ULTRAMODERNE: SONIA ANDRESANO, RUTH BERAHA, TOMASO BINGA, BEATRICE CELLI, ANOUK CHAMBAZ, FRANCESCA CHIOLA, MARIA ADELE DEL VECCHIO, SARA DIAS, RÄ DI MARTINO, SATYA FORTE, MARIA LAI, VERONICA LEFFE, GIULIA MANGONI, EVA MARISALDI, ELISA MONTESSORI, LULÙ NUTI, CLOTI RICCIARDI, MADDALENA TESSER, PALAZZO MACCAFANI, PALAZZO IANNUCCI E LE STRADE DEL BORGO DI PERETO (AQ), 8 LUGLIO – 10 SETTEMBRE 2023.
Sette anni di Straperetana non sono pochi e l’edizione di quest’anno ha dimostrato la solidità di una proposta nata forse per caso, come avviene per gli incontri migliori. Se scattassimo una panoramica delle sei passate edizioni insieme a quella attuale, si materializzerebbe davanti ai nostri occhi un paesaggio dal profilo irregolare, dolce e ondulato, a volte più aspro, che le abbraccia tutte. Nata da un’idea di Paola Capata e Delfo Durante, per sei anni la mostra diffusa è stata curata da Saverio Verini, che quest’anno è invece impegnato in territorio umbro, da pochi mesi neo direttore del Sistema Museale di Spoleto.
In un’intervista uscita diverse settimane fa su «Vanity Fair» Capata ammetteva la mancanza di un tema specifico per questa edizione di Straperetana. Non c’è un tema esplicito, è vero, non perché l’esposizione non segua consapevolmente un suo sguardo prospettico, quanto perché è la mostra stessa a farsi tema, a tracciare il filo rosso del suo percorso, intesa come oggetto metatemporale a sé stante. La struttura portante di questo evento sono le menti che l’hanno pensata e l’hanno resa possibile, gli artisti invitati e gli abitanti di Pereto, poco più di seicento persone che ogni anno accolgono lo strappo del contemporaneo nella Porta d’Abruzzo con curiosità e trepida attesa.
Proprio il concetto di squarcio, di porta, di confine che caratterizza la posizione geografica del paesino abruzzese (da ricordare l’opera icastica Limits stimulate fantasy di Fabio Giorgi Alberti nella prima edizione), conduce a riflettere sulla particolarità di questa manifestazione, che non è la prima di questo genere nel nostro paese. Negli ultimi anni molti sono stati gli eventi che in Italia hanno tentato di offrire vie alternative ai rigidi circuiti del mercato dell’arte, in dialogo diretto con lo spazio pubblico, con il territorio, in ricerca di un tempo di fruizione più attento e dilatato, quasi ammiccando al pensiero quanto mai attuale di “decrescita felice” teorizzato anni fa dal filosofo Serge Latouche (che d’altra parte prende a sua volta ampiamente le distanze dal concetto stesso di mercificazione culturale). Andando a ritroso non possiamo dimenticare, ad esempio, le prime esperienze inaugurate da Cesare Manzo in Abruzzo, che dal 1990 al 2016 con “Fuori Uso” ha immaginato una possibile alternativa al dispositivo del white cube come era stato teorizzato da Brian O’Doherty nel 1976 sulle pagine di «Artforum», per andare a recuperare attraverso l’arte contemporanea luoghi dismessi da restituire alla collettività.
O quelle di Mario Pieroni e Dora Stiefelmeier, che nel 1991 avevano trasformato l’esperienza della Galleria Pieroni (fondata a Roma nel 1979) in un progetto di ricerca sui generis, che sfuggisse alle pure logiche di mercato, esaltando il valore d’uso dell’arte, il suo ruolo di “riscatto”, di “rigenerazione” e di “rinascita” sociale in stretta connessione con il territorio. Nel 1991 nasceva, dunque, l’Associazione Zerynthia e nel 2016 veniva istallato a Loreto Aprutino (Pescara) No Man’s Land, il progetto visionario dell’architetto ungherese Yona Friedman, che l’anno successivo avrebbe prestato il nome all’omonima fondazione.
