Scorrendo le tue prime pubblicazioni troviamo nel 1963 un saggio sul Domenichino, nel 1966 uno sul Bernini e nello stesso anno il noto Rapporto ’60. Quali sono i tuoi inizi? Come nasce questo duplice interesse per la storia dell’arte del ’600 e per quella contemporanea?
Quella sul Domenichino era la mia tesi di laurea, fu relatore Giulio Carlo Argan. Ricordo di avere sofferto allora perché i professori, tranne alcuni casi, non spiegavano come studiare, come “usare” la biblioteca. Ma parlerei di un triplice interesse. Per il Seicento, nato ai tempi dell’università e che continua anche ora (sto preparando un librone sulla festa barocca); per l’avanguardia (Balla); per i miei amici pittori, non solo i miei coetanei (Schifano, Pascali e Pistoletto) ma anche per i più anziani (Capogrossi e Dorazio). Per capire il lavoro di Angeli, Festa e Schifano pubblicai il mio primo articolo, Per una figurazione nuovissima, su «Marcatré» di Eugenio Battisti. Negli anni Sessanta si studiava male il Moderno: c’era solo Calvesi che affrontava filologicamente il Futurismo, lo stesso Argan mi vietava di trattare Balla, De Chirico, insomma c’era un clima un po’ provinciale, la paura del fascismo. Direi, per riepilogare, che questi interessi sono evidenziati negli scritti di quegli anni: il lavoro su Bernini, Rapporto ’60 e la ricerca su Balla.
Debbo anche ringraziare Nello Ponente per avermi aperto gli occhi consigliandomi di scrivere sull’«Avanti!»; allora era un giornale incredibile, ti davano diecimila lire ma anche una pagina settimanale dove si poteva scrivere liberamente. Così facendo si concretizzarono i miei interessi..
Soprattutto per i giovani, per i tuoi coetanei…
Certo, quelli che incontravo da Rosati o alle inaugurazioni delle mostre; contemporaneamente però facevo il libro su Capogrossi.
In qualche modo questo era un tentativo di rompere con la tradizione, cioè con Argan che, per esempio, aveva come ricordavi un atteggiamento ostile nei confronti del Futurismo.
Non solo del Futurismo. Aveva un atteggiamento ostile nei confronti della storia del Novecento; per esempio, non capiva perché per studiare Capogrossi bisognasse cercare i cataloghi, consultare i documenti… ed io mi chiedevo perché il metodo usato per l’arte antica non potevo applicarlo all’arte contemporanea.
Mi pare di capire che mentre ancora c’era l’idea che lo storico dell’arte fosse una figura diversa rispetto a quella del critico, da parte tua, verso la metà degli anni Sessanta, ci sia stato il tentativo di riunire i due ruoli in uno.
Di questo me ne sono reso conto dopo. Per tornare ad Argan, quando affrontava gli artisti contemporanei lo faceva da critico, parlava delle cose che gli piacevano e spiegava perché erano socialmente utili. Un anno fece un corso su Paul Klee però non lo spiegò in relazione al suo contesto; partiva per la tangente ed aveva del personaggio una visione in fondo crociana, gli interessava la qualità estetica. A me invece tuttora non interessa il giudizio estetico; certo c’è la passione che nasce dalla bellezza delle cose, della novità, però preferisco capire perché l’artista ha fatto quelle cose.
Leggendo Rapporto ’60 ho avuto la sensazione che ci fosse già un tentativo di sistematizzare ciò che stava avvenendo in quegli anni; non è un libro di critica militante, come potrebbe apparire, è già un libro di storia.
Il libro era nato dagli articoli pubblicati sull’«Avanti!», quello su «Marcatré» e altrove. Era militante l’occasione che aveva dato vita a quegli scritti, l’incontro con gli artisti. Però nella mia testa, parlando di loro, avevo già chiaro come collocarli, c’era una sorta di inscatolamento. Può risultare antipatico a distanza di anni, ma mi sembrava l’unico metodo per fare una storia.
Mentre pubblichi Rapporto ’60 porti avanti i tuoi studi sul Futurismo. Dietro di esso si nascondeva la volontà di ricostruire una tradizione dell’avanguardia?
In particolare dell’avanguardia italiana, cioè gli amici che incontravo tutti i giorni, si chiamassero Capogrossi, Dorazio o Schifano. Ho imparato più nello studio di Mario, nel 1964-’65, che su tutti i libri di storia dell’arte che erano consultabili allora. E poi, tutti abbiamo imparato moltissimo dalle mostre straordinarie che faceva la Bucarelli alla Galleria Nazionale. A Roma nel ’60 vedevamo Malevič e Pollock; allora potevano dare fastidio queste mostre esterofile ma per gli artisti furono importanti perché era il modo per vedere cose diverse da quelle loro.
Questo incontro con l’arte internazionale ha prodotto delle conseguenze a livello di produzione artistica e storiografica?
Io ho un atteggiamento sciovinista (sono peggio dei francesi), però a quelle esperienze mi sono interessato, mi sono occupato di Dada per esempio, sempre in contrasto con Argan (dico questo perché mi sono reso conto da poco tempo che lui era il punto di riferimento del mio lavoro). Lui detestava il Dadaismo, perché rappresentava l’irrazionale e quindi la negazione; non voleva sentir parlare di Man Ray, Duchamp o Picabia, erano il diavolo; eppure, quando capì, mi affidò la voce Dadaismo sull’enciclopedia Treccani, e ha chiamato il suo cane Dada; e scrisse per una collana da me diretta un libro sui Rayographs… Da parte mia, mi sono molto impegnato per far conoscere Dada: ho fatto la prima mostra in Italia di Picabia alla galleria Notizie di Luciano Pistoi (1969) e poi al Museo Civico di Torino (prima che venisse fatta in Francia), di Man Ray al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1974.
Oggi le cose sono cambiate. Allora andavi in un museo e vedendo un quadro di Picabia ti domandavi come mai nessuno si occupava di lui. Si conoscevano appena i quadri meccanici, ma Picabia non è solo quello, faceva dei quadri provocatori con le donne nude, i mostri, usava dei materiali “poveri”.
Questo era un atteggiamento diffuso. Anche Read nella sua Breve storia della pittura moderna non tratta affatto Duchamp, Man Ray e il Dadaismo…
Certo quella era la linea della pittura che si studiava allora. C’erano pochi libri, avevamo a disposizione poche immagini. Per conoscere dovevi viaggiare, era molto stimolante. Con 100.000 lire in tasca si andava in Svizzera o in Francia, con il treno della notte e si potevano scoprire cose incredibili, vedere tutti i quadri che si voleva. A Parigi potevi suonare il campanello del 2 bis, Rue Ferou e ti apriva Man Ray che, lusingato della tua visita, dopo due ore di conversazione ti regalava una fotografia, poi ti portava in una brasserie e ti faceva conoscere i suoi amici che magari erano Marcel Duchamp o Sonia Delaunay… E allora la storia non era la solita (prima viene Cézanne, poi i cubisti, poi i fauves ecc.) ma scoprivi che in mezzo c’era anche il Futurismo e Dada.
D’accordo, ma rimane il fatto che, nel 1966-’67, i primi scritti sul Futurismo, tuoi, di Calvesi e di Crispolti, segnano il tentativo di rinnovare la storia dell’arte moderna, almeno quella che tale era considerata fino a quel momento.
Crispolti aveva già fatto una grande mostra di Balla, ma quando io curai un ciclo di mostre di Balla all’Obelisco, nel 1967-’68, la mia angolazione era diversa. Crispolti lo aveva visto da quando era nato a quando era morto, io cercavo i momenti di vitalità, andavo a cogliere il suo lavoro attraverso gli interessi di Schifano o di Dorazio, degli artisti contemporanei. Insomma, da un certo punto di vista, facevo un lavoro militante…
Guardare il passato attraverso gli occhi del presente…
Sì, è questo. Dagli artisti ho sempre imparato. lo sono uno storico ma conto tra i miei amici molti artisti (oggi Nunzio per esempio): da loro si impara a guardare meglio le cose, a interpretare quello che succede.
I cataloghi delle mostre che hai curato, a partire da quell’Omaggio a Balla, sono particolari, si presentano con un carattere fortemente strutturato con testi e immagini…
Lavoro in modo artigianale, mi occupo personalmente dell’impaginazione, della copertina, ho cercato di creare un sistema di comunicazione fuori dal consueto. Nel catalogo di Picabia è possibile trovare sia tavole cronologiche che didattiche, ed è la stessa cosa che sto facendo adesso con The Italian Metamorphosis, 1943–1968, una mostra che apre l’anno prossimo al Gugghenheim Museum di New York. Ecco mi vengono alla mente altre cose che faccio inconsapevolmente. Da sempre ho cercato di visualizzare con poche parole ma con molte immagini l’attività degli artisti dando grande importanza alla loro vita, a tutto quello che li riguarda, dagli incontri, ai viaggi, al dibattito circostante.
Si dovrebbe fare sempre così…
C’è un altro fatto. Ai tempi miei gli artisti erano quasi tutti vivi. Non c’era Balla, morto da poco, ma c’erano le figlie; c’era Severini, c’era Magnelli e tutti quelli della seconda o terza generazione. Oggi sarebbe un po’ più difficile. E poi anche i rapporti con il mercato erano diversi. A quei tempi i quadri costavano poco e niente. Un’opera di De Chirico costava l’equivalente di dieci, venti milioni di oggi. C’era un disinteresse critico per queste opere che aveva provocato un disinteresse di mercato. Di De Chirico andavano bene le opere metafisiche e basta, di Balla quelle poche cose futuriste che piacevano agli americani, di Picabia il periodo meccanico, di Man Ray erano famosi solo i Rayographs…
È il solito circolo vizioso: da una parte la critica apprezza solo le opere di alcuni periodi, trascurando altri, e il mercato che gli va dietro. Dall’altra succede il contrario, ovvero che la critica va dietro alle tendenze di mercato. È importante capire questo perché venendo in qua negli anni è cambiato l’atteggiamento nei confronti degli artisti: non solo sul piano mercantile ma anche su quello ideologico, storiografico: tant’è che Balla viene apprezzato anche per altri periodi… e quello anche grazie al tuo lavoro.
Perfino quello figurativo. Il fatto è che bisogna immedesimarsi, da storici quali siamo, nella situazione di quel tempo. Ma nell’arte antica le cose non andavano differentemente: avevo fatto degli studi su Bernini o su Caravaggio che non venivano molto apprezzati. All’ultima libera sessione di libere docenze, nel ’69, mica un secolo fa, la commissione disse: «È un ragazzo intelligente, peccato che studi queste cose irrilevanti» (di Bernini e Caravaggio ora portiamo il ritratto in tasca, sulle banconote). Abbiamo dimenticato cosa era l’ostracismo al Barocco. Per me negli anni Settanta fare un libro sulla festa barocca era come studiare Kounellis, per così dire. (A proposito, ricordo che Jannis rimase colpito di quello studio tanto che mi chiese un articolo per «Città di Riga», la sua rivista).
Nessuno prima si era occupato dell’effimero barocco. È incredibile ma non interessava (dopo quindici anni, sto curando una nuova edizione); uscì un articolo di Argan, su «L’Espresso», che riconosceva la qualità del lavoro, ma concludeva affermando che erano cose che non servivano a niente.
L’impegno di critico e di storico dell’arte ti ha rivolto verso il Barocco e, contemporaneamente, verso quella linea dell’avanguardia novecentesca rappresentata da Duchamp, Man Ray, Picabia; quest’ultima in osmosi con gli artisti tuoi coetanei. Come mai ad un certo punto, se non ricordo male nel 1983, con la mostra al Cembalo Borghese, i tuoi interessi si rivolgono verso gli artisti della Scuola Romana, con un atteggiamento che allora sembrò alquanto reazionario?
Ho avuto anch’io il Rappel à l’ordre! Ad un certo punto ho esaurito le motivazioni nei confronti dell’avanguardia, non perché non mi interessasse più, ma avevo soddisfatto le mie curiosità. Così cominciai a studiare De Chirico che mi ha aperto la strada a tutti gli altri. Ancora oggi, quando vedo un’opera, mi domando se è nella linea di De Chirico. Lui ha sempre ragione anche quando fa i quadri barocchi.
La passione per l’avanguardia, che era opposta ai gusti di Argan, si è spostata sugli artisti italiani; cioè è diventata passione per quelle cose che piacevano a lui negli anni Trenta. Ho imparato a guardare i critici d’arte più anziani di me nelle loro antiche predilezioni. Lionello Venturi amava Casorati, Argan amava Mafai e le cose romane. Avevano amato, nel passato, delle cose di cui si vergognavano pensando che erano state fasciste. I pittori della Scuola Romana al contrario avevano fatto un’arte di fronda.
Il tuo lavoro ha contribuito ad un cambiamento di rotta nell’atteggiamento storiografico degli anni Ottanta. Oggi è in atto un tentativo di revisione dell’interpretazione del Novecento. Se si sfoglia un manuale di storia dell’arte italiana troviamo ben trattato il Futurismo ma manca una adeguata valutazione degli artisti degli anni Venti e Trenta milanesi o romani. Una considerazione che ora possiamo fare perché sono intervenuti diversi fattori, compresa la famosa mostra Les Réalismes che in un certo qual senso ha dato l’abbrivio ad un cambiamento di prospettive.
Certamente! Quella mostra curata dal mio amico Jean Clair è risultata come rassicurante per noi che eravamo interessati allo stesso lavoro. Risultò come la garanzia che quello che andavamo facendo non era reazionario, provinciale, anzi risultò che la vera avanguardia degli anni Venti e Trenta era proprio quella. Infatti quando feci la mostra Realismo Magico dimostrai, penso, che quella pittura non rappresentava la reazione piuttosto, in quel momento, essa era l’avanguardia; Stravinsky parlava quel linguaggio come Picasso, e lo parlavano anche Casorati, De Chirico, Severini, Donghi. Questi artisti che all’inizio potevano sembrare di retroguardia rappresentavano semplicemente la continuità di quei discorsi. Mafai era andato a Parigi, ma scartò l’avanguardia perché non lo interessava e non perché non la conoscesse o non era capace di farla. Anche quella di Pirandello o di Donghi o di Ziveri è una strada d’avanguardia.
Rapporto ’60 in fondo tenta di storicizzare degli avvenimenti ancora in atto, al contrario la mostra Scuola Romana: pittori tra le due guerre viene organizzata come una mostra di militanza: scegli gli artisti e li riunisci sotto un vessillo nuovo. Anche il catalogo punta allo stesso obiettivo presentando gli artisti nei loro tratti peculiari, più caratteristici.
È un’osservazione molto sottile, è una cosa di cui mi sono accorto recentemente scrivendo la prefazione ad una raccolta di saggi pubblicata da Costa & Nolan (Classicismo Pittorico). Mi sono accorto che gli studi su Severini, Donghi, De Chirico o Morandi e gli altri erano stati fatti, quasi tutti, in occasione di mostre in gallerie private. Un assurdo: un lavoro da storico fatto da critico militante! C’è stato un momento in cui quel lavoro bisognava riproporlo come attuale.
Questa condizione però ha fatto dire a qualcuno che il mio lavoro è legato al mercato, che lo faccio per rivalutare delle opere; lo hanno detto per Balla, per De Chirico, per Picabia, poi per la Scuola Romana… Credo che abbia dato molto fastidio il fatto che qualcuno, andando nella soffitta del passato, portasse giù uno scatolone pieno di bella pittura o scultura che gli altri, che pure c’erano stati, non avevano nemmeno visto.
Per esempio, Melotti era completamente dimenticato quando l’ho ritrovato nel ’68 con Luciano Pistoi (ho lavorato sempre bene con i mercanti).
Quando siamo andati a scovarlo, Melotti si era dimenticato di essere uno scultore, faceva le maioliche per i pavimenti, la prima volta che andai a trovarlo me ne regalò un bagno intero. Io gli parlavo delle sue sculture, del ’35, e lui ribatteva: «Beh è andata male». E poi ha ricominciato con grande entusiasmo, è diventato uno dei più apprezzati scultori italiani.
Proprio nel catalogo della mostra al Cembalo Borghese erano riportate due pagine di un catalogo del 1923 in cui comparivano un Ritratto di donna di Picasso e un Ritratto di fanciulla di Trombadori come per volere sottolineare un rapporto tra il “neoclassicismo” del primo e il “purismo” del secondo…
Quando l’ho fatto volevo intendere proprio questo anche se non l’ho scritto. Il piacere di lavorare con le immagini sta proprio nel poter raggiungere una comunicazione immediata.
