SUL PRINCIPIO DI CONTRADDIZIONE È IL TITOLO SOLO APPARENTEMENTE PROVOCATORIO CHE ELENA VOLPATO HA SCELTO PER LA MOSTRA RECENTEMENTE INAUGURATA ALLA GAM DI TORINO CON OPERE DI FRANCESCO BAROCCO, RICCARDO BARUZZI, LUCA BERTOLO, FLAVIO FAVELLI E DIEGO PERRONE. VISIBILE FINO AL 3 OTTOBRE 2021, IL PROGETTO ESPOSITIVO È ACCOMPAGNATO DA UN CATALOGO EDITO DA VIAINDUSTRIAE. PUBBLICHIAMO DI SEGUITO IL TESTO INTRODUTTIVO.
Non è un tema, né un linguaggio quello che nella mia mente unisce i cinque artisti di questa esposizione. È piuttosto la presenza di uno spazio di possibilità all’interno delle loro opere, composte, quasi sempre, da almeno due elementi, da almeno due nature o due immagini non pienamente conciliabili, legati da un vincolo di ambiguità che talvolta diviene chiaro rapporto di contraddizione. La forza emotiva del loro lavoro, pur nella grande diversità delle opere, nasce per vibrazione di quello spazio generato tra parti che non possono compiutamente sovrapporsi o risolversi in un’affermazione univoca e che continuano a scivolare l’una sull’altra, a pretendere attenzione una a dispetto dell’altra, offrendo allo sguardo una dimensione dell’indecidibile dove sostare senza requie.
Accettare la contraddizione vuol dire allontanare dal campo dell’espressione l’attrazione per la tautologia, per le argomentazioni, per le definizioni. L’arte non ha bisogno di essere assertiva. Spesso, quando lo è, le opere perdono forza e ogni potere di risonanza in noi. Prosciugare gli spazi di ambiguità rischia di svuotare l’espressione. È necessario lasciare che ogni coordinata si disancori e che la logica si perda al raggiungimento del suo limite, se quello a cui si tende è affrontare l’inciampo, allontanandosi dal perimetro che percorre e ripercorre il confine dell’esprimibile.
Uno spazio di possibilità, si è scritto, è quello che emerge tra gli elementi in contraddizione. Si potrebbe dire con buona ragione anche il contrario, accogliendo l’insegnamento di Simone Weil che nella contraddizione vide aprirsi il senso dell’impossibilità. E proprio di fronte a quella impossibilità, di fronte a quel vicolo cieco, riconobbe il profilarsi di una soglia: il contatto con l’inesprimibile, con quanto ci supera, con ciò che non siamo e, allo stesso tempo, riconosciamo di essere, nel profondo, nel momento in cui sentiamo di non poterlo essere fino in fondo.1
“Con il taglio di una linea continua, che è una rappresentazione – ha scritto Giorgio Colli – si accenna a qualcosa che alla rappresentazione non appartiene, e che simbolicamente chiamiamo contatto, toccamento, congiungimento. Ed è proprio dall’analisi della rappresentazione – in questo caso del concetto universale di continuità – che emerge qualcosa di non dominabile dalla rappresentazione, con cui si allude dunque all’irrappresentabile. Il non dominabile è quel vuoto che si apre in mezzo, e che il tessuto della continuità non dovrebbe ammettere. Ma per definizione il continuo può essere tagliato, e allora come si potrà evitare che la divisione cada tra due segmenti, i quali sono in contatto nel senso limitato che tra essi non c’è nulla? Il contatto è così l’indicazione di un nulla rappresentativo, di un interstizio metafisico”.2 Basterebbe ricordarsi, proprio quando la nostra coscienza è immersa nel reale, di quello spazio logico che separa ogni punto da quello accanto, per sentirsi improvvisamente incapaci di camminare, incapaci di un semplice passo, eppure riconoscersi, in quell’impossibilità, ridestati all’infinito. La bellezza dell’incommensurabile si apre nel cuore del mondo fisico. All’arte la possibilità di ospitarlo, di coltivarlo, nell’intervallo tra le sue parti, tra i materiali, tra i colori, tra le immagini e i significati.
