Obiettivo Burri

CON IL TITOLO OBIETTIVI SU BURRI – FOTOGRAFIE E FOTORITRATTI DI ALBERTO BURRI DAL 1954 AL 1993 LA FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI COLLEZIONE BURRI – EX SECCATOI DEL TABACCO HA IDEATO E REALIZZATO, CON LA CURA DI BRUNO CORÀ, UN EVENTO CHE METTE IN MOSTRA UN NUTRITO NUMERO DI SCATTI DEDICATI AD ALBERTO BURRI REALIZZATI DA OLTRE TRENTACINQUE FOTOGRAFI. TRA GLI ALTRI, AURELIO AMENDOLA, GABRIELE BASILICO, GIORGIO COLOMBO, PLINIO DE MARTIIS, GIANFRANCO GORGONI, MIMMO JODICE, UGO MULAS, JOSEPHINE POWELL, SANFORD H.ROTH, WILLIAM SANDBERG. ACCOMPAGNA L’EVENTO UN CATALOGO CHE RIUNISCE I CONTRIBUTI DEL CURATORE, DI ALDO IORI E DI RITA OLIVIERI, OLTRE A UN’INTERVISTA AD AURELIO AMENDOLA A CURA DI CHIARA SARTEANESI.
SEMPRE PER BURRI, A CORONAMENTO DI UNA STAGIONE DI GRANDI CELEBRAZIONI INTERNAZIONALI, BRUNO CORÀ, PRESIDENTE DELLA FONDAZIONE BURRI, CURA UN’IMPORTANTE RETROSPETTIVA ALLA FONDAZIONE CINI DI VENEZIA TRA MAGGIO E LUGLIO, DURANTE LA BIENNALE, INTITOLATA BURRI. LA PITTURA, IRRIDUCIBILE PRESENZA. SI TRATTA DI UN PROGETTO CHE RIPERCORRE CRONOLOGICAMENTE LE PIÙ SIGNIFICATIVE TAPPE DEL PERCORSO DEL MAESTRO DELLA ‘MATERIA’ ATTRAVERSO MOLTE DELLE SUE OPERE PIÙ SIGNIFICATIVE, DAI RARISSIMI CATRAMI (1948) AGLI ULTIMI E MONUMENTALI CELLOTEX (1994). BURRI TORNA IN QUESTO MODO A VENEZIA DOPO LA GRANDE PERSONALE CHE NEL 1983 VIDE PROTAGONISTE 18 OPERE DEL CICLO SESTANTE  NEGLI EX CANTIERI NAVALI ALLA GIUDECCA, SEGNANDO UNA TAPPA FONDAMENTALE NELLA SUA CARRIERA.
NEL FRATTEMPO, AL MUSEO BILOTTI DI ROMA INAUGURA UN ALTRO PROGETTO ESPOSITIVO DAL TITOLO LA FERITA DELLA BELLEZZA. ALBERTO BURRI E IL GRANDE CRETTO DI GIBELLINA, A CURA DI MASSIMO RECALCATI, PATROCINATA DALLA FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI COLLEZIONE BURRI, DALLA REGIONE LAZIO, DALLA REGIONE SICILIANA, DAL COMUNE DI GIBELLINA E DALLA FONDAZIONE ORESTIADI. L’ESPOSIZIONE INCLUDE LE FOTOGRAFIE DEL GRANDE CRETTO REALIZZATE DA AURELIO AMENDOLA, IL FOTOGRAFO CHE HA SEGUITO CON MAGGIORE ASSIDUITÀ IL LAVORO E I PROCESSI CREATIVI DI BURRI. SARÀ ESPOSTO INOLTRE UN VIDEO DI PETRA NOORDKAMP, PRODOTTO DAL GUGGENHEIM MUSEUM DI NEW YORK E PRESENTATO NEL 2015 IN OCCASIONE DELLA GRANDE RETROSPETTIVA NEWYORKESE THE TRAUMA OF PAINTING. L’ESPOSIZIONE SARÀ POI RIALLESTITA AL MAG DI RIVA DEL GARDA IN COLLABORAZIONE CON IL MART DI TRENTO E ROVERETO.
LE FOTOGRAFIE DI AMENDOLA, RISULTATO DELLA CAMPAGNA FOTOGRAFICA REALIZZATA NEL 2018 SUCCESSIVA AL RESTAURO DEL MONUMENTALE INTERVENTO AMBIENTALE, SONO STATE COMMISSIONATE E RACCOLTE DALL’EDITORE MAGONZA IN UN VOLUME DAL TITOLO ALBERTO BURRI, IL GRANDE CRETTO DI GIBELLINA, CHE OSPITA UN TESTO DI MASSIMO RECALCATI.

