Un Grand Tour contemporaneo alla scoperta dell’arte italiana attuale

“Grazie per aver accettato! Non era scontato, con la tua nomina così fresca.”

“Quando mi ricapitava di conoscere trenta artisti italiani? Conoscere gli artisti è la cosa più importante del nostro lavoro.”

È la sera dell’11 novembre 2019, all’osteria San Carlino di Bologna, e chi parla è Sandra Patron, neodirettrice al CAPC di Bordeaux.
Qualche giorno dopo Teresa Riccardi, direttrice del Museo Sívori di Buenos Aires, si congratula invece per una qualità che non si aspettava, mentre Raija Koli, direttrice del Frame Contemporary Art Finland di Helsinki, inizialmente silenziosa e più titubante degli altri, l’ultimo giorno confessa:

“Non avevo esattamente capito perché mi aveste invitata, solo ora mi è chiaro. È stata un’occasione unica che mi ha aperto gli occhi su una ricerca artistica che non conoscevo per niente.”

Sandra, Teresa e Raija sono solo tre dei dieci ospiti internazionali coinvolti nella terza edizione del Grand Tour d’Italie, un programma di networking ideato dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea (DGCC) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (MiBACT), affidato nel 2019 a NOS Visual Arts Production (soggetto di produzione dell’Associazione Nosadella.due di cui Elisa Del Prete e Silvia Litardi, che scrivono, sono fondatrici).
Gli altri, di cui abbiamo raccolto qui solo alcuni pareri, sono stati Öykü Özsoy, curatrice all’Istanbul Modern, Lloyd-Anthony Smith della Fondazione sudafricana Nirox nelle vicinanze di Johannesburg, Anton Lederer, storico co-fondatore di Rotor a Graz, Anna Lovecchio, curatrice al CCA della NTU (Università Tecnologica Nanyang) di Singapore, Vitalija Jasaitė, vicedirettrice della residenza Rupert di Vilnius, Golnoosh Heshmati, curatrice della piattaforma indipendente di Teheran Sazmanab e Jürgen Bock, direttore di Maumaus a Lisbona, che, sfortunatamente, si è ammalato il giorno prima di partire.
In generale, ci hanno confidato, non si aspettavano di trovare tanta varietà, estetica e di ricerca, e tale professionalità. E questo ci ha fatto riflettere su alcuni punti.
Primo. Si è trattato di un networking a porte chiuse che aziende e industria cinematografica fanno con consuetudine in occasione di fiere e biennali, di un momento di confronto serrato sul lavoro artistico sotto lo sguardo e il giudizio di professionisti esteri, raro nell’ambito del sistema dell’arte contemporanea che, invece, pare proprio averne bisogno.
Secondo. È chiaro che il cambio generazionale che ha iniziato a riguardare artisti (e curatori) oggi quarantenni (fino ai più giovani naturalmente) vede una svolta verso un grado sempre maggiore di professionalizzazione.
Terzo. L’arte sta evidentemente andando controtendenza, mostrando come la “competenza” e la “professionalità” siano valori reali di cui necessita.
Alterazioni Video, Andreco, Sara Basta, Angelo Bellobono, Riccardo Benassi, Carola Bonfili, Simone Cametti, Chiara Camoni, Canecapovolto, David Casini, Federico Cavallini, Giulia Cenci, Luca Coclite, Davide D’Elia, Maria Adele Del Vecchio, Roberto Fassone, Flavio Favelli, Giovanni Giaretta, Grossi Maglioni, Valentina Medda, Jacopo Miliani, Giovanni Ozzola, Mattia Pajè, Luana Perilli, Mariagrazia Pontorno, Anna Raimondo, Ivana Spinelli, Sasha Vinci, Giacomo Zaganelli, Virginia Zanetti.
Ecco gli artisti selezionati, trenta in totale, di varie età e provenienze geografiche, molti “basati” fuori dalle rotte principali dell’arte, lontani da ferrovie e aeroporti. Rappresentanti di una scena artistica eterogenea, sfaccettata, esplorativa e sperimentale, hanno condiviso visioni uniche, con parole proprie, mostrandoci come l’arte riesca a ricavarsi un margine per dire, uno spazio di possibilità, con un’autorità in grado di tenerci vigili. 
Con Grand Tour d’Italie 2019 la premessa sostanziale del Grand Tour come viaggio di scoperta erudita verso il Bel Paese si conserva e attualizza secondo il principio che il confronto intellettuale sulle questioni che animano l’oggi sia insostituibile per una cultura del dialogo e della condivisione in cui lo sguardo dell’altro su un preciso contesto culturale può rilevare evidenze preziose altrimenti irrintracciabili.