Sempre negli anni Novanta, il grande esperimento di Arte all’Arte, ideato da Associazione Arte Continua, sparso in vari comuni toscani, ha rappresentato un momento di riflessione importante affiancando dal 1996 al 2005 il consolidamento di galleria Continua a San Gimignano, fondata nel 1990. Una Boccata d’Arte, promossa dal 2020 da Fondazione Elpis in collaborazione con Galleria Continua e con la partecipazione di Threes, sembra ricalcare gli intenti originari espandendoli geograficamente su territorio nazionale.
Se si considera la dimensione commerciale tra le più moderne e controverse, ovvero quella della fiera, non si può non menzionare una delle prime fiere di arte contemporanea realizzate fuori dai format dei quartieri e degli stand fieristici solitamente preposti: nel 2008 The Road to Contemporary Art si espande tra i palazzi del centro storico di Roma, fondata e riproposta per quattro edizioni dall’allora direttore, nonché ideatore, di Artissima Roberto Casiraghi. Come anche la fiera The Others a Torino, che dal 2011 ha fatto del format innovativo in sedi non convenzionali, degli orari di apertura serali, e del programma di eventi trasversali, il suo cavallo di battaglia.
Più recentemente possiamo considerare le anti-fiere come Granpalazzo, da un’idea di Paola Capata, Delfo Durante, Ilaria Gianni e Federica Schiavo presso Palazzo Rospigliosi a Zagarolo (2015-16), poi trasferita e conclusasi a Palazzo Chigi ad Ariccia (2017), o come DAMA, da un’idea di Giorgio Galotti a Torino (2016-2021), che si è evoluta nell’idea di una mostra espansa, Hypermaremma, pensata da Carlo Pratis, Giorgio Galotti, Matteo d’Aloja in Toscana (dal 2019 a oggi). O ancora osservando mostre da collezionare come Panorama, ideata e realizzata dal consorzio di gallerie ITALICS a Procida (2021), a Monopoli (2022) e quest’anno a L’Aquila (2023), possiamo senza dubbio confermare che questo genere di proposta culturale raccolga sempre più consensi.
Dunque, Straperetana rappresenta uno spartiacque importante tra gli esperimenti degli anni Novanta e quelli più recenti. Non è un caso che sia una gallerista a proporre dunque una nuova via al godimento dell’arte e del territorio, perché il contemporaneo diventi più accessibile, perché la sua fruizione diventi più consapevole e partecipata e perché la comunità fatta di artisti, professionisti, persone, torni a essere tale.
In un contesto siffatto il titolo di questa edizione, “Ultramoderne”, sembra volutamente anacronististico. «Il borghese non si fa più sbalordire. Ha visto tutto. La modernità è diventata ai suoi occhi una tradizione»,1 scriveva Antoine Compagnon in Les Cinq paradoxes de la modernité (1990), tratteggiando la rottura come genesi di una nuova “tradizione” che presuppone dunque il suo stesso paradosso nella negazione del nuovo di cui si faceva portavoce. Il progresso inteso come «fanale senza luce» della storia, nelle parole di Baudelaire, non illumina ma getta nell’ombra ogni oggetto della conoscenza. In quest’ottica l’aggettivo “moderno” si spoglia della connotazione temporale associata all’idea di evoluzione, si cristallizza in un tempo incerto e ambiguo, in una sua atemporalità irrisolta attraversato da uno sguardo volutamente nostalgico: non a caso nel comunicato stampa della mostra si fa riferimento a una definizione del dizionario italiano Olivetti, che indica «quanto di più moderno esista, una parola che ricorda impeti avanguardisti e desiderio di futuro». Non si parla qui di ultracontemporanee, dunque, bensì di ultramoderne, perché il “moderno” è un concetto più o meno condiviso e apparentemente definito, mentre il “contemporaneo” stenta ancora una vera collocazione formale e sfuma la linearità di un tempo progressista. Come afferma Giorgio Agamben: «Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale».2
Così le diciotto artiste di Straperetana attraversano quasi quattro generazioni, confrontandosi con la topografia stratificata del piccolo centro urbano, dilatandosi come un corpo unico, atemporale anch’esso. Tutte donne, una dichiarazione di intenti che non trascende però nel femminismo.