A partire dal 2015, anno del Centenario della nascita di Alberto Burri, ha preso vita negli spazi della Fondazione Burri l’iniziativa 12 Marzo, per ricordare il giorno della sua nascita. Quest’anno la scelta di Bruno Corà, Presidente della Fondazione nonché curatore della mostra Obiettivi su Burri, è caduta su un’idea che sicuramente aggiunge qualcosa in più alla già consueta immagine che si ha dell’opera dell’artista umbro. Il progetto espositivo ha raccolto infatti un nutrito numero di fotografie e di ritratti fotografici che vanno dai primi scatti del ’54 agli ultimi del ’93. Per la prima volta si compie una ricognizione esauriente sui maggiori e più assidui professionisti della fotografia che lo hanno ritratto in differenti momenti e circostanze della sua vita.
Un lungo racconto per immagini che inizia nel frangente temporale dei primi anni Cinquanta, quando la pittura di Burri – come ricorda Corà in catalogo – varcato l’oceano inizia a far parlare di sé, soprattutto per gli aspetti ritenuti eversivi delle materie che essa presenta, e finisce a un paio di anni di distanza dalla sua morte, avvenuta in Francia nel 1995, a un mese dal suo ottantesimo anniversario, dove l’artista ­– sempre con le parole di Corà ­– non nasconde né i malanni né la coscienza che il tempo a lui concesso volge al termine.
La storia che raccontano queste immagini è lontana dalla ribalta ufficiale, da quella mondanità alla quale sempre costringe il mondo dell’arte, soprattutto per chi lo frequenta con intensità e successo. Burri, noto per la sua riservatezza, sembra non concedersi mai al fotografo, semmai lo tollera, lo accetta come una condizione d’obbligo, come per un ricordo di famiglia.
Scorrono sotto lo sguardo i ritratti con gli amici, con Afro, Scialoja e Calder, con de Kooning, con Marino Marini e Cesare Brandi, con Gabriella Drudi e Judy Montagu, con Nicholson, con l’amico di sempre Nemo Sarteanesi.
Un racconto lungo quanto una vita, che svela una parte sconosciuta della personalità dello schivo pittore umbro, o comunque una parte della quale si sapeva poco, pochissimo, a causa di quel suo carattere asciutto e risoluto. Corrono altre immagini, lo mostrano alle prese con le sue passioni: la caccia, le armi, il football, i viaggi. Ma le foto più intense sono quelle in cui è impegnato attorno all’opera, mentre brucia, lacera, piega, taglia, salda. Sono le immagini più vigorose, più suggestive, dove il grande artista mostra tutta la sua certezza, diventa come un sapiente artigiano che ostenta le sue capacità. Sono operazioni artigianali, è vero, ma che appartengono a un tempo in cui il fare rappresentava l’attività più importante, quando il lavoro nobilitava l’uomo e lo salvava dalla dannazione, quando l’opera costituiva un dispositivo formale a funzione estetica.
Burri ne era consapevole e dunque, forse per questo o forse per la sua indole, amava ripetere «è l’opera a parlare per me».  Si era sempre rifiutato di parlare dei suoi lavori, di commentarli, convinto che l’opera parlasse da sola, convinto com’era – ancora una volta con le parole del curatore – di essere eccedente rispetto alla propria opera, unica cosa che secondo lui veramente valesse la pena di essere immortalata. In fondo, anche le fotografie parlano da sole.

 

*brevi stralci dal testo di Massimo Recalcati “Le lacrime e l’opera”, pubblicato nel volume Alberto Burri, il Grande Cretto di Gibellina, Magonza, 2018.

La memoria della ferita
Nel gennaio del 1968 un terremoto brutale cancella per sempre la città di Gibellina nella Valle del Belice. Architetti e artisti di tutto il mondo offrono i loro contributi (opere e progetti) alla ricostruzione di Gibellina Nuova, pensata lungo l’asse stradale che si stava sviluppando, distante dalla città distrutta. L’invito verrà rivolto anche ad Alberto Burri che si reca sul luogo della tragedia, ma non trattiene le sue riserve: preferisce lavorare sulle macerie a cielo aperto della vecchia città piuttosto che donare un suo contributo per la ricostruzione di quella nuova. Di lì l’idea del Grande Cretto di Gibellina: una enorme gettata di cemento bianco che, incorporando le macerie del terremoto, avrebbe dovuto ricoprire la planimetria della città distrutta dal sisma.
Scegliendo di non distanziarsi dall’orrore, di non retrocedere di fronte al luogo del dolore e della morte, Burri mostra la lezione più propria dell’arte: la sua dignità è tale solo se non evita l’incontro con il reale del trauma […]

I Cretti
Il Grande Cretto di Gibellina di Alberto Burri… In quest’opera il rapporto tra la pratica dell’arte e l’eccesso ingovernabile della vita e della morte risulta centrale. Burri prova a restituire in uno stesso movimento d’insieme sia la forza impetuosa e matrigna della vita (il terremoto) che l’esperienza del lutto e della morte che ad essa si accompagna […]

Il trauma
Un primo intento estetico del Cretto è quello di restituire il tremore della terra, le sue crepe, l’effetto della spaccatura, della frattura, della ferita aperta. Il primo significato del Grande Cretto di Gibellina è la ripetizione traumatica del sisma. Burri non indietreggia di fronte all’orrore della morte, non volge lo sguardo da un’altra parte, non ricerca facili consolazioni. Il primo significato del Grande Cretto consiste nel mostrare tutto l’orrore della distruzione, della terra che si spacca, delle mura che cadono, delle vite travolte dalla morte, della devastazione […]

La testimonianza dell’arte
Nel Grande Cretto di Gibellina la vita non si sostituisce semplicemente – maniacalmente – alla morte; non è la bellezza che prende il posto della ferita occultandola. Il Cretto è piuttosto la ferita della morte che diviene poesia; è una trasfigurazione, una sorta di resurrezione non dei morti ma della vita stessa dalla morte perché la morte non è stata l’ultima parola sulla vita. La cicatrice che commemora il dramma facendo di questa commemorazione parte integrante del corpo, dà luogo a un nuovo evento, quello dell’opera. In questa trasfigurazione ritroviamo il processo artistico nel suo fondamento ultimo […]

Il resto del lavoro del lutto
Il Grande Cretto illumina il punto dove il lavoro dell’arte si intreccia profondamente con quello del lutto. Burri vuole evitare la commemorazione retorica e l’archiviazione maniacale dell’orrore di ciò che è avvenuto. Al tempo stesso, però, non intende nemmeno limitarsi a ripresentificare il dramma in una ripetizione senza fine. Egli elabora da un punto di vista artistico un vero e proprio lavoro del lutto.
Cosa fare dell’orrore della morte, della devastazione, della perdita irreversibile della vita? Il suo primo passo consiste nell’incastonare il suo Cretto nel paesaggio della vecchia Gibellina. La macchia bianca di cemento nella sua nuda presenza viene inclusa nel territorio che la ospita come le macerie – i resti del terremoto – sono a loro volte incluse nell’opera. Nessun attrito ecologico, nessuna violenza al paesaggio, nessun abuso sulla natura. La testimonianza dell’arte porta sempre con sé un dono salvifico. Essa impedisce alla vita di morire del tutto lavorando sul resto della violenza della morte, trasfigurando questo resto in un’opera di vita nuova […]

Un velo di pietra
[…] La potenza lirica del Cretto di Gibellina risiede in questo: non c’è resurrezione possibile dalla morte, ma l’evento dell’opera d’arte può elevare questa impossibilità alla dignità della vita che non vuole morire, della vita che nel suo candore estraniante insiste comunque a vivere.

IL LUNGO ITER DEI LAVORI DI REALIZZAZIONE E RESTAURO DEL GRANDE CRETTO DI GIBELLINA
A cinquant’anni dal tragico evento tellurico che rase al suolo Gibellina nel 1968, e che fornì le condizioni per la realizzazione del Grande Cretto di Alberto Burri all’interno del più ampio progetto ricostruttivo ideato da Ludovico Corrao, e a trent’anni dall’interruzione della sua realizzazione (avviata nel 1985) dopo aver compiuto 66.000 metri quadrati a fronte degli 86.000 previsti; a dieci anni dalla presentazione del progetto di restauro voluto dall’assessore regionale ai beni culturali Lino Leanza, con il patrocinio del Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana Gianfranco Miccichè ed elaborato dal Museo Riso (con la direzione artistica di Renato Quaglia, la direzione di Sergio Alessandro e il coordinamento generale di Antonella Amorelli); a tre anni dal centenario della nascita di Burri, occasione nella quale la Regione Siciliana, il Comune di Gibellina, la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri hanno deciso il completamento dell’opera, finalmente nel 2018 la scultura monumentale è stata restituita in tutta la sua imponenza.
Il completamento e il restauro sono stati resi possibili, come ha ricordato in una recente occasione Sergio Alessandro (Dirigente Generale dei Beni culturali della Regione Siciliana), anche grazie ai fondi strutturali  concessi dalla Comunità Europea e all’impegno del Comune di Gibellina, con il coordinamento del Dipartimento dei Beni culturali della Regione che ne ha seguito anche il complesso restauro finanziato dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

Arte e Critica, n. 93, primavera 2019, pp. 104-109.

 

Roberto Lambarelli
Roberto Lambarelli
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