz Studio e l'artista
Sara Enrico, Mirroring, veduta della mostra, 2019, Quartz Studio, Torino. Foto Beppe Giardino. Courtesy Quartz Studio e l’artista

 

Torniamo a The Jumpsuit Theme, anzi, a uno dei due atti in cui è articolato il lavoro, Intermezzo, al MART. Ci troviamo davanti a una scena e a una serie di “attori”. Tutti protagonisti. Nella tradizione teatrale, l’intermezzo dovrebbe essere un pezzo breve, una pausa tra due atti, dovrebbe risultare dinamico e pronto a lasciare il posto ad altro. Invece qui il suo tempo si allunga, si sospende. Impossibile quantificarlo.
La temporalità viene manipolata attraverso una precisa orchestrazione. Se ci si avvicina a una di quelle sculture a terra, con la piccola sfera rossa che si inframezza come fosse una palla di bimbo che colpisce un corpo piacevolmente sdraiato su un prato, si coglie la leggerezza di un frame di paesaggio, un’immediatezza palpabile. Se ci si allontana e si guarda la scena nel suo insieme, si avverte invece un’immobilità grave, solenne, che non si riesce quasi a gestire. La scena presenta un esubero di dettagli in assenza di contenuti espliciti. Appare come la somma di calchi narranti. Accenni di moto che non sono ancora pronti per diventare una coreografia.
Per strane vie il mio pensiero va a Giorgio Morandi, alla sua ossessione per la natura morta, sempre la stessa. Cosa cercava Morandi? Probabilmente cercava, derridianamente, l’impossibile delle forme, ossia la loro essenza più autentica, quella sganciata dall’orizzonte della referenzialità, quella che interrompe il regime delle possibilità. Dalla ripetizione inesausta degli stessi oggetti familiari indagava la possibilità di catturare quell’impossibile che ciascuno di essi portava in sé e che fosse in grado di restituire loro l’affrancamento dall’ovvietà, dall’usura. Cercava l’impossibile per dare la vera esperienza del possibile. E intanto costruiva silenziosi teatri dell’attesa.
Attendere. C’è un sentimento dell’attesa che possiamo ritrovare in buona parte del lavoro di Sara Enrico. Si fa particolarmente evidente negli ultimi anni, sia ad esempio in à terre, en l’air, realizzato a Milano, da TILE Project Space, nel 2017, sia nel già più volte citato The Jumpsuit Theme. L’attesa c’è perché oltre alle tante narrazioni che sono in procinto di prendere vita grazie alla strategia installativa, ognuna delle forme messe in campo è stata dotata di un’attitudine performativa, una energia specifica da liberare, un gesto da compiere, una memoria da far affiorare. E quest’attitudine è inscritta nel DNA stesso di quelle forme, frutto a loro volta di dichiarati processi performativi che hanno condotto a compenetrazioni di piani/layers (fa impressione citare Boccioni, ma chissà, magari qualcosa di quel pensiero trasformativo potrebbe inconsapevolmente annidarsi in qualche angolo), ibridazioni di materiali, mascheramenti, scambio di ruoli, di funzioni, di utilizzi.
L’attesa che si respira nei suoi lavori è pervasiva, ma non ha connotazioni nostalgiche. È di segno positivo, gravida di tensioni generative.
Assume toni glamour da TILE, ironici da Quartz, solenni al MART, operosi a Praga.
È una sorta di eccedenza del tempo stesso dell’opera e come tale viene “formata”, ossia manipolata, contribuendo a dar vita a una complessa e indeterminata strategia germinativa.

 

Sara Enrico, The Jumpsuit Theme, veduta della mostra, dettaglio, 2019, MART, Rovereto. Foto Archivio fotografico MART, Alessandro Nassiri. Courtesy MART e l'artista
Sara Enrico, The Jumpsuit Theme, veduta della mostra, dettaglio, 2019, MART, Rovereto. Foto Archivio fotografico MART, Alessandro Nassiri. Courtesy MART e l’artista

 