Mi pare che tu abbia un atteggiamento diverso nei confronti del ’900, nel senso che sei abituato ad avere una visione complessiva della storia dell’arte; lo si evince dalle cose che hai scritto, penso per esempio alla Guida alla storia dell’arte fatta in collaborazione con Argan… Visto oggi sul finire, questo secolo, non presenta delle novità di interpretazione rispetto a venti o trenta anni fa?
Certo quando studiavo io, nel 1960, il Novecento italiano non c’era. Ora c’è. Ecco perché dobbiamo dire grazie a Jean Clair per aver avuto il coraggio di curare quella grande mostra di Parigi sottolineando l’importanza di De Chirico e degli altri italiani. Non c’era la Scuola Romana, non c’era il Futurismo, e non mi riferisco a quei tre o quattro anni in cui tutti erano colossi e sparavano a zero sul mondo, distruggevano musei e così via, ma alla continuità (Severini continuò a lavorare anche negli anni ’30, ’40, ’50). Nei miei cataloghi, infatti, quello su Depero, per esempio, ma anche su artisti meno importanti, sono attento anche alle fasi abitualmente considerate minori.
Non ti sembra di tornare alla visione crociana, dal considerare il lavoro dell’artista a sé stante, dell’impossibilità ti fare una storia dell’arte?
Io non ho mai fatto una storia dell’arte. Non me la sento. Esiste l’artista che lavora e che ogni giorno ha dei contatti, continui rimbalzi fra lui e l’ambiente. Sono degli incontri-scontri, poi tutto va avanti per strade più o meno parallele, vorrei dire come le onde del mare che vanno una sull’altra. Come si fa a capire se la prima è migliore della seconda? È tutta una storia che si svolge sotto i nostri occhi. Certo, ci sono delle tendenze e delle opposizioni, però lo spazio, e il tempo, è lo stesso.
Si parlava prima del successo di Rapporto ’60. Ti assicuro invece che è stato un fiasco. Sia gli artisti inclusi che gli esclusi mi tolsero il saluto (i primi perché dentro c’era qualcuno di troppo, i secondi perché esclusi). Questo per dire dei rimbalzi nell’ambiente artistico. Tanto che nel ’68 ho smesso di fare critica militante.
Rapporto ’60 presentava una sistematizzazione con la quale si riusciva ad avere, in un’unica visione, i diversi artisti con le loro caratteristiche. La struttura del libro non è molto diversa da quella del catalogo della Scuola Romana dell’83. C’è lo stesso atteggiamento, dare le immagini più caratteristiche, le informazioni principali e collocare gli artisti storicamente in un dato momento.
Ho sempre avuto una grande passione per la storia (forse è un fatto della mia generazione?). Un artista non nasce dal niente, è figlio del suo tempo ma è anche parte di una catena di artisti. Quello di cogliere il lavoro di un artista in una visione più complessiva è sempre stato quello che ho voluto fare. L’ho fatto con il Futurismo, con Dada e con il Surrealismo. Inconsciamente l’ho fatto anche con i miei contemporanei.
Nel ’68 rinunci a fare critica militante a favore di un atteggiamento più storicistico. Questo significa rinunciare a fare delle scelte?
La storia è fatta di sobbalzi di cui bisogna prendere atto con umiltà. Bisogna avere il coraggio di mettere in discussione tutto, senza dire questo è brutto. Per esempio non sopporto Sironi: quando vedo un suo quadro sento un gran fastidio. Non lo sopporto perché è profondamente fascista (esponente d’un regime pre-industriale, oltre che lumbàrd). Fascista è una nozione precisa, storica: Sironi riassume in sé tutti i sintomi, le ribellioni, le angosce, le nausee e le malinconie del Regime. De Chirico non è fascista perché è un artista di respiro internazionale. Però, storicamente, dovrei occuparmene alla pari (ma confesso che ho preferito non studiare Sironi).
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta smetti di occuparti degli artisti tuoi coetanei. Con l’inizio degli anni Ottanta esaurisci gli interessi per le avanguardie storiche. Ora mi sembra concluso il ciclo sulla Scuola Romana. Cosa prevedi per il futuro?
Lo storico non prevede, prende atto di quello che c’è. E anche se arriva a decretare la morte dell’arte, si sveglia una mattina confessando di avere scoperto altre forme d’arte.
Arte e Critica, n. 1, ottobre – dicembre 1993, pp. 28-31.