Il format adottato è stato quello di un programma di presentazioni dei singoli artisti presso le due sedi istituzionali individuate nel percorso del Grand Tour, quali il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna e l’Accademia di Belle Arti a L’Aquila. Un artista ogni 40 minuti, per un totale di 5-8 artisti al giorno, secondo uno schema di dialogo frontale, che ha tolto al programma l’informalità tipica della studio visit alimentando, al contrario, un grado di concentrazione altissima.
Dopo le prime due giornate ci siamo trovati immersi in un flusso che ci ha completamente rapiti, isolati, assuefatti; un flusso multilinguistico che ci ha frullato e poi spazzolato il pensiero rendendolo al tempo stesso estremamente lucido. Man mano che gli artisti si succedevano, il ritmo si armonizzava, incalzavano le domande, si discutevano corrispondenze.
A posteriori abbiamo riflettuto sul fatto che questa dimensione di “straripamento” in cui ci siamo ritrovati alla fine del quinto giorno altro non era che la condizione cui la contemporaneità ci immerge ogni giorno. Ogni giorno pratichiamo inconsapevolmente esercizi di traduzione. Immersi in un flusso incalcolabile di linguaggi ci alleniamo continuamente a saltare da una lingua a un’altra, da un codice a un altro, sperimentando l’aggiornamento del nostro non più biologico DNA al meme di turno. E ci siamo accorte che l’arte cui stiamo di fronte non ne resta estranea, elaborando, invece, risposte, aprendo strade, guidandoci altrove, anche oltre l’arte stessa.
Accomunati da un’epoca che cerca di definire il cambio di paradigma al quale è chiamata per superare un modello socio-economico, ma anche culturale e umano, in crisi, questi artisti offrono un’indagine aperta su quelle che sono possibili reazioni, non più solo estetiche, al nostro tempo.
Oltre ogni confine linguistico o tematico, il campione di artisti che abbiamo scelto si confronta con un presente che chiama in causa una sperimentazione sia linguistica che processuale, con la necessità di mettere in discussione non più, e non solo, l’immagine in sé, ma l’artificio che la origina e le sue possibilità, come le potenzialità della forma, della materia, della tecnologia, delle relazioni.
Figli del postmoderno, abitanti del postumano, questi artisti hanno costruito ognuno un proprio linguaggio, sperimentato tecniche artigiane e nuove tecnologie, coltivato la curiosità oltre la denuncia, l’osservazione oltre la spettacolarizzazione, l’esperienza oltre la scienza.
Quel che li accomuna è il fatto di non riuscire a fermarsi, nella scoperta come nell’indagine, nel guardare dentro di sé come nel porsi a confronto con l’altro.
La propensione, anche laddove appare intimista, è quella di uno sguardo universale, che non fa leva su un apprendimento accademico ma sull’arte come strumento per esplorare i mondi racchiusi nel mondo, e di un pensiero allenato a quel processo continuo di traduzione che la contemporaneità richiede.
Se è vero che viviamo in contesti in cui l’immagine è ormai un falso simulacro privato del suo valore iconico, è proprio qui e ora che l’arte può ricavarsi un suo spazio privilegiato, uno spazio di senso fuori dall’esistente e dalla sua necessità di comprensione. Ogni opera è un universo che resta in parte intraducibile ed è proprio su quell’intraducibilità che poniamo l’attenzione, perché è in quello spazio indeterminato, in quell’interstizio inesplorabile che ci interessa restare, oltre ogni definizione, soluzione, giudizio.
In una contemporaneità in cui viviamo nel terrore di non capire, di restare isolati, in cui vige la fobia dell’informazione, e l’ansia da competenza, in cui il controllo delle nostre privacy e dei nostri desiderata assieme al master di turno ci rassicurano; nell’epoca degli acronimi, delle sigle, di un’accademia anglosassone che definisce ogni fenomeno, delle emozioni sintetizzate in icone, del fiorire dei neologismi, delle conversazioni da manuale, e, peggio, nell’epoca in cui il nostro pubblico, quello “generico”, spesso non sa definire “cosa” è andato a vedere, se una mostra o una performance, una litografia o un quadro, e parla di recita invece che di spettacolo, di galleria dentro un museo; in questa paradossale mancanza di spazio e tempo per esserci, per un’elaborazione personale di un’esperienza, per lo sviluppo di un pensiero critico autonomo, per uno sguardo ignorante, ecco, l’arte resta vigile, risponde per equivoci e sfumature, creando uno spazio di ambiguità non conforme, da “disambiguare”, in cui indaga ciò che resta ai margini della nostra attenzione, nobilitando il rumore, la scoria, l’errore.