Oggetti. Tessuti. Non credo, come ha scritto recentemente Adam Budak nel bel saggio che accompagna Camerino, a Praga, che le sue sculture siano in definitiva quel che resta delle grandi narrazioni, ossia frammenti, lacerti, memorie… Credo al contrario che quegli abbozzi antropomorfi abbiano in sé una carica, per l’appunto, germinale. Sono l’inizio di un discorso da venire.
Non mi sembra un caso che il tema di fondo, o comunque almeno il sotto-testo, dei progetti recenti di Sara Enrico sia la sartoria, in un intreccio curioso con la scultura.
Oltre all’evidente collegamento con le soft sculptures in tessuto di tante artiste novecentesche, e parallelamente al valore attribuito alla tradizione del cucito all’interno degli Women’s studies, qui c’è una visione della sartoria intesa soprattutto come pratica progettuale, come architettura dell’abito, che nel suo condurre alla creazione di un indumento deve tener conto di una serie di fattori, tutti legati al corpo e alle sue molteplici necessità fisiche, funzionali, ma anche simboliche. Trovo che l’idea perseguita a Praga di creare una struttura architettonica mediante un cartamodello ingigantito di una tuta riportato su tessuto sia particolarmente brillante. Capace di riunire in uno stesso spazio numerose discipline – moda, design, scultura, pittura, architettura, sport –, ognuna un po’ sviata dal proprio percorso abituale, eppure tutte protese verso la costruzione di qualcosa che per il momento è solo abbozzato, ma che sta per diventare un abito. Un abito-casa, un abito-pelle, soprattutto un abito nuovo.
Ma per quale tipo di corpo? Siamo solo all’inizio di un percorso. È impossibile dirlo. Abbiamo solo qualche indizio, qualche parola chiave. L’indeterminatezza è reale. È ancora tutto da costruire.
Tornando agli oggetti. Le mises en scène realizzate da TILE Project, al MART e a Praga sono tutte concentrate su degli oggetti che in qualche modo potremmo definire di antidesign (con la a minuscola, senza in alcun modo volersi riferire al Design Radicale o, per l’appunto, Anti-Design). Ma la motivazione non credo sia effettivamente quella formativa, costruttiva in senso stretto; non si tratta di disegnare davvero degli oggetti da utilizzare. Penso piuttosto che quelle presenze sfasate, deformate, abbozzate rappresentino un terreno di traslazioni dal quale poter guardare alla realtà, una sorta di mondo prelinguistico che si offre come dispositivo di visione e di percezione della realtà, con una evidente, e più volte ribadita, istanza aptica.
I suoi paesaggi oggettuali potrebbero forse per certi versi essere letti dentro una prospettiva Object Oriented, ma trovo più interessante un riferimento rétro, mi diverte di più tornare a riflettere su quel regime dell’enigma in cui si mossero De Chirico, Savinio, Magritte, in qualche modo lo stesso Morandi…
Un’interrogazione dell’enigma che oggi non passa più attraverso la relazione straniante tra elementi e luoghi noti quanto piuttosto attraverso una sorta di processazione multimedale dell’esistente. Così nel caso di Sara Enrico l’uso dei dispositivi tecnologici si ibrida con gesti umani elementari, la scansione elettronica degli oggetti con la pratica artigianale del cucire, la trama dei materiali sportivi dialettizza con la tecnica antica della fusione. E non si tratta di un’epigonale mistura postmoderna, né tanto meno di una desolante lettura della realtà. Tutt’altro. Mi sembra di scorgervi la presa d’atto di una condizione e una conseguente reazione costruttiva, all’interno di una visione complessiva che sembrerebbe riflettere sull’operatività febbrile – e forse coatta – dei nostri tempi e insieme sulla necessità di una “rinascita di una facoltà contemplativa”.
I tessuti sono dunque delle trame, e queste trame, sempre più complesse, sempre più fantasiose, diventano a loro modo, dei temi, delle variazioni e improvvisazioni su un principio di costruzione.
“Teatrando”. Sia il titolo della mostra da TILE Project Space, sia quelli in due tempi di The Jumpsuit Theme rimandano alla dimensione dello spettacolo, di un’azione concertata in una scena. Il primo, à terre, en l’air, si riferisce ai più tipici movimenti della danza. Gli altri due, Intermezzo e Camerino, hanno evidentemente a che fare con il teatro.
