Topazia Alliata. Un coraggioso spirito novecentesco

Nella nota guida del Touring dedicata alle Dolomiti Orientali, il nome di Topazia Alliata compare due volte, la prima quando il 7 settembre 1935 salì con Fosco Maraini il Castello Incantato, a quota 2650 s.l.m., e la seconda quando due giorni dopo, sempre con Fosco, superò lo spigolo nord della Cima Cadin di San Lucano, a quota 2839 s.l.m., la più alta dei Cadini.
Tale impresa viene ricordata anche da Toni Maraini nel suo recente saggio Topazia Alliata. Una galleria d’arte con vista sul mondo (De Luca Editore, 2022), un libro che va ben oltre il titolo, ossia ben oltre il racconto dell’attività della Galleria Trastevere, restituendo invece un’immagine a tutto tondo della protagonista, dagli studi artistici avvenuti nella Palermo degli anni Trenta, all’impegno nelle battaglie per la difesa dei diritti civili, alla promozione degli artisti d’avanguardia.
Nonostante la sua breve durata, la galleria che Topazia fondò a Roma nel 1959, e che diresse fino al 1964, ha lasciato un segno indelebile grazie alla sua totale adesione al clima in cui emersero i poeti novissimi, con l’exploit palermitano del Gruppo ’63, e al sostegno che diede ai pittori novissimi, che si affermarono nello stesso periodo dando vita a quella che venne definita la Nuova avanguardia. Per Topazia ciò fu possibile grazie a una volontà temprata alle sfide difficili, potremmo dire, a scalare le montagne. Quella era stata, effettivamente, «un’impresa di cui […] andava molto fiera – racconta Toni Maraini – e sulla quale scrisse; non mancò di evocare queste loro scalate dolomitiche in un paio di quadri del 1933: il suo autoritratto e il ritratto di Fosco alpinista».

 

 

Ma questo era solo un aspetto del suo temperamento, che non ha mancato di mostrarsi in tante altre occasioni, come quando, molto presto, decise di abbandonare la pittura nonostante le sue più che evidenti doti naturali, o per la fermezza con cui portò avanti le sue battaglie: attraversando eventi, promuovendo iniziative, costruendo rapporti e stringendo amicizie. Tutto ciò è narrato da Maraini con una sensibilità che si direbbe quasi idealizzante se non fosse allo stesso tempo così attenta ai dettagli da renderla storia viva.
Dal suo racconto di una vita ricca di avvenimenti, a volte anche drammatici, mi piacerebbe estrapolare un’immagine sintetica che possa restituire Topazia alla nostra coscienza, un’immagine che mi è sembrato di poter cogliere a partire da quella che qualcuno ha definito una stravaganza, ma che a mio avviso, letta dalla giusta angolazione, potremmo considerare il riflesso di una visione umanistica del mondo.
Per far questo trovo necessario ripercorrere innanzitutto le tappe che hanno contrassegnato quell’impegno civile che ella esercitò fin da giovane, impegno che nel libro viene giustamente categorizzato come politico-sociale, visto che proprio nel passaggio ai Sessanta, ovvero in coincidenza con la dedizione di Topazia alla galleria, il lessico stava rapidamente cambiando in rapporto alle profonde trasformazioni che la società attraversava.
Parto da un passaggio che mi ha colpito. Scrivendo del definitivo trasferimento da Palermo a Roma e dell’apertura della galleria, Maraini riporta una notizia apparsa su «Il Mondo» all’indomani dell’inaugurazione: «Trastevere ora ha anche una galleria d’arte […] ne è proprietaria Topazia Alliata, che tutti conoscono per il suo amore per l’arte e i suoi spregiudicati atteggiamenti politici», e lo commenta così: «Non è chiaro cosa avessero di spregiudicato i suoi atteggiamenti politici, ma ogni percorso d’impegno, se indipendente, sembrava allora spregiudicato».
Era a tutti nota la passione di Topazia per l’arte, ma che dire degli «spregiudicati atteggiamenti politici» cui fa riferimento l’articolo? La stessa Maraini si domanda quali potessero mai essere. Quel riferimento poteva andare agli anni siciliani – a quella data, quasi una vita precedente –, alla sua partecipazione all’attività del Circolo della Cultura di Palermo e più in generale al suo coinvolgimento nei «fermenti socio-politici siciliani» quando, vicina alle idee di Aldo Capitini, partecipò al Partito Socialista Siciliano per poi «aderire agli Amici del Mondo e al nascente Partito Radicale dei Liberali e dei Democratici Italiani di Mario Pannunzio». A proposito di tale adesione, Maraini ricorda anche che nel ’56 Topazia aveva organizzato a Palermo un incontro-dibattito con Nicolò Carandini, esponente del Partito Radicale, sul tema Per una moderna democrazia, con l’intento di costituire una sezione palermitana del partito. In questa direzione, i trascorsi di Topazia annoveravano anche l’adesione al Movimento Federalista Europeo e all’Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, nel cui consiglio di presidenza, come è giustamente sottolineato nel libro, figurava Lionello Venturi, con il quale Topazia «rimase per anni in cordiale contatto». Ma se in quegli atteggiamenti spregiudicati si dovesse includere tutto ciò, si dovrebbe allora aprire un più serio interrogativo, la cui risposta sarebbe da ricercare dentro il conflitto tra le diverse anime che alimentarono quel fronte liberalsocialista al quale Topazia, mi pare di poter dire, faceva riferimento.

 

Movimento Federalista europeo, Tessera d’iscrizione di Topazia Maraini, Palermo, 1952. Archivio Toni Maraini
Movimento Federalista europeo, Tessera d’iscrizione di Topazia Maraini, Palermo, 1952. Archivio Toni Maraini

 

In tal caso, bisognerebbe ammettere la difficoltà di trovare una risposta guardando dal solo versante dell’arte, a meno di non servirsi dell’esempio di Lionello Venturi, impegnato da sempre per la libertà dell’arte in quanto segno primo e tangibile di ogni altra forma di libertà, anche se c’è da sottolineare che egli partecipò alla vita politica per circostanze di forza maggiore, come reazione al clima determinatosi in Europa tra le due guerre.
Fra i due, nonostante la lontananza delle origini e della formazione, c’era più di qualche affinità. Per essere espliciti, il riferimento va a ciò che si manifestava dietro il rifiuto di Venturi di prestare giuramento di fedeltà al Regime, che gli costò l’esilio prima in Francia e poi negli Stati Uniti, e dietro il rifiuto di Topazia di aderire alla Repubblica di Salò, che pagò con l’internamento in un campo di prigionia in Giappone, dove allora risiedeva con Fosco e le loro tre figlie.
Nel caso di Topazia, arte e impegno politico fin dall’inizio sembrarono camminare di pari passo, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, sino a quando, come mi è parso di capire, si è concentrata nell’impegno per l’arte e gli artisti.
Oppure le motivazioni di quella spregiudicatezza di cui si leggeva ne «Il Mondo» andrebbero ricercate in una direzione più intima, dentro le radici familiari, nell’eredità culturale raccolta seguendo gli interessi del padre, Enrico Alliata di Salaparuta, che «al Referendum del 1946 aveva votato per la Repubblica». Basterebbe già questo per capire quanto egli fosse stravagante, o eccentrico, o potesse essere preso per spregiudicato, soprattutto se si pensa alle sue origini nobili e alla realtà siciliana di quegli anni. E c’è di più, visto che fu «vegetariano e autore di uno dei primi ricettari italiani di cucina vegetariana naturista, oltre che autore, nel 1931, del pamphlet Contro la vivisezione».
Per completare significativamente il quadro, bisogna sottolineare anche che Enrico Alliata «aveva scritto vari libri tra i quali Libertà. Krishnamurti ed i pionieri del pensiero attuale» e che del filosofo indiano era diventato amico, oltre a essere stato tra i primi a introdurne in Italia il pensiero. Vegetarianismo e pacifismo, dottrine che attraversarono quegli anni non mancando di riverberarsi nel quotidiano: Topazia era solita lasciare «la chiave sotto lo stoino della sua porta e una pentola di pasta e fagioli pronta per chi approdava lì anche in sua assenza», un segno di pace e di benvenuto a chi bussava alla sua casa.
Erano ideali forti, che necessariamente dovevano fare i conti con la politica. Pensiamo al già citato Capitini che, per intenderci, nel ’61 dette vita alla prima Marcia della pace da Perugia ad Assisi, e alle lotte che dovette sostenere proprio all’interno della sua parte politica, vicino ai cattolici. Una vicenda che tocca anche la militanza di Danilo Dolci, che i giornali chiamavano il «Gandhi della Sicilia»: Topazia gli dette il suo appoggio, condividendo a pieno il suo impegno per la difesa dei diritti dei meno fortunati.
Insomma, ce n’è abbastanza per intuire, se non proprio per comprendere, cosa si potesse nascondere dietro quel giudizio tranchant dato dall’articolista de «Il Mondo».