Non credo ci sia nulla di più umano dell’abitare l’impossibile nodo dell’essere e del non essere e sentire che nel toccare il muro della contraddizione sta il superamento della nostra finitudine.
Simone Weil, che aveva contemplato il nascere del bello nell’incommensurabile matematico, nell’irrazionale che emerge dalla più pura ragione, nell’irrisolvibile relazione tra la diagonale e il lato del quadrato, indicò il senso dell’arte nella compresenza di parti che stanno per se stesse e non per collegare altre parti. Vi riconobbe la possibilità di una lettura su piani molteplici che eleva lo spettatore al di sopra della forma.
Nutrire le contraddittorie tensioni tra parti, è un modo per stare sul limite dell’impensabile, nell’intervallo tra i mondi, nel silenzio tra i suoni, nello spessore senza corpo di una linea, nello spazio tra le immagini concatenate ad altre immagini. Tutto questo è la via negativa di Luca Bertolo, la linea di conflitto di Flavio Favelli, l’ombra che precede il compiersi della forma in Francesco Barocco, è l’immagine ambivalente di Diego Perrone e quella in equilibrio instabile di Riccardo Baruzzi.
Certo i cosiddetti principi aristotelici di non contraddizione e del terzo escluso sono i fondamenti del pensiero logico, razionale e scientifico. Chi non voglia riconoscere che è proprio attraverso le estreme conseguenze della logica che pensatori rigorosi come Weil e come Wittgenstein approdano allo spazio della mistica, dove quei principi non hanno più ragione d’essere né utilità, potrà pensare che fare un elogio della contraddizione sia un capriccio letterario. Ma si deve anche ricordare che il secolo passato è trascorso tra due rappresentazioni scientifiche dell’universo inconciliate. Che il nostro spazio umano sembra sospeso tra le dimensioni cosmiche della visione formulata dalla teoria della relatività generale e quelle microscopiche dove più facilmente si riscontra la destabilizzante razionalità della fisica quantistica: due mondi, due immagini, ad oggi ancora in parziale contraddizione. E se anche il secolo presente dovesse portare alla scrittura delle equazioni necessarie ad armonizzare le due diverse rappresentazioni, il mondo contraddittorio della fisica quantistica, i suoi salti, i suoi vuoti, le sue verità sovrapposte e contrarie non ci abbandoneranno presto. Così apprendiamo che nulla può essere affermato in senso assoluto. Tutto ciò che possiamo dire sulla realtà può essere vero in rapporto a una diversa parte di realtà e falso rispetto a un’altra.
“Rompiamo le cose in pezzi sempre più piccoli, ma poi i pezzi, se li esaminiamo, non ci sono. Ci sono solo i modi in cui si sono arrangiati. Che cosa sono allora le cose, come una barca, la sua vela o le vostre unghie? Cosa sono? Se sono forme di forme di forme, e le forme sono ordine, e l’ordine è definito da noi… esse esistono, sembra, solo create da e in relazione a noi e all’universo. Esse sono, direbbe Buddha, vuote”.3
Ad aver scritto queste parole non è un filosofo né un mistico, ma un cosmologo citato con ammirazione da un fisico teorico il quale forse va persino oltre quando scrive: “La «semplice materia» si sfalda in strati complessi e d’un tratto ci sembra meno semplice. Lo iato fra la semplice materia e l’evanescente dipanarsi del nostro spirito appare forse un po’ meno invalicabile. […] Se il mondo fisico è tessuto dalla trama sottile di immagini di specchi che si specchiano in altri specchi, senza il fondamento metafisico di una sostanza materiale, forse è più facile riconoscerci come parte di esso”.4
Ma questo di cui parla Carlo Rovelli è lo specchio di Dioniso, il racconto mitico che riconduce la nascita del mondo a un riflesso, riverberatosi in riflessi di riflessi. Dioniso è anche il dio che in altri miti si lascia smembrare dai titani, si lascia ridurre in parti che sono immagine della molteplicità, della cesura nella continuità, dell’inevitabile e insieme impossibile divenire del mondo, fatto di essere e di non essere. Mi è accaduto di partecipare a un convegno in cui lo stesso Rovelli tenne a precisare la superiorità del discorso scientifico rispetto a quello mitico. Perché la scienza – disse – è erede degli uomini che cercano tracce nella foresta, che raccolgono prove ed esperienze per meglio cacciare gli animali, per capire il mondo e sopravvivere. Il loro procedere – continuava la sua argomentazione – non va confuso col discorso degli uomini che si siedono attorno a un fuoco e raccontano miti e leggende per darsi spiegazioni.