Veniamo dunque ai nostri trenta artisti.
Quasi la metà di loro non provengono da un percorso strettamente artistico e anzi si trovano a proprio agio a saltare da un linguaggio a un altro, non solo in termini di medium formale ma proprio in termini di esperienza e esplorazione. Molti di loro non hanno una pratica “meccanica”, ma giungono all’opera finale muovendosi ogni volta tra numerosi passaggi e linguaggi intermedi.
Pensiamo al lavoro di Andreco, al fascino che risiede nel suo provenire dal mondo scientifico, matematico, ingegneristico, dal suo parlarci per schemi, grafici, diagrammi… a come ha conquistato non solo i muri delle nostre città, ma anche le piazze con le sue potenti performance. Grazie alle sue ricerche in ambito accademico, Andreco ha intercettato con intuito matematico un topic sensibile, il climate change (in anni in cui la società civile non era ancora sensibilizzata massivamente) e ha “trasferito” la sua competenza su un piano di elaborazione estetica, ha forgiato un’icona, il suo diamante nero che l’ha reso riconoscibile, quasi volesse subito levare di mezzo la questione formale per concentrarsi sull’impatto umanistico che ha riconosciuto nell’arte rispetto alle evidenze scientifiche.
Non diversamente Davide D’Elia proviene da una formazione di visual designer, ed è imprescindibile per lui approcciarsi a un nuovo lavoro a partire da come potrà essere comunicato, perché la necessità di testare l’efficacia di un’idea dalla sua possibilità di sintesi in un titolo o in un logo, ha strettamente a che fare con impulsi e meccanismi ricettivi che stanno alla base della sua ricerca sulla percezione e sul tempo.
Giacomo Zaganelli opera quasi al pari di un marketing manager, proponendosi come artista, curatore, ricercatore e mettendo in atto non solo visioni artistiche, ma tutta una serie di abilità e linguaggi utili a pensare, testare, realizzare ogni progetto quasi in totale autonomia in contrasto con quello che il lavoro finale, invece, trasmette. Un’opera come N.A.T.P.L.E._Non A Tutti Piace L’Erba, realizzata per Piazza Ghiberti a Firenze nel 2008, letta dal pubblico come intervento promosso dalla città, ricade interamente sulle sue forze, dalla ricerca fondi alla comunicazione: 2000 mq per 50 tonnellate d’erba stese in una sola notte sulla piazza grazie all’aiuto di 40 persone reclutate, oltre ai passanti. Un atto stra-ordinario nello spazio ordinario di una città, per rendere visibile il potenziale di un luogo sottostimato, di cui la maggior parte dei cittadini non saprà mai del tutto l’origine, effimero e temporaneo come l’arte site responsive deve essere, attivando una comunità e seminando un pensiero.
Più volte nelle giornate del Grand Tour ci siamo trovate, da curatrici, a indirizzare l’artista laddove mancava di indicare con precisione una tecnica, una forma finale del lavoro, una dimensione o modalità espositiva dell’opera, prese dalla preoccupazione che gli interlocutori riuscissero a registrare con precisione il dato concreto, anche ai fini di un possibile invito a mostre o progetti futuri.
Ebbene, nessuno dei nostri ospiti internazionali pareva invece preoccuparsene. Più volte, anzi, di fronte alla dichiarazione formale di un lavoro biasimavano la sua chiusura reputando altresì interessante lasciare aperti i meccanismi che guidavano la ricerca. 
Vero è che l’opera è anche (o soprattutto) forma, e di essa parliamo quando ci stiamo davanti. Tuttavia ciò che ci hanno proposto questi artisti è lo stato liminale proprio dell’opera, quel privilegio inespugnabile che viene ingenuamente etichettato come “incomprensibilità”, ma che in realtà coincide con la libertà di muoversi al di fuori di un unico specifico linguaggio definito “artistico”.