 

Giappone, settembre 1945: Topazia Alliata, Fosco Maraini e le figlie Dacia, Yuki e Toni (in braccio al padre) dopo la liberazione dal campo di concentramento di Nagoya. Archivio Toni Maraini
Giappone, settembre 1945: Topazia Alliata, Fosco Maraini e le figlie Dacia, Yuki e Toni (in braccio al padre) dopo la liberazione dal campo di concentramento di Nagoya. Archivio Toni Maraini

 

Ad avere spinto a leggere come spregiudicati gli atteggiamenti di Topazia potrebbe però esserci stata anche un’altra ragione. Un altro orizzonte, tutto interno all’universo dell’arte, che agli occhi di quello che allora si chiamava borghese – e che oggi potremmo dire mainstream, se non fosse che nel frattempo anche l’arte in buona parte lo è diventata – annoverava personaggi eccentrici o stravaganti, tali da essere scambiati per spregiudicati.
Topazia ha dedicato la vita all’arte. Non ancora ventenne si iscrive all’Accademia di Belle Arti, dove ha l’occasione di manifestare la sua prima stravaganza, «infrangendo un divieto sino ad allora riguardante le donne», e cioè frequentando la Scuola del Nudo. È nell’arte che ci si può concedere più facilmente certe spregiudicatezze. Nonostante gli immediati riconoscimenti al suo talento artistico, rinuncia presto all’essere pittrice (all’artista sarebbe stato più facile perdonare certi atteggiamenti), rimanendo però fedele all’arte, vissuta come un modo per ribadire l’insopprimibile istanza di libertà. Ne sono conferma le sue amicizie, personaggi tra loro assai diversi, ma accomunati dall’impegno e da una passione tale da mettere in gioco l’esistenza. Basta ricordare pochi nomi tra quelli presenti all’inaugurazione della Galleria Trastevere (oltre al già ricordato Lionello Venturi, Riccardo Gualino, Peggy Guggenheim, Herbert Read, Leonardo Sinisgalli) o pochi altri fra quelli che non c’erano ma con i quali intrattenne una intensa corrispondenza, soprattutto con Lawrence Alloway, ma anche con Udo Kultermann, David Sylvester, Pierre Restany.
Un parterre tutt’altro che trascurabile, al quale Topazia ha avuto la sensibilità e la capacità di accostare i più giovani artisti, vicini alla galleria, ribelli e contestatori; «a me interessa molto esporre giovani da far conoscere», scriveva. Un impegno preso non nei confronti di questo o di quell’autore, ma in nome di una dimensione dell’essere verso cui tutti gli artisti, almeno i più sensibili e dotati, indicavano la strada. Un assunto portato avanti con una passione tale da consentirle di immaginare una nuova civiltà.
Il giudizio imputatole, dunque, poteva riguardare probabilmente le sue scelte, il suo stile di vita, le sue frequentazioni e perfino le sue amicizie. Tra queste, quelle con Emilio Villa ed Ettore Colla possono ben rappresentare lo spirito di indipendenza, ma anche di ribellione, che la caratterizzava.
Amicizie nate nel decennio che l’ha vista fare la spola tra la Sicilia e Roma e cementate con il suo definitivo trasferimento nella capitale: «[…] tramite Corrado Cagli, aveva conosciuto a Roma attorno al 1953 quel singolare personaggio – critico, poeta, grande erudito – che era Emilio Villa e quell’altrettanto singolare personaggio che era lo scultore Ettore Colla. Entrambi impegnati nei progetti del Gruppo Origine e nella rivista «Arti Visive», Emilio Villa e Ettore Colla erano paladini di un rinnovamento dell’arte e della cultura nell’Italia del secondo dopoguerra […] per molti anni lei formerà con loro un saldo sodalizio». Un rapporto ben radicato, quindi, con questi dioscuri, personaggi scomodi nell’arretrato clima culturale e politico romano, che non fece mancare, ad esempio, alcune pesanti interpellanze parlamentari sull’operato della Galleria Nazionale d’Arte Moderna diretta da Palma Bucarelli, la quale era presente, non a caso, all’inaugurazione della Galleria Trastevere.
Se Colla, nato nel 1896, era più grande di Topazia di oltre una quindicina d’anni, di fatto si dimostrava non solo nello spirito ma anche nella pratica artistica più vitale di tanti ventenni. Forse proprio la vitalità (e fors’anche il vitalismo) poteva essere l’elemento della loro coesione. Mi piace pensarla così la scelta di Topazia di riprodurre come logo della galleria la silhouette del Cerchio magico, la scultura di Colla.

 

Topazia Alliata, Autoritratto da alpinista, 1933. Collezione Dacia e Toni Maraini
Topazia Alliata, Autoritratto da alpinista, 1933. Collezione Dacia e Toni Maraini

 

Il rapporto con Emilio Villa travalicò le circostanze d’occasione. Topazia lo aveva conosciuto ancor prima di trasferirsi a Roma, con lui aveva organizzato nel luglio del ’56 una mostra a Palermo, Le correnti orfiche, una sorta di incubatore da cui svilupperà una duratura collaborazione. Non doveva essere facile avere a che fare con il Villa poeta e intellettuale, e nemmeno con il Villa scrittore e critico d’arte. Comunque sia, la loro amicizia durò un cinquantennio.
Per capire quale fosse lo spirito che li univa, probabilmente è sufficiente considerare un po’ più da vicino quanta indipendenza ci fosse nella scelta degli artisti invitati alla mostra di Palermo. Alcuni erano già celebrati, Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, altri erano giovani promesse, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, Giulio Turcato, altri ancora nomi nei quali riconoscere un valore, Nuvolo, Mario Samonà. Poi c’erano gli irregolari, Paolo Buggiani, Ugo Sterpini o Amerigo Tot e infine, a completare il quadro, Aurelio Ceccarelli, Enrico Cervelli o Sergio Donnini. Tra questi ultimi, Ceccarelli sarà l’autore, anni dopo, com’è ricordato nel libro, di un «logo, poi scolpito su pietra: una silhouette vitruviana a braccia spalancate inserita in un cerchio con scritto tutto attorno Amore, Verità, Bellezza, Scelta, Giustizia». È il marchio del Centro dei Cittadini del Mondo, inaugurato a Rocca Sinibalda nel ’68 per ospitare artisti, scrittori e poeti, nato per iniziativa di Caresse Crosby, già famosa per avere fondato negli anni Trenta a Parigi le note edizioni Black Sun Press, e aver dato vita negli anni Cinquanta in America al movimento Women Against War.
Villa dette un contributo importante nel determinare la compagine rappresentata da Topazia. Già l’anno prima dell’evento palermitano, nell’aprile del ’55, i due avevano organizzato a Roma I sette pittori sul Tevere a Ponte Sant’Angelo (ancora Ceccarelli, Cervelli, Rotella e Samonà, e poi Renato Cristiano, Paola Mazzetti, Angelo Moriconi). «Allestita sul Barcone der Ciriola galleggiante sul fiume Tevere», Maraini ne sottolinea l’indipendenza da luoghi e fatti istituzionali: «segnò un’altra tappa originale nella situazione artistica romana. Col suo consueto spirito caustico, all’entrata del barcone Villa aveva posto un cartello con su scritto ammessi i cani e le biciclette, proibito l’ingresso ai critici e ai mercanti».
Le mostre e i programmi di Topazia erano sempre condotti oltre ogni costrizione di stile,  di gusto e di tendenza, ma sempre con un’incontestabile coerenza e autenticità.
Molti di quegli artisti giovarono del suo sostegno sul piano internazionale, ben oltre la galleria, ben oltre i suoi stessi mezzi. All’interno di quel novero di artisti, Topazia scelse quelli per la mostra 5 Painters from Rome, organizzata a Londra nel giugno 1958 nella Gallery One del noto Victor Musgrave. È solo un esempio, che dimostra però la sua capacità di restituire a Roma e ai suoi artisti l’attenzione che meritavano, fondendo locale e globale, per dirla con le parole di oggi.
Le manifestazioni di indipendenza, accompagnate dalle dichiarazioni di libertà, la centralità romana e l’adesione alla rivolta astratta rappresentavano un coacervo di motivi sufficienti a creare quell’alone polemico che incombeva su Topazia.

 

Copertina del catalogo della mostra I sette pittori sul Tevere a Ponte Sant’Angelo, Roma, 1955. Archivio Toni Maraini
Copertina del catalogo della mostra I sette pittori sul Tevere a Ponte Sant’Angelo, Roma, 1955. Archivio Toni Maraini

 

Nel libro se ne trova un’altra traccia, quando si racconta che in «un articolo di cronaca, non firmato, e probabilmente di Berenice, pubblicato il 4 aprile 1968 nella rubrica d’arte de “L’Espresso”, sotto una foto di Topazia con l’amico artista Giulio Turcato si poteva leggere: “[…] la Galleria Trastevere […] che ha esposto per la prima volta in Italia e talvolta in Europa, artisti inglesi e americani […] e artisti italiani […], consulente di collezionisti, invece di vendere cerca di convertirli, abbandonandoli alla loro sorte se renitenti. Dopo la chiusura della galleria seguita a scoprire talenti, ad incoraggiarli, a imporli, a sostenerli e perfino ad ospitarli nel suo vecchio appartamento di tre stanze a Piazza S.Calisto, la cui porta è spalancata a chiunque abbia dentro di sé una scintilla che Topazia riconosce prima degli altri”». Un’affermazione che l’autrice commenta: «Seppure gentile, il breve testo assumeva quel tono divertito che caratterizzava allora molti articoli di cronaca spicciola dell’arte, come se la situazione artistica romana non necessitasse più approfondite considerazioni», e continua con tono vagamente infastidito: «E come se le cose serie da rilevare a proposito di Topazia dovessero per forza colorarsi di stravaganza […]. Forse una certa visione ideologica condizionava quanto veniva allora scritto e commentato da qualche cronista o giornale con sottesa ironia sul mondo dell’arte astratta nonché sul fatto che Topazia discendesse da una famiglia di nobili siciliani».
È fuori dubbio che in quegli anni ci fosse un forte pregiudizio sull’arte astratta e i pittori novissimi e che la frequentazione degli artisti del gruppo Forma 1, che includeva pure alcuni siciliani, con la loro scelta di fondere astrattismo e marxismo, divergente dall’orizzonte di interessi di Topazia, non aiutasse a chiarire le sue posizioni.
Si perpetuava un pregiudizio, a dirimere il quale non aiutava certo la vicenda legata all’impresa familiare. E ci sarebbe da indagare sulla buona fede dei loro istigatori, visto che a propagandarlo erano proprio i vessilliferi dell’area liberalsocialista e radicale.
Comunque, il progetto di ammodernamento dell’arte quale espressione di libertà era stato preso da Topazia molto seriamente, al punto da non lasciare sola quella voce alzata da «Il Mondo».
Ma azzardiamo ancora: forse a determinare quel clima potrebbe essere stata proprio l’amicizia pericolosa con Villa, un personaggio assolutamente fuori dal comune, dall’intelligenza sopraffina ma dall’impeto irruento e anarchico, un ribelle nel comportamento e uno spregiudicato nell’opera.
Che sia stata questa o qualche altra amicizia, tra le tante su cui Topazia poteva contare, fatto sta che l’apertura della Galleria Trastevere la impegnò nell’impresa tutt’altro che modesta, seppur comune a quel gruppo di amici, di rilanciare l’arte nel dopo-dopoguerra. Uso la locuzione che usava Jannis Kounellis per indicare quegli anni, quando giovanissimo frequentava la Galleria Trastevere, perché rende l’idea della difficoltà di liberarsi dai vincoli che impedivano alla modernità, come sinonimo di libertà, di affermarsi. Credo che fu proprio questa consapevolezza, unita alla disinvoltura di Topazia nel sostenere gli artisti presso i suoi autorevoli amici, ad attrarre quei giovani frequentatori della galleria (penso a Kounellis stesso, a Pino Pascali, a Maria Pioppi, ad Anna Paparatti, a Mohsen Vaziri, a Carmengloria Morales, quasi tutti coetanei, per altro di sua figlia Toni Maraini), compagni di Mohamed Melehi e tutti allievi dell’Accademia di Roma, un ensemble che non si stenta a riconoscere come gruppo, con tutto il significato che questa condizione ha avuto nell’ambito dei movimenti d’avanguardia, quella dell’essere una comunità.

 

Galleria Rome-New York Art Foundation, Roma, 1962: Frances McCann, Alexander Calder, Palma Bucarelli, Topazia Alliata. Per gentile concessione Milton Gendel
Galleria Rome-New York Art Foundation, Roma, 1962: Frances McCann, Alexander Calder, Palma Bucarelli, Topazia Alliata. Per gentile concessione Milton Gendel

 

A questo punto c’è la necessità di aggiungere, quasi fosse un corollario, ancora poche parole sull’autrice del libro, qui preso a pretesto di critica, come avrebbe detto Venturi.
Toni Maraini è l’ultima delle tre figlie di Topazia, ma nel libro non traspaiono mai sentimenti familiari, nonostante la naturale e necessaria condivisione della vita minuta ma soprattutto dei grandi eventi: la prigionia in Giappone, l’avventuroso rientro in Europa, gli anni siciliani e poi la partecipazione a quella vista sul mondo che la Galleria Trastevere offriva. Le scelte successive di Toni sono la testimonianza più sincera dell’autentica passione trasmessa da Topazia per la vita e per l’arte. Penso che aver condiviso quel vissuto, l’europeismo dei circoli culturali frequentati da Topazia, il suo cosmopolitismo, siano stati la spinta determinante a compiere gli studi di storia dell’arte, ma soprattutto ad alimentare l’impegno per l’arte e per la cultura dei paesi del Sud del Mediterraneo. Interesse già fortemente presente nell’attività di Topazia, come le aveva riconosciuto Maurizio Fagiolo scrivendo su «L’Avanti» (Artisti stranieri alla Libreria Feltrinelli). A proposito di questi ospiti segreti di cui parla Fagiolo, Maraini scrive: «erano quei giovani artisti del Sud del Mediterraneo (Egitto, Maghreb) e Vicino Oriente (Siria, Iran, Irak, Palestina) confluiti a Roma con borse di studio o per scelta, Roma essendo allora un vivace centro culturale inter-mediterraneo. Topazia non mancherà di interessarsi ad alcuni di questi».
Un’ultima annotazione: se ho insistito nell’indicare Topazia con il solo nome non è stato per esibire un rapporto personale – che pure c’è stato – quanto piuttosto per sottolineare un aspetto della sua personalità, sempre disponibile e aperta al dialogo, pronta a cogliere con semplicità le potenzialità dell’altro, mai altera. C’è una circostanza apparentemente marginale riportata nel libro da cui si evince tale aspetto: «Ad una giornalista della BBC inglese che nel 1955, nel prendere accordi per intervistarla sulla mostra di Ettore Colla a Londra, le scriveva “Dear Princess”, Topazia aveva risposto in una lettera “please do not call me princess, the title does not belong to me (la prego di non chiamarmi principessa, il titolo non mi appartiene)”».
All’opposto della triste morale gattopardesca, Topazia, che per nascita a quel mondo apparteneva, ha sempre agito affinché il nuovo si affermasse contro ogni forma di oscurantismo, dietro il quale si nascondono sempre la sopraffazione e l’inganno.

