Un’opera nell’opera nell’opera nell’opera nell’opera… su un pavimento di cera rossa. Coerente e spiazzante l’intervento recente di Francesco Arena nello spazio difficile ma duttile della Fondazione Nicola Del Roscio, a Roma. Ci sono delle costanti operative, e di poetica, che possiamo riconoscere al primo sguardo. Per esempio la scelta di confrontarsi in modo esplicito e determinato, ma anche molto misurato, con il contenitore espositivo, un grande spazio in cui la ritmica strutturale del calcestruzzo si impone in maniera categorica. L’artista ha scelto di inserirvisi mediante la geometria netta di un parallelepipedo che ha impostato sulla diagonale, a spezzare, evidentemente, l’incalzare parallelo delle travi, e l’ha proporzionato utilizzando tutta l’altezza disponibile, facendo attenzione a trattarlo con lo stesso colore dell’intonaco circostante. Uno scrigno bianco, silenzioso e possente si incastona così nel vivo di un vuoto ingombrante, riuscendo ad affermare una relazione paritaria. La forza misurata del parallelepipedo compensa infatti quella apparentemente ingovernabile dello spazio espositivo, definendo la possibilità di un equilibrio dinamico, dialogico. Non c’è sopraffazione, non c’è revanche. E non c’è stasi. C’è il dispiegamento di una visione del mondo che parte dalla lettura del luogo e dalla scelta di come volerlo abitare.
All’indeterminatezza di un grande volume seminterrato che permette solo di immaginare le soluzioni architettoniche sviluppate nei piani superiori, Arena risponde con la costruzione di un ambiente domestico, riproponendo in scala 1:1 l’esatta configurazione della Hütte di Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta Nera. La rende praticabile, la solleva da terra e la pavimenta in legno, ma vi stende sopra uno strato di cera rossa, quella che si usa per le fusioni in bronzo, e vi imprime sulla superficie, per circa duecento volte, il calco della fibra lignea di un’unica asse, come a voler sottolineare l’impalcatura concettuale sulla quale poggia il tutto.
È una casa percorribile, dunque, ma la cera ci avverte che non ci stiamo muovendo solo su un piano referenziale/memoriale e che la nostra deambulazione, per quanto fisica, per quanto leggibile come componente estetica di uno specifico modo di intendere la scultura (che in mostra viene proposta sia in quanto spazio agito sia sotto forma di corpi specchianti, che accolgono e riflettono), è soprattutto una deambulazione mentale, è invito a un tavolo di riflessioni tutt’altro che agevoli.
La meccanica espositiva, nel suo complesso, si snoda lungo un percorso di progressivo svelamento costellato di indizi. Prima ancora di accorgerci che il parallelepipedo è abitabile, ci imbattiamo, ad esempio, in una maniglia modernista in bronzo collocata su una delle sue pareti esterne, quella rivolta verso l’ingresso della mostra, che accoglie chi entra. Potrebbe risultare un semplice gioco di détournement la maniglia posizionata su un muro che ogni tanto si muove lasciando immaginare che ci sia qualcuno dall’altra parte ad azionarla, se non fosse che quella maniglia, insieme a un’altra che ritroviamo all’interno della Hütte – anch’essa azionata automaticamente su un muro cieco e quindi potremmo dire “celibe” – riproduce un serramento che Wittgenstein disegnò per la casa di sua sorella a Vienna con l’ausilio dell’architetto Paul Engelmann. Le due maniglie e Wittgenstein entrano dunque in un campo di stretta relazione semantica con Heidegger e il suo rifugio.
È interessante annotare che l’architetto Engelmann, che fu allievo di Loos, oltre a progettare Casa Wittgenstein, fu anche intimo amico del filosofo austriaco e le conversazioni che i due ebbero a Olmütz si rivelarono particolarmente significative per la messa a fuoco delle idee che poi confluirono nel Tractatus Logico-Philosophicus. Risulta inoltre che Margaret Stonborough-Wittgenstein insieme a Engelmann avesse coinvolto anche suo fratello Ludwig nella realizzazione della propria casa, probabilmente per aiutarlo a superare una grave condizione di stress derivatagli dal suo lavoro di maestro elementare. Così accadde che Wittgenstein, mentre contribuiva alla progettazione di volumi e funzioni, si applicasse anche a disegnare con entusiasmo serramenti, interruttori, prese, radiatori… Ora, attenzione, gli aneddoti non costituiscono il terreno elettivo della pratica di Arena. Tutt’altro. Quindi non è certo per un vezzo narrativo, e tantomeno per assecondare una curiosità di tipo dandistico, che il catalogo di questa mostra si apre con un primo piano di una delle due maniglie esposte, seguito subito dopo dalla riproduzione di un lavoro di Joseph Kosuth del 1991 dedicato proprio al termosifone di Casa Wittgenstein (Wittgenstein’s Radiator, realizzato per Memphis) e da una fotografia dei due serramenti progettati da Wittgenstein montati su una porta che, inquadrata di profilo, suddivide in due parti il campo visivo, tra la luce e il buio.