“Dal mio punto di vista, le pratiche che mi hanno incuriosito di meno sono quelle inchiodate sulla ripetizione di determinate forme – che cioè tendono a trasformare soluzioni formali in formula (per quanto di successo) – e quelle in cui slancio poetico e afflato cosmico (per quanto sinceri) sono avviluppati in troppa retorica. Ho apprezzato l’inafferrabilità sovversiva di Canecapovolto; la relazionalità ironica di Grossi Maglioni; il tormento plastico di Giulia Cenci; la sofisticata concisione di Riccardo Benassi; l’irriverenza esplosiva di Alterazioni Video. E potrei continuare…”  (Anna Lovecchio)

L’ultimo giorno bolognese Alessandro Aiello del collettivo siciliano Canecapovolto ha preso un aereo da Catania per arrivare direttamente al museo. Lo abbiamo aspettato quasi un’ora, un freno a mano in un palinsesto scandito al minuto. Munito di un vecchio campionatore cecoslovacco, un sintetizzatore FM e un’amica che gli presta l’amplificatore portatile, arriva senza affanno né preoccupazione, nessuna parola d’inglese, e impiega 15 minuti per montare l’attrezzatura prima degli ultimi 15 a sua disposizione in cui, facendo scorrere alle sue spalle uno slideshow di collage, improvvisa suono puro, che a tratti diventa rumore. La platea è disorientata, alcuni chiudono gli occhi in uno stato di assoluto piacere, altri glieli tengono inchiodati addosso per osservare le sue azioni. Alessandro non ha alcuna intenzione di presentare il lavoro (nonostante le nostre ripetute avvertenze), ma non per arroganza o ribellione, bensì per onestà. Per lui l’occasione è quella di condividere il proprio lavoro, di farci procedere insieme a lui dall’opera stessa, il grido di una sperimentazione urgente che rivendica il desiderio di riconfigurare aspettative e assuefazione tecnologica.
Il giorno prima era stato il turno di Anna Raimondo, che aveva richiesto l’uso di un microfono.
L’artista ha interdetto agli ospiti la “prima impressione” lasciando presente solo l’ascolto della sua voce, mentre il suo corpo restava nascosto.

“La presentazione performativa di Anna Raimondo mi ha sorpreso. Poi ho ritrovato la stessa forza anche nel lavoro. La sua capacità di interagire col pubblico rendendo comprensibili e udibili i suoi punti di vista critici. In questo modo, il contesto del suo lavoro diventa unico proprio grazie alle sue parole posizionandosi come arte radiofonica, sound art e performance. Quel che ho amato di più della sua pratica è stato il modo in cui riesce ad essere anche socialmente impegnata.” (Golnoosh Heshmati)

Tutto il lavoro di Anna Raimondo ruota attorno all’elemento vocale, di cui esplora sia il livello simbolico che quello relazionale: la voce è quel suono che differenzia ognuno di noi definendo un’identità precisa, ma è anche condizione di ascolto, tra persone e tra persone e ambiente circostante. In tal senso dal proprio corpo l’attenzione si sposta a ogni corpo parlandoci di un corpo sociale, bacino di confluenza di esperienze, narrazioni, discorsi che insieme costituiscono un’appartenenza. La voce è linguaggio, uno spazio tra l’opera e chi la fruisce denso di significati, un testo che diventa con-testo.
A un corpo politico ci ha introdotto la ricerca di Ivana Spinelli che in un progetto come Minimum, ampiamente discusso nella sua complessità, pone l’accento su un corpo divenuto unità di misura delle norme che regolano le condizioni di lavoro dell’industria mondiale del Made in Italy.
Mentre nel lavoro di Valentina Medda il corpo spesso diventa un supporto, al pari di una tela o dell’armatura di una scultura. Nel progetto Untitled ha mappato le crepe urbane dei muri delle città in cui ha vissuto per poi farne un catalogo di tatuaggi, che ha poi messo a disposizione di alcuni tatuatori per imprimerli sui corpi dei loro clienti. Sancito un patto di metaforica reciprocità tra pelle e muro, entrambi membrane vitali e superfici stratificate, i corpi tatuati costituiscono i nodi di una rete su cui si inscrive il discorso messo in atto dall’artista.