 

Topazia Alliata con Emilio Villa, Rieti, 2002. Foto Nour Shems Melehi (per gentile concessione)
Topazia Alliata con Emilio Villa, Rieti, 2002. Foto Nour Shems Melehi (per gentile concessione)

 

TOPAZIA ALLIATA IN UNA TESTIMONIANZA DI ELIO MARCHEGIANI

Per un ricordo di Giuseppe Chiari*
Nei primi anni Sessanta e con la nascita del Gruppo 70 ho iniziato la mia frequentazione con Firenze e gli Artisti che vi operavano. Con la mia appartenenza al Gruppo nel 1965 conobbi Giuseppe Chiari. Nacque un’affettuosa amicizia consolidata dalla stima reciproca. Ricordo sempre la sua “performance” alla Casa della Cultura di Livorno, da me proposta al Comune, dove, presenti decine di portuali, ho rischiato il linciaggio: ero io la causa di quel così poco accettato e capito evento.
Un giorno di quello stesso anno, guardandomi negli occhi, con i suoi capelli alla Chopin e il pallore del viso mi disse: «Ma noi cosa ci stiamo a fare con questi (si riferiva al Gruppo 70, ma soprattutto ad Antonio Bueno facente parte anch’egli del Gruppo). Noi domani partiamo per Roma. So io dove andare».
Il giorno dopo, con la mia Ford, provenendo da Livorno dove abitavo, passai a prenderlo a Firenze, iniziando un viaggio sull’Aurelia durato oltre sei ore. Soffriva il mal d’auto e ogni pochi chilometri dovevamo fermarci. Nel suo pallore sempre più mi ricordava Chopin o meglio quell’immagine chopiniana che io mi ero creato in testa.
Arrivati a Roma mi guidò in Piazza San Calisto al n. 9 di Trastevere. Scese di macchina, entrò nel portone, suonò alla porta a piano terra, la targa portava il nome Alliata.
Nessuno aprì. Beppe si chinò, alzò lo stuoino, prese una chiave, aprì la porta. Entrammo. Mi fu subito chiaro che conosceva benissimo la casa. Si diresse in cucina. C’era sul fuoco una pentola con dentro una zuppa di fagioli da riscaldare. Mi disse: Topazia quando esce lascia sempre una pentola sul fuoco per gli amici che sanno come entrare.
Dopo poco si aprì la porta ed apparve lei, Topazia Alliata, la principessa anche madre di Dacia Maraini. Bellissima già nei suoi anni, ma ancora bellissima. Abbracciò Chiari e volle sapere tutto di me. Scoprii che era un talent scout di molti artisti: quelli di Piazza del Popolo, quelli dei “favolosi anni Sessanta”. Tra questi mi presenterà la sera stessa Pino Pascali, quello che lei reputava, dopo aver visto il mio lavoro in foto, il più affine a me. Era vero. Con Pino ho avuto un ottimo rapporto ed anche qualche mese di studio insieme.
Ho così seguitato le mie frequentazioni romane con Chiari nel Circolo di Nuova Consonanza, da Vittorio Gelmetti a Carmelo Bene a Silvano Bussotti a John Cage. Topazia ha voluto il mio incontro con Maurizio Fagiolo Dell’Arco, Gaspero Del Corso e Irene Brin della Galleria L’Obelisco, provocando così il mio trasferimento nella Capitale con il distacco da Livorno e da un provincialismo che male vivevo. Tutto a causa di Beppe Chiari al quale andrà sempre la mia riconoscenza, con la consapevolezza del grande valore della sua opera eccezionalmente innovativa nelle avanguardie, degna di sempre maggiore riconoscimento, quello che si deve ad un veramente Grande.

* Elio Marchegiani, “Per un ricordo di Giuseppe Chiari”, in Viva Chiari!, catalogo, Fabiani Arte, Montecatini, dicembre 2007

Arte e Critica, n. 97-98, primavera – estate 2023, pp. 10-16.

Roberto Lambarelli
Roberto Lambarelli
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