Il primo suggerisce un’attivazione dinamica degli elementi nello spazio secondo una ipotetica scrittura coreografica. Gli altri riguardano la scrittura drammaturgica, quella scenica e la dimensione attoriale.
L’Intermezzo è una pausa che prevede comunque un costrutto teatrale. Il Camerino, è il luogo in cui si entra nei panni dell’attore, ci si traveste per entrare in scena, oppure ci si libera di quei panni per tornare alla vita fuori scena, alla quotidianità.
Quando Sara Enrico, con una esplicita scrittura scenocentrica, distribuisce nello spazio espositivo alcuni oggetti in cemento a terra, e sempre a terra, ma in verticale, alcuni alti pannelli bidimensionali che altro non sono che la traccia dei movimenti di una barra lignea sulla superficie di uno scanner – quindi, per intenderci, il calco di un’azione – sta lavorando alla coabitazione scenica tra presenze irriconoscibili, ambigue, deformate. Si muove tra soggetti e oggetti, reali e virtuali.
È un gioco delle finzioni, in cui sia gli uni che gli altri hanno perso parte dell’identità originaria e prendono teatralmente atto di un’incompletezza, cercando un possibile completamento attraverso la relazione ignota con l’altro da sé.  Cercano un completamento nuovo, costruiscono un’intimità, sono transfughi dalle aspettative sociali e dalle imposizioni comportamentali del contesto tardo capitalista. Hanno interrogato le ritualità ancestrali, gli scenari globalizzati, le visioni di genere, la liquidità digitale. Ora mettono in scena la ricerca di una identità differente, magari, chissà, pensando anche ai “corpi naturali bioinerti” di cui parla Vernadskij. E il “guardatoio” dal quale poter assistere a questo fruttuoso gioco è proprio la scena teatrale, grazie ai suoi collaudati meccanismi riferibili allo “sguardo”, con l’ampia fenomenologia che li accompagna.
Gender. Echi di pensiero femminista si possono rintracciare nei lavori o nelle affermazioni dell’artista torinese, e il suo interesse per il tessuto ci conduce facilmente, come notavo, ai Gender Studies.
Ma può rimandare a problematiche di genere anche quell’idea di opera totale presente in Camerino dove tutto, dall’architettura, alla scultura, all’anatomia, all’abito, al movimento, si intreccia all’insegna di una visione sartoriale. Un’immagine forte, per la ricchezza dei rimandi e per la capacità di sintetizzare problematiche architettoniche, antropologiche, psicologiche, letterarie, politiche affrontate per decenni.
Credo però che il suo indagare il corpo si inscriva anche in una prospettiva più ampia rispetto a quella gender. Il corpo biologico e quello sociale sui quali si interroga riguardano un mondo in cui nulla è come sembra, le emozioni vanno reindagate, le relazioni rianalizzate, i ruoli riscritti, i valori riconfigurati, e non solo dal punto di vista del genere.
Mi pare di cogliere, tanto per toccare un aspetto, ma se ne potrebbero nominare altri, una riflessione sull’estraneità a se stessi che pur partendo forse da un approccio gender, allarga lo sguardo e arriva a coinvolgere l’arte, certa latente estraneità al proprio stesso statuto e quindi la necessità di reindagarne il corpo, ovvero la sostanza, le forme, le materie, i mascheramenti, la disciplina, il display.
Come leggere altrimenti un lavoro di qualche anno fa come Twins (2014), che amplia e interroga i modi della pittura, oppure di RGB (skin) e Untitled (Jacquard) (2011-2012), che giocano con il linguaggio digitale, o un intervento come Intermezzo che, rimandando al teatro, “performa” altre discipline, interrogandosi sui confini e sui destini dei loro specifici.
Per tornare alla dissimulazione e soprattutto all’ambiguità dalle quali ero partita, forse una delle cose che più mi ha convinto dell’intero lavoro di Sara – e che mi ha portato sia a decidere di scriverne che poi a segnalarla per l’Italian Felloship presso l’American Academy in Rome – è stata proprio la percezione di una sua impostazione molto sensibile alle questioni di genere ma al contempo in qualche modo prospettivista, pronta a guardare anche oltre, a esplorare un oggi complesso e sdrucciolevole con il coraggio dell’assunzione di angolazioni differenti, abbandonando percorsi troppo predeterminati, con addosso, ben portato, l’habitus scomodo dell’aporia. Probabilmente ricercando orizzonti conoscitivi e soprattutto etici che ancora stentiamo a intravedere.

Arte e Critica, n. 95, autunno – inverno 2020/2021, pp. 16-23.

Daniela Bigi
Daniela Bigi