Eppure erano gli stessi uomini. E se è indubitabile che non tutte le interpretazioni del mondo sono equivalenti, che non tutti i discorsi hanno pari valore, quando la tradizione della sapienza – quanto di essa è giunto sino a noi – e la ricerca scientifica sembrano giungere alla medesima conclusione, è forse il momento di tornare a interrogarsi anche sulla contrapposizione dei saperi: tra la verità del mito, stratificata, molteplice, liberamente contraddittoria, e la verità del logos che non erra perché espelle la contraddizione, ma talvolta sembra estinguersi proprio in quella stessa contraddizione.
Questo tempo in cui ci troviamo ad affrontare un mondo destabilizzato, svuotato, può forse offrirci qualche ragione per tornare al momento discriminante, alla nascita della dialettica, dei ragionamenti che procedono per esclusione del contrario, e tornare là dove il percorso del logos si suppone sia incominciato, di fronte alla porta che la Dea presentò a Parmenide.
Conduceva al sentiero della Notte, la via che non è, e al sentiero del Giorno, la via che è. Oltre quella soglia il vero e il falso non potevano più confondersi. Parmenide scelse la via dell’Essere e la prescrisse agli uomini a loro baluardo e difesa. Nella parola Essere tradusse l’inesprimibile, il divino, ne addomesticò l’enormità lasciandone l’inavvicinabile incandescenza nello spazio del prima: prima della soglia, prima del pensiero raziocinante. Quando attraversò il varco col proprio carro, da sapiente divenne filosofo, tuttavia decise di raccontarci quanto accadde attraverso il discorso del mito. È con gli auspici della Dea, davanti al simbolo universale della porta, che avviene la nascita del logos.
Per il resto, la rassicurante traduzione dell’inconoscibile nell’essere ebbe un costo. Un costo che attraversa tutta la storia della filosofia ma che fu già interamente pagato nel breve arco di tempo che congiunge Parmenide a Zenone. Bastò quel passaggio, dal maestro all’allievo, perché l’assertività del pensiero si svuotasse sotto la forza della contraddizione attraverso l’esercizio della dialettica di cui Zenone, secondo Aristotele, fu l’inventore. Un esercizio che affinò per difendere il monismo del maestro dagli attacchi degli avversari.
“Ma per il perfetto dialettico è indifferente la tesi assunta dal rispondente: costui può scegliere nella risposta iniziale l’uno o l’altro corno della contraddizione proposta, e in entrambi i casi la confutazione seguirà inesorabilmente. […] Le conseguenze di questo meccanismo sono devastanti. Qualsiasi giudizio, nella cui verità l’uomo creda, può essere confutato. Non solo, ma poiché tutta la dialettica ritiene incontestabile il principio del terzo escluso, ossia ritiene che se una proposizione viene dimostrata come vera, ciò significa che la proposizione che la contraddice è falsa, e viceversa, allora, nel caso in cui prima si dimostri come vera una proposizione e poi si dimostri come vera la proposizione che la contraddice, risulterà che entrambe le proposizioni sono vere e false al tempo stesso, il che è impossibile. Tale impossibilità significa che né l’una né l’altra proposizione indicano alcunché di reale, e neppure un oggetto pensabile. E dato che nessun giudizio e nessun oggetto sfuggono dalla sfera dialettica, ne segue che ogni affermazione sarà inconsistente, confutabile, ogni dottrina, ogni proposizione scientifica, appartenente a una scienza pura o a una scienza sperimentale, sarà egualmente esposta alla demolizione.”5
Tutto questo era già scritto nella contraddizione di essere e non essere, nella determinazione di due sentieri contrapposti. E a nulla valgono le tifoserie, le eterne riedizioