Spregiudicata avanguardia, antica sostanza. La vita, l’arte e lo spazio di Luigi Moretti

C’è una figura che più delle altre interpreta al meglio il titolo della mostra in corso al MAXXI, Architetture a regola d’arte. Dagli archivi BBPR, Dardi, Monaco Luccichenti, Moretti (a cura di Luca Galofaro con Pippo Ciorra, Laura Felci, Elena Tinacci – fino a ottobre 2023), ed è quella di Luigi Moretti. Per Moretti l’arte è letteralmente ciò che “regola” l’architettura: le dà il passo, ne stabilisce la logica formale, ne fonda le premesse e ne illumina i compiti. Lo spazio, materia prima dell’architettura, non è un’entità misteriosa e metafisica ma sostanza concreta, visibile ed esperibile nelle modanature classiche come nella scultura barocca. Riprendendo le intuizioni di August Schmarsow, per il quale «la storia dell’architettura è storia del senso dello spazio», Moretti indaga lo spazio come materia solida, come solidi sono i modelli che realizza per dimostrare il valore degli interni della Rotonda palladiana o della Basilica di San Pietro, vere e proprie «strutture e sequenze di spazi».1 D’altronde l’architettura ha bisogno della concretezza dell’arte proprio perché è per sua natura eminentemente astratta, come la musica e la politica, ricorda Moretti citando Aristotele: arti non rappresentative che non sono copia della natura ma «costruzioni ideali astratte su materiali elementari concreti».2 La controversa vicenda di Luigi Moretti, solo di recente messa a fuoco nella complessità dei suoi registri,3 segue dunque un doppio binario: arte e architettura. Se l’arte è l’istanza spirituale che incarna il modo di essere di Moretti, l’architettura è la sua culla e insieme il destino di non poter vantare le sue origini. Le note biografiche non vanno prese dunque come un semplice corredo conoscitivo dell’architetto, ma come tracce lungo le quali si dipana il farsi insieme artistico ed esistenziale di un «uomo di spregiudicata avanguardia eppure di antica sostanza», come acutamente lo ha descritto il suo amico Agnoldomenico Pica.4
Luigi Moretti nasce nel 1907 da Maria Giuseppina Moretti e dall’ingegnere e architetto di famiglia belga Luigi Rolland, autore di numerosi edifici a Roma, tra cui il Palazzo delle Poste di piazza Dante e il Politeama Adriano. Questi, già sposato, potrà dargli solo il proprio nome di battesimo ma non mancherà di educarlo alla cultura del disegno, ai primi discorsi sull’architettura, l’arte e la matematica, e più in generale a una visione moderna del mondo – come quando per la promozione scolastica gli regala una gita sull’aeronave M1 da Ciampino in sorvolo su Roma, che verrà raccontata con orgoglio nel tema scolastico Viaggio in dirigibile descrivendo il passaggio su San Pietro, il Campidoglio e gli acquedotti fino al mare di Anzio. La morte del padre, nel 1921, quando Luigi ha solo 14 anni, segna l’ideale passaggio di consegne dall’educazione familiare a quella ufficiale. Riesce a iscriversi alla prestigiosa scuola cattolica San Giuseppe De Merode e con la madre rileva l’appartamento del padre in via Napoleone III, che fu abitato e poi mantenuto come una sorta di mausoleo per tutta la vita. Rimastogli in dote un ricco patrimonio di contatti professionali grazie allo studio del padre, tra il 1925 e il 1930 frequenta la Regia Scuola di Architettura di Roma, all’epoca ancora ospite del Regio Istituto di Belle Arti nello storico edificio di via Ripetta. Il rapporto di vicinanza con Gustavo Giovannoni, di cui sarà per alcuni anni assistente al corso di Restauro dei monumenti, schiera ben presto Moretti dalla parte di quegli architetti che guardano al patrimonio storico come un immenso bagaglio di riferimenti e insieme di occasioni progettuali. Gli studi di questi anni gli valgono nel 1931 la Borsa Triennale per gli Studi Romani, collaborando con l’archeologo Corrado Ricci alla sistemazione dei Mercati Traianei nel quadro del progetto di ridefinizione dell’area dei Fori Imperiali: una porzione di quel paesaggio architettonico e urbano destinato a cambiare il volto della Capitale.