“In Argentina la figura della crepa viene ri-significata non solo come una linea sul muro che ci divide o che segna un dramma, ma come un marchio ‘tatuato’ indelebilmente. In America Latina è l’immagine delle divisioni tra guide neoliberiste e progressismo, ma in realtà anche l’architettura e l’ambiente urbano sono sempre stati fonte di ispirazione per artisti argentini, penso a Jorge Macchi o Pablo Siquier, per citarne alcuni, e naturalmente all’intervento di Doris Salcedo alla Tate.” (Teresa Riccardi)

Il corpo che ci viene presentato è dunque un luogo attivo, che accoglie e reagisce, impara e riflette, costruendo rituali e narrazioni, e al tempo stesso affermando la sua essenza di unità di misura del mondo.
Partito anch’esso da una ricerca strettamente legata alla performance, il duo Grossi Maglioni ripensa oggi il corpo anche nel contesto di una comunità più ampia, familiare, civica, umana, fino a investirlo di una presenza contagiosa in grado di creare un’agorà, come nel progetto Occupazioni, dove la presenza delle artiste, entrando in dialogo con l’architettura di luoghi privati o pubblici, ne diventa segno attivatore e aggregatore.
È spesso la pratica laboratoriale ad accompagnare queste ricerche, come processo di indagine di una moltitudine. E se da un lato ci pare che il corpo venga trattato come luogo di inscrizione di un’esperienza che, necessariamente personale, funge da attivatore di un corpo collettivo, dall’altro, con un effetto elastico, è nella condivisione che riconosce una propria identità.
Non distante, un lavoro come quello di Sara Basta, che si sviluppa principalmente tramite azioni laboratoriali e partecipate, mette in scena proprio il valore dell’incontro, del rotolare il proprio bagaglio fin dove s’intravede quello dell’altro. Il suo è un lavoro sul potenziale, che a partire da elementi strettamente quotidiani e comuni, mescola provenienze, generazioni, generi, in un discorso che si protrae nel tempo senza un obiettivo di partenza fino a concludersi in modalità non prevedibili.
Il corpo di queste artiste non è più soltanto un corpo femminile, ma un corpo che fa tesoro di ciò che ha in dote in un processo di costante ripensamento e riconfigurazione del singolo come parte di un corpo sociale.
Dal laboratorio, all’azione condivisa, all’intervento in strada fino al tatuaggio, si tratta di ricerche che investigano necessariamente anche la relazione con l’altro in quanto pubblico mettendone in discussione la categoria stessa.
Non diversamente un lavoro come quello di Roberto Fassone si rivolge al pubblico in modo diretto adottando una modalità ludica, ammaliatrice, che accorcia le distanze ponendosi subito in relazione e includendolo nella condizione di prossimità; laddove, invece, Simone Cametti usa il proprio corpo come una pellicola su cui imprimere esperienze estreme che non contemplano alcun pubblico in presenza, ma che a distanza aprono questioni di interesse collettivo. 
Nel lavoro di Jacopo Miliani l’intrecciarsi tra parola, gesto e spazio dà vita a performance (live o video) in cui il corpo è la sua materia prima di creazione al pari di un lavoro scultoreo che forgia un oggetto. Facendo delle tematiche queer e gay (e soprattutto dello scarso pensiero critico in materia in Italia) un punto saliente della sua ricerca, l’artista riposiziona il pubblico come spettatore mettendolo davanti a corpi insoliti, che agiscono in modalità o contesti spiazzanti con un’estetica precisa e accattivante, che fa scattare l’innato voyerismo. Non a caso la ricerca sul linguaggio è per lui centrale, tanto da avviare nel 2014 SelfPleasurePublishing, un suo progetto editoriale in cui la relazione tra testo e immagine è protagonista.
Sono diversi gli artisti che abbiamo visto intrecciare la loro pratica alla scrittura, al punto  da chiederci se non si tratti di una risposta alla tanto reclamata mancanza di un’indagine critica (da parte dei curatori) che supporti la complessità del discorso storico-artistico attuale.
Daily Desiderio di Riccardo Benassi è una raccolta di testi “infiniti” (fino alla morte dell’artista) di cui non sappiamo esattamente la provenienza, intrappolati nel display di un pannello informativo a LED permanentemente installato in un parco residenziale. Così come Morestalgia è una tenda di led (di una tecnologia unica al mondo nonostante le semplici apparenze) attraverso cui il pubblico penetra un’immagine virtuale bagnato dalla pioggia di un discorso espressamente elaborato dall’artista sulla base degli effetti nostalgici che genera: “morestalgia” è infatti quel sentimento di nostalgia al tempo dei social, quando a mancare non sono luoghi o persone realmente vissuti o conosciuti, ma è l’esperienza reale di quei contatti sostituiti da simulacri virtuali.
Sono molti gli artisti che stanno indagando fenomenologicamente le potenzialità e gli effetti delle tecnologie, come stiano cambiando le nostre relazioni col mondo, alterando la percezione della realtà, influenzando le nostre scelte e i nostri consumi e portando altrove pensiero e immaginario.
Il collettivo Alterazioni Video spinge la tecnologia verso la realtà e viceversa, riuscendo a raccontare mondi sempre al limite del credibile.

“Ho apprezzato molto la sintesi tra ‘ricerca ed estetica’ del collettivo Alterazioni Video, oltre alla propensione primordiale all’avventura che va di pari passo a una sperimentazione assolutamente innovativa in grado di illustrare il mondo più di ogni altro discorso. E ho immediatamente immaginato gli incredibili filmati e le storie che sarebbero in grado di creare sul Sudafrica.” (Lloyd-Anthony Smith)

Non diversamente Giovanni Giaretta gioca sugli equivoci della lingua e della mente utilizzando la tecnologia per raccontare il retaggio di una generazione passata come per costruire scenari verosimili che vanno di pari passo a una realtà assai più incredibile.
Carola Bonfili da oltre due anni lavora sugli scritti di Franz Kafka traendone ispirazione per un ciclo di opere che spaziano tra sculture, performance, video e realtà virtuale in cui prende vita un mondo parallelo cui siamo tentati di credere.
Tutti loro, tra altri, si astengono da un’estetica strettamente hi-tech producendo opere dal sapore quasi rétro o comunque artigianale. Tecnologia e digitale sembrano condurre queste ricerche verso un approccio ucronico e distopico che, sotto il revival stilistico degli anni ’90, rinnova una domanda di “futuribilità” in cui gli artisti prendono le distanze da una tecnologia fine a se stessa (pur avendone però studiato quasi da scienziati le possibilità per portarla al massimo delle sue potenzialità in un modo che però resta sottinteso), adottando invece una fantascienza che puzza di cantina e manufatto, che non spinge oltre l’immaginario robot ma che, anzi, con un nostalgico sguardo al reale, si diverte a pensare a come sarebbe andata se…
Portata in ambito più strettamente scultoreo, questa attitudine nostalgica dai toni però appassionati, a nostro parere, pur senza voler definire un’appartenenza geografica a tutti i costi, dice molto di una storia e cultura italiana, sempre banalmente in lotta tra tradizione e innovazione.
In questo corto circuito risiede il lavoro di David Casini quando inserisce pellicole di cellulari o iPad per allocare paesaggi reali all’interno dei suoi fantasmatici modelli museali “in scatola”, prodotti tramite materiali vivi, legno, pietra, metallo che lavora quasi solo artigianalmente. Come anche la ricerca ossessiva che Federico Cavallini fa sullo scarto nei suoi deperibili “Merzbau”, ben lontana (apparentemente) dalla retorica di una società responsabile, ne investiga piuttosto le potenzialità estetiche, rivendicando un diritto all’esistenza del rifiuto, uno spazio per rendere nobile l’ignobile, per collezionare e finanche ri-creare ciò che la società dimentica di aver prodotto.
E su una deriva affine incontriamo idealmente anche la ricerca di Giulia Cenci e il suo operare sistematico con la materia residuale per dar forma a sculture perverse che, installate in un ambiente, narrano uno scenario apocalittico di esseri amputati.

“Trovo che le opere di questi artisti rispondano in modo diretto a una situazione precisa e a un habitat locale cui l’artista appartiene, attraverso però la capacità di rispondere a una posizione più ampia e globale. Come accade per molti artisti iraniani contemporanei, di cui molti ormai vivono in paesi diversi dalla loro città natale, questa coesistenza di contesto locale e globale è diventato un punto di forza nelle loro opere, e ho ritrovato lo stesso in quegli artisti italiani che non vivono più in Italia.” (Golnoosh Heshmati)

“Trovo interessante come diversi artisti si cimentino nella rappresentazione dell’immaginario del Mediterraneo. Stabilendo linguaggi critici attuali e radicali, lontani da uno sguardo turistico, alcuni di loro allertano e mappano senza segni paternalistici o coloniali i drammi del Mediterraneo, dei migranti e della popolazione che abitano questi territori dentro e fuori l’Italia.” (Teresa Riccardi)

E lo scambio coi nostri ospiti continua. Abbiamo appoggiato qui appunti e riflessioni che ci sembrava importante condividere dopo questa esperienza a porte chiuse così preziosa, perché a noi pare che, in questo momento in cui si analizza la crisi del soggetto, l’artista sia oggi invece un soggetto pieno e autonomo proprio grazie al lavoro che produce (l’opera-oggetto) in cui proietta se stesso nel mondo.
Oggi, 16 marzo 2020, trascorsi quattro mesi dal Grand Tour d’Italie 2019, mentre chiudiamo questo scritto, viviamo le misure straordinarie su tutto il territorio nazionale per contrastare il contagio da Covid-19: solo per quel che più strettamente ci riguarda, musei e teatri sono chiusi, fiere e manifestazioni culturali di calibro internazionale rimandate, voli da e per l’Italia cancellati, Schengen sospeso e indotto turistico in ginocchio. Eppure, sebbene non sia ancora tempo di fare i conti con gli impatti che avrà sul nostro sistema, sappiamo che, a tutte le latitudini, da limitazioni e impedimenti l’uomo ha sempre saputo trovare occasione di rinascita.
Le rotte che si sono disegnate in 5 giorni lo scorso novembre si ri-attiveranno in modalità che ancora non sappiamo, disegnando nuovi dialoghi e collaborazioni… E ora non possiamo non chiudere questo nostro racconto senza ricordare l’emozione per aver conosciuto e fatto viaggiare verso e nel nostro Paese 10 ospiti provenienti da 4 continenti, oltre ai 30 artisti da tutta Italia e Europa, realizzando che oggi quella comunità intellettuale temporanea non avrebbe potuto prender vita.
Proprio ora, che ci troviamo isolate, noi che lavorando nell’arte abbiamo invece scelto di “circondarci”; che siamo ferme a osservare città deserte rinunciando alle rotte esplorative che il nostro lavoro ci regala con costanza; che lo spazio virtuale, per la prima volta in modo così totalizzante, sta forgiando il nostro contesto fisico, relazionale, creativo… restiamo curiose di prender parte al percorso che verrà tracciato, anche dall’arte, da questo smarrimento.

GRAND TOUR D’ITALIE 2019
10 Istituzioni – provenienza: Europa 50%, Asia 30%, America 10%, Africa 10%.
Il 78% degli ospiti internazionali conosceva il progetto Grand Tour d’Italie, ma solo l’11% conosceva la Direzione Generale Creatività Contemporanea e Rigenerazione Urbana del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo e nessuno ricorda di averci mai collaborato. Il 33% di loro era già stato a Bologna, mentre per tutti era la prima visita a L’Aquila.
Degli artisti presentati, il 67% ne conosceva almeno uno.
NOS sta lavorando col 50% di queste istituzioni per portare alcuni degli artisti all’interno di un progetto per la loro programmazione entro il 2022.

Arte e Critica, n. 95, autunno – inverno 2020, pp. 64-75.

Elisa Del Prete e Silvia Litardi
Elisa Del Prete e Silvia Litardi