Wittgenstein, Engelmann, Kosuth nella baita di Heidegger.

Bisogna aggiungere che anche Wittgenstein si rifugiò spesso, per riflettere e per scrivere, in una capanna di legno che si fece costruire in Norvegia, su un fiordo. È lì che maturò il suo Tractatus. Arena gli ha dedicato una mostra nel 2014, in un gioco di rimbalzi proiettivi tra le misure del perimetro dello studio/capanna di Wittgenstein e il proprio studio nelle Murge.
Individuate queste prime poche mosse, già decisamente impegnative, si potrebbe ragionare a lungo. Insieme alla questione centrale del rapporto studio-spazio-pensiero-linguaggio, infatti, troviamo implicati il problema filosofico della logica, quello del rapporto tra le discipline, il tema della relazione con i maestri, quello degli strumenti e dei supporti, del significato del progetto, e parallelamente entra in campo, poderosa, la dimensione delle relazioni affettive e degli scambi intellettuali. Questioni che assumono forme via via più esplicite all’interno della baita, mentre ci si muove dentro una tanto astratta quanto fisica restituzione dello spazio privatissimo e remoto in cui una delle figure più influenti e controverse del Novecento ha steso pagine fondamentali per la filosofia novecentesca, la casa/rifugio di un pensatore che ha massimamente valorizzato la dimensione domestica come strategia difensiva dallo sradicamento, dallo straniamento, dall’alienazione, come condizione in cui ritrovarsi, radicarsi, riappaesarsi, reincantarsi del mondo.1 La casa come possibile luogo dell’autentico. Senza bisogno di forzare troppo potremmo probabilmente anche dire: l’opera/casa come luogo di ricerca dell’autentico, come antidoto alla perdita di sé nel mondo, come supporto e difesa rispetto al vuoto e all’ignoto potrebbe dire Arena.
E se prestiamo attenzione al fatto che il titolo della mostra è costituito dalla frase che Heidegger, citando Eraclito, aveva posto sopra l’ingresso della sua Hütte, «Il fulmine governa ogni cosa», diventa chiaro che alla radice del ragionamento espositivo c’è quell’Essere e tempo che il filosofo tedesco scrisse proprio in questa dimora di legno immersa nella natura. La foto che nella terza pagina del catalogo ritrae il profilo di una porta che separa nettamente la luce dal buio, aperta dalle maniglie di Wittgenstein, fa parte quindi anch’essa di un ragionamento sul tempo e sulla condizione dell’esistere che parte proprio dalla metafora del fulmine che rischiara all’improvviso il buio che lo precede e il buio che lo seguirà.

Muovendoci tra le piccole stanze della casa, incontriamo delle sculture in bronzo che come forme metonimiche rimandano a figure distanti che Arena riunisce nella piccola Hütte isolata di Heidegger intorno a uno stesso impalpabile ma complesso e coraggioso tavolo di lavoro: Jean-Paul Marat, Cy Twombly, Glenn Gould. Alcuni oggetti simbolici parlano per loro. La cassetta/scrittoio che possiamo prendere a simbolo del Marat che “scrisse” la rivoluzione sulle pagine del suo «L’Amis du peuple», con il corpo a bagno nell’acqua per lenire i dolori della malattia; la sedia ribassata di Gould, realizzatagli dal padre per permettergli di assumere la postura più congeniale alla sua tecnica pianistica; la grande cintura di un Twombly anziano che, dal racconto di Nicola Del Roscio, riesce ancora a dipingere i grandi formati perché generosamente sorretto dal suo assistente Viorel Grasu, che gli permette di non preoccuparsi del peso e della gravità ma solo del movimento da imprimere al pennello. Poi c’è un cartello da manifestazione posto a terra, specchiante nel suo pannello vuoto ancora da scrivere, o probabilmente sempre da riscrivere. È un flashback sul passato ma anche uno squarcio sull’oggi, ci appartiene come diritto e come esperienza, e la candela che vi campeggia sopra, così cara all’arte del passato per il suo portato polisemico, ne problematizza e ne ispessisce la lettura. (A maggior ragione quando in catalogo Arena accosta a quest’opera il nome di Elias Canetti, sottintendendo probabilmente il suo Massa e potere).