Nel frattempo Moretti inizia a lavorare con l’ingegnere Enrico Vallini, già socio del padre, per incarichi che spaziano da restauri di monumenti, a progetti di palazzine e ville, a interni di negozi, sino alla nomina nel 1933 a direttore dell’ufficio tecnico dell’Opera Nazionale Balilla, l’ente dedicato «all’educazione fisica e morale della gioventù» promosso dal regime all’interno del più largo progetto di “fascistizzare” la società italiana. Moretti arriva all’O.N.B. presentato al suo presidente e fondatore Renato Ricci dallo scultore Angelo Canevari e da Felicia Abruzzese, capo dei fasci femminili romani, entrambi amici dell’architetto. Riceve subito incarichi significativi, tra cui la Casa della gioventù a Trastevere, progettata nel 1933 (ma inaugurata solo nel 1937), prototipo di quella nuova tipologia edilizia che avrebbe incarnato lo spirito mussoliniano della “casa di vetro del fascismo” e che amplierà l’influenza di Moretti nell’O.N.B. sino a realizzare la “Casa balilla sperimentale FM” (poi rinominata Accademia Fascista della Scherma) al Foro Mussolini, ancora più classica nella compattezza dei volumi e nella continuità dei materiali e delle soluzioni spaziali. Da qui a scalzare Enrico Del Debbio come supervisore del piano del Foro, il passo sarà breve: lo trasformerà via via in una arcadica città di fondazione votata alla cultura “artistica” dello spirito e del corpo, con l’ambizioso titolo di Forma ultima Fori. Pensato come un progetto unitario di una sola mano (la sua), vi progetterà un gigantesco stadio per le adunate, una statua colossale di Mussolini da collocare sull’altura prospiciente e la nota Palestra del Duce che, all’opposto della “casa di vetro”, celebra il mito dell’antico gymnasium quale unione di corpo, mente e spirito nella forma di un prezioso scrigno di marmo paonazzetto.
Nonostante i numerosi incarichi da parte del regime e la sua vicinanza ai nomi di spicco del partito fascista, in questi anni Moretti è una figura isolata: lontano dal razionalismo – che nel 1936 stigmatizza come architettura che «è nata sulla carta, vi è vissuta e vi morirà infallibilmente»5 –, ignorato da «Casabella» ma nemmeno amato da Piacentini, è l’unico tra gli architetti più noti ad aderire dopo il 1943 alla Repubblica di Salò. Nel frattempo coltiva una rete più o meno sotterranea di contatti che gli varranno una nuova vita professionale nell’Italia post-bellica. Arrestato a Milano alla fine della guerra, in prigione Moretti conosce il conte Adolfo Fossataro con il quale fonda la Confimprese, una società di costruzioni che, nonostante i trascorsi politici dei due, subito si inserisce nei piani di ricostruzione del Comune di Milano con un progetto di ventidue case-albergo, di cui se ne realizzeranno tre, e del complesso di edifici e abitazioni in Corso Italia, di iniziativa privata. Il denaro della Confimprese servirà anche per far tornare Moretti a Roma e costruire il suo edificio più noto del dopoguerra: la palazzina del Girasole in viale Bruno Buozzi, completata nel 1950, di cui Fossataro abiterà il piano attico, arredato personalmente da Moretti.