I manifesti dell’illustratrice Veronica Leffe – personaggi femminili straordinari e indipendenti come Ipazia, Penelope, Margherita Nikolaevna – sorprendono lo spettatore immerso nella sua flânerie presentandosi come apparizioni inaspettate tra i muri e le rientranze dei vicoli tortuosi, fungendo da collante dell’intera esposizione.
Moderne rispetto a cosa, dunque? Moderne come categoria metatemporale, rispetto al proprio tempo e al tempo che verrà, moderne come sinonimo di progresso persistente. Dalle opere innovative di Tomaso Binga che fotografa le lettere performate attraverso il proprio corpo nudo fino a comporre la parola Mater (1977-2015), di Cloti Ricciardi, che in Expertise. Conferma d’Identità (1972) gioca e irride le granitiche convenzioni sociali dell’epoca sottolineando in rosso le parole «sesso femminile» contenute nel suo certificato di nascita per sostituirle con un’annotazione gridata a chiare lettere, «io sono donna», suggellando tutto con il timbro del “movimento femminista romano”, di Maria Lai che in Senza Titolo (pagina-oggetto) trasforma la carta stampata in carta ricamata a fili sospesi, di Elisa Montessori che in un inedito libro d’artista, realizzato per l’occasione, restituisce in forma diaristica paesaggi reali ed emotivi catturati in forme e colori materici.
Al fianco di lavori di artiste d’avanguardia riscoperte spesso in tarda età, altre generazioni fanno breccia attraverso linguaggi e media differenti. Protagonista degli spazi sotterranei che conducono alla cisterna di Palazzo Maccafani senza dubbio il suono. Ruth Beraha con Allison Grimaldi Donahue in I see you (2021) invita lo spettatore a inginocchiarsi su un cuscino di velluto per inforcare le cuffie predisposte e chiudere gli occhi in ascolto di una traccia audio coinvolgente che genera una visione intima e interiore. Mentre nell’installazione site-specific Boîte à outils (cassetta degli attrezzi) Sonia Andresano trasforma una console in legno con specchiera in un mobile modificato cui manca la superficie specchiante, privato perciò della sua utilità come l’estetica del ready-made insegna, laddove un piccolo monitor incastonato nel cassetto sottostante ritrae l’artista mentre impugna a mo’ di pistola un trapano elettrico, il cui brusio ispido echeggia nella cavità della grande cisterna. Una fiaba interrotta, una matrigna cui manca il suo specchio da interrogare a misura della sua bellezza, un’Alice intrappolata al di là dello specchio/schermo, imprigionata nel suo sogno lucido.
Ancora Beatrice Celli, Francesca Chiola, Maria Adele Del Vecchio, Sara Dias, Giulia Mangoni, Eva Marisaldi meditano con delicatezza sul filo di una modernità disinvolta ed equilibrata, rivestita dalle proprie storie e visioni private.
Mentre a Palazzo Iannucci, conclusione di un cammino articolato che si snoda nei vicoli della città accogliendo opere donate alla comunità da artisti di questa e di passate edizioni, si distinguono con energia i lavori di giovani o giovanissime artiste che superano i limiti (alle volte altrettanto resistenti) della fluidità di genere per creare percorsi molto personali e originali. La loro modernità, collocata in un’epoca di esuberanza di stimoli e obiettivi, di esasperazione di immagini e possibilità estetiche, risulta nella delicatezza dei linguaggi ancora più evidente. Se traslassimo dunque l’aggettivo “moderno” nel più ambiguo e indefinibile “contemporaneo” secondo la limpida lettura offerta da Agamben, saremmo d’accordo nell’affermare che «Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente. […] Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo».3
In questa prospettiva Lulù Nuti espone una scultura aggrovigliata e dinamica nata dalla suggestione di un antico arazzo raffigurante uno dei patroni del borgo, San Giorgio, custodito nell’omonima chiesa della piazza, restituendone, nella sua astrazione, la tensione diagonale e l’impeto del gesto finale, spogliandola di qualsiasi riferimento specifico (Egli danza, prima posizione, 2023).
Nella cella di sicurezza per gli uomini, di quella che negli anni Trenta era la Caserma dei Carabinieri, Anouk Chambaz presenta un video realizzato dopo un periodo trascorso a Pereto coinvolgendo diversi abitanti del borgo che hanno prestato il loro volto, dipinto di figure delicate ispirate ancora ai simboli della città (il paesaggio, il San Giorgio, il Drago, ecc.), in primo piano frontale o di profilo come in una foto segnaletica, rendendo un omaggio sincero e forte al concetto di presenza e di comunità.
Rä di Martino espone PLAY HOUSE #1; #3; #4 (2018), tre piccole opere fotografiche che ritraggono donne del passato di fronte alle loro case, esili figure che difendono il proprio mondo come vestali senza tempo, simboli di una missione che continua pur nelle sue incertezze a caratterizzare il genere femminile superando luoghi ed epoche, evolvendosi senza annullarsi.
Le quattro tele di Maddalena Tesser avvolgono lo spettatore in un’atmosfera enigmatica, magrittiana, le cui immagini di capigliature, dettagli, abiti raccontano un aspetto fondamentale della femminilità, ovvero l’ambiguità e il mistero. In Specchionero (2022) sembra risuonare una delle immagini realizzate da Chambaz al piano sottostante (le due gemelle dalla fulgente capigliatura arancio), come una corrispondenza silenziosa che costruisce il percorso e improvvisamente si mostra inaspettata.
Chiude questo viaggio l’opera dell’artista più giovane: Satya Forte dimostra la sua maturità nel dare forma a uno dei nodi del contemporaneo, quella quarta dimensione tanto indagata dai maestri dell’Avanguardia a partire da Duchamp in avanti. Un’opera che sembra attualizzare il concetto potente e sempre attuale dell’Angelus Novus, con cui Walter Benjamin dipinse l’Angelo della Storia con lo sguardo rivolto alle rovine del passato ma con le ali intrappolate nel vento travolgente del futuro.4 Satya Forte raccoglie con pennelli da archeologo la polvere accumulata per più di quarant’anni in uno spazio di passaggio, trasformandola in un lavoro site-specific negli spazi dell’ultimo piano, Se non il vento (2023), due ampolle di vetro di dimensioni differenti sospese su un filo d’acciaio che passa attraverso una carrucola e che imprigionano la stessa polvere come fosse una clessidra scomposta, un pendolo, un misuratore sbagliato di tempo, una traccia presente ma effimera che abbraccia l’umanità intera.
Se la modernità non è altro che un concetto astratto, superato da categorie accelerate – la postmodernità di Jean-François Lyotard o la surmodernità di Gianni Vattimo – non ci rimane che raccoglierne le rovine e gli scarti per ripartire da questi a costruire i nuovi orizzonti dell’estetica contemporanea.
Ottobre 2023
1. A. Compagnon, in Les Cinq paradoxes de la modernité, Parigi, Seuil 1990, I cinque paradossi della modernità, Il Mulino, Bologna 1993, p.7.
2. G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, coll. I Sassi, Milano 2008, p. 8-9.
3. Ivi, p. 13.
4. W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp.76-77. «L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».