Se non possiamo conoscere le ragioni più intime che hanno portato alla scelta di queste figure, possiamo però forse leggerle dall’angolazione di quel Solitude is Moltitude is Solitude is Moltitude che l’artista ha inciso sulla cinta nera in bronzo patinato, appesa e rotante, che rimanda al grande Twombly, figura che aleggia nello spazio della Fondazione come una sorta di nume tutelare, e che all’interno della mostra sembrerebbe avere il ruolo di ricondurre al regime dell’arte i molteplici spunti di riflessione che si intersecano tra le stanze. Le foto che lo ritraggono nel catalogo ci offrono due differenti suggestioni: alcune lo riprendono da solo, meditativo nel silenzio dello studio, quasi a evocare l’opera come spazio problematico del pensiero; altre lo restituiscono intento nella pratica pittorica, fino a tarda età, fisicamente coinvolto dalla potenza del fare. Due condizioni in cui sembrerebbe di poter riconoscere l’autentica dimensione di un esserci. A questo proposito non mi sembra da sottovalutare il fatto che, sempre in catalogo, Arena documenti con diversi scatti la processualità tradizionale e artigianale della fusione in bronzo a cera persa, capace di tenere insieme materie, gesti ed esiti che testimoniano le molteplici temporalità di cui si sostanzia l’opera d’arte, prodotto fenomenico di un susseguirsi di azioni e al contempo grumo simbolico che ambisce ad attraversare i millenni.
Ci troviamo dunque nel vivo di un rendez-vous inatteso, con presenze che alimentano un contraddittorio vasto, sicuramente scomodo, e nel contesto drammatico in cui ci ritroviamo oggi, certamente urgente. Siamo chiamati a partecipare, non siamo solo spettatori. La cera rossa, morbida, che connota brillantemente questa imponente opera-mostra, assume infatti su di sé, inevitabilmente, le tracce se non delle nostre scarpe – perché Arena ci obbliga a indossare grandi pattine di stoffa – sicuramente del peso dei nostri corpi. Siamo invitati a confrontarci a quello stesso tavolo di lavoro in absentia, dinamico, scottante, metamorfico (come la cera, come il bronzo, che specchiando l’intorno rende mutevole l’ambiente, come il giornale sulla spalliera della sedia di Gould, che viene sostituito ogni giorno), ma volutamente, e forse provocatoriamente improntato a una complicata coesistenza dialogica: Heidegger, Wittgenstein, Canetti, Marat… ma anche Gould e Twombly, la risposta degli artisti.
Sole nei loro studi/rifugi, sole nelle loro battaglie, sole con le loro acute speculazioni filosofiche, sole nel fare i conti con le proprie singolarità creatrici, le figure messe in gioco sono, di contro, connesse con la totalità del mondo. Solitude is Moltitude. D’altronde l’artista lo ha ribadito di recente anche nell’Aedicula di Raffaella Cortese ad Albisola Superiore con Lo Starec, un’opera che nell’omaggiare la figura dell’eremita anziano della tradizione ortodossa russa, ribadisce nell’incisione apposta su una scala di rame le parole proferite dallo Starec Zosima ne I fratelli Karamazov: «separato da tutti, è unito a tutti».
Nel riportare alla nostra attenzione questa serie di figure nella Hütte heideggeriana e nel rimettere all’ordine del giorno i contenuti di cui esse sono portatrici, l’artista mette in campo di fatto un piccolo circolo ermeneutico. D’altronde l’arte – sostiene Arena – così come la letteratura, la politica, la filosofia, la magia e la religione, non smette di assumersi il compito di supporto per organizzare il mondo, la società, il vivere civile e difenderci dal vuoto e dall’ignoto.2 Il supporto rimane il protagonista esplicito della Hütte dal pavimento rosso.
Arte e Critica, n. 99, inverno – primavera 2023/2024, pp. 43-45.
1. Di «nuovo appaesamento» e di «reincantamento del mondo» parla in catalogo Federico Vercellone in un intervento all’interno della conversazione intitolata “Multitude is Solitude is Multitude. L’impossibilità di bastare a sé stessi”, in Francesco Arena, Il fulmine governa ogni cosa, a cura di Carlotta Spinelli e Davide Pellicciari, catalogo della mostra, Fondazione Del Roscio, Roma, 2023, Lenz Press, 2024, p. 85.
2. Ivi, p. 93.