Affrancato dall’obbligo di assecondare l’ideologia fascista, il Moretti del dopoguerra si divide tra una intensa attività professionale per conto di committenze di spicco (dal Vaticano, all’aristocrazia romana, alla potente Società Generale Immobiliare, di cui diventa il maggior architetto) e un rinnovato interesse nei rapporti tra arte e architettura, che lo porta a una teoria e un linguaggio sempre più variegati e complessi. Ma gli manca un vero e proprio contesto culturale con cui confrontarsi. Escluso dalla cultura architettonica italiana “impegnata”, Moretti ancora una volta è costretto a coltivare da solo il proprio “discorso” architettonico. L’accusa di «impadronirsi da destra dell’eredità avanguardista» (Tafuri) in effetti coglie nel segno: negli anni della “ritirata” italiana nel neorealismo (come scrive Reyner Banham, peraltro tra i primi a recensire la Casa del Girasole nel 1953 su «The Architectural Review»), Moretti avvia un’indagine ad ampio spettro sul significato dell’arte moderna e sui suoi rapporti genealogici con l’antico. Lo fa da artista a tutto tondo, che però sa di doversi esprimere attraverso l’architettura. D’altronde «non esiste l’uomo architetto, esiste l’uomo artista» aveva dichiarato a «Quadrivio» nel 1936. Ed è una postura che manterrà, e anzi accentuerà, anche nel dopoguerra. Ne sono testimonianza le fotografie che lo ritraggono nello studio negli anni ’50 e ’60 – Moretti era ossessionato dalle riproduzioni fotografiche; aveva un archivio di stampe a contatto del suo lavoro e seguiva personalmente e maniacalmente il lavoro dei suoi fotografi sempre di altissimo profilo6 – in cui dipinti seicenteschi, busti classici e opere d’avanguardia (da Burri a Capogrossi, da Fontana a Falkenstein) si affiancano a modelli di architettura come quello che ricostruisce un frammento michelangiolesco del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, che con tali opere sembra rivaleggiare. Ne emerge una figura d’altri tempi: erudito più che intellettuale, artista e uomo d’azione, navigato professionista a suo agio nei corridoi del potere, che però vede nella poetica della sua architettura soprattutto la sublimazione di un inesauribile senso della vita.7
Non è un caso che Moretti abbia eletto l’inquieta figura di Michelangelo come riferimento a cui viene fatta risalire in toto la sensibilità moderna: «Veramente si può dire che il mondo espressivo moderno si inizia con il Barocco e questo da Michelangelo come rivelatore di quelle pure strutture che egli cavò, a sostegno della sua ansia, nell’esame delle infinite e finissime possibilità strutturali del corpo umano, dai leggendari notturni colloqui con gli scortecciati cadaveri».8 Il rapporto tra i due, che nella mostra è particolarmente evidente, è una parabola assai significativa del percorso morettiano e unisce i primi studi universitari a una serie di investigazioni condotte fino alla metà degli anni ’60. A Michelangelo Moretti dedica infatti i primissimi disegni quando frequenta il corso di Storia e stili dell’architettura di Vincenzo Fasolo, ponendo le premesse per una liaison che nel dopoguerra accompagnerà l’intero progetto della rivista «Spazio», nei cui editoriali la figura del Buonarroti compare praticamente sempre. Sviscerata tra il 1950 e il 1953 attraverso quella particolare forma narrativa di cui «Spazio», ideata, scritta, illustrata e impaginata dallo stesso Moretti, è stata un unicum, la poetica dello spazio michelangiolesco-morettiano culmina alla metà degli anni ’60. È il 1964 e si celebra il quarto centenario della morte del maestro aretino, con numerose iniziative, tra cui la mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma curata da Bruno Zevi e dal giovane Paolo Portoghesi, con il rinomato catalogo di oltre mille pagine. Moretti, che in quegli anni sta realizzando il progetto del Watergate di Washington, partecipa alla venticinquesima edizione del Festival del Cinema di Venezia con un medio-metraggio dal titolo Michelangelo, da lui stesso diretto insieme al regista Charles Conrad, ricevendo anche il premio della sezione Film d’Arte dalla giuria presieduta da Giulio Carlo Argan. In questo film, che conclude il percorso espositivo della mostra al MAXXI, vi è tutto il senso di un’arte scevra da qualsiasi ideologia, scoperta, per così dire, guardando le figure piuttosto che leggendo i testi. Il primo scopo del film, spiega infatti Moretti, «è la giusta lettura figurativa dell’opera soprattutto per scuotere dagli occhi quelle magre, astratte e ormai usurate immagini dei capolavori di Michelangelo; immagini già di per sé false poiché le fotografie con i grandi angolari hanno malamente fissato le opere secondo immagini che al vero è quasi sempre impossibile vedere».9 La narrazione del concetto di spazio moderno, di cui Michelangelo secondo Moretti è precursore, è affidata a una camera che indugia in inquadrature ravvicinate e sempre in movimento. Illuminato da luce radente e scandito dal commento musicale e dalla voce fuori campo dell’attore e doppiatore Carlo D’Angelo, lo spazio michelangiolesco è restituito come un’entità dinamica, teatrale e mai uguale a se stessa. Il film sembra interpretare in altra forma i temi della relazione che Moretti aveva presentato poche settimane prima al Convegno di studi michelangioleschi presso l’Accademia di San Luca dal titolo Le strutture ideali dell’architettura di Michelangelo e dei barocchi: la nozione di tempo come sostanza e in ultima istanza destino dello spazio moderno che Michelangelo già «pre-sente e riassume»; ma ancor più l’architettura come «racconto della sua complessa inquietudine, della sua solitudine non comunicante, insoddisfatta e affamata di mondo e di non-mondo».10 Se il film, come ha confessato lo stesso Moretti, è «un atto di riconoscenza personale»11 verso Michelangelo, la sua vera ragione è far comprendere lo spirito artistico e inquieto del suo autore. Come Peter Eisenman (che di Moretti è stato uno dei più attenti lettori) a conclusione delle sue conferenze sull’architetto comasco dichiarava «Terragni sono io!», così le parole che Moretti dedica a Michelangelo sembrano dirette a se stesso: «storie di uno spirito che solo, come tutti, cerca continuamente una risposta, vuol capire secondo suoi fantasmi, e si prova e si riprova, e si stanca e lascia alla fine interrotto il suo dire, impietrato, e sembra riconoscerlo inutile».12

Arte e Critica, n. 97-98, primavera – estate 2023, pp. 51-53.

1. L. Moretti, Strutture e sequenze di spazi, in «Spazio», n. 7, 1952-1953, p. 9.
2. L. Moretti, Trasfigurazioni di strutture murarie, in «Spazio», n. 4, 1951, p. 5.
3. Cfr. in particolare F. Bucci, M. Mulazzani, Luigi Moretti. Opere e scritti, Electa, Milano 2000; C. Rostagni, Luigi Moretti. 1907-1973, Mondadori Electa, Milano 2008; B. Reichlin, L. Tedeschi (a cura di), Luigi Moretti. Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, Electa, Milano 2010; Luigi Moretti. Forma, struttura, poetica della modernità, numero monografico «AR Magazine», n. 125-126, 2021.
4. A. Pica, Luigi Moretti, 1960, dattiloscritto, in F. Bucci, M. Mulazzani, Luigi Moretti. Opere e scritti, cit., p. 210.
5. L. Diemoz, Propositi di artisti. Luigi Moretti architetto, in «Quadrivio», n. 3, 12 dicembre 1936, p. 7.
6. Cfr. “Palazzo volante. Luigi Moretti, Milano, 1948-1954”, in F. Garofalo, Cos’è successo all’architettura italiana, Marsilio, Venezia 2016, pp. 142-155.
7. Cfr. R. Bonelli, Moretti, Editalia, Roma 1975.
8. L. Moretti, Genesi di forme dalla figura umana, in «Spazio», n. 2, 1950, p. 5.
9. Cit. in A. Bentivegna, “Michelangelo. Regia di Luigi Moretti”, in Luigi Moretti, Forma, struttura, poetica della modernità, cit., p. 238.
10. L. Moretti, “Le strutture ideali di Michelangelo e dei barocchi”, in L. Moretti, “Spazio”. Gli editoriali e altri scritti, a cura di O. S. Pierini, Christian Marinotti edizioni, Milano 2019, p. 208.
11. Cit. in A. Bentivegna, “Michelangelo. Regia di Luigi Moretti”, op. cit., p. 247.
12. L. Moretti, “Le strutture ideali di Michelangelo e dei barocchi”, op. cit., p. 208.

Gabriele Mastrigli
Gabriele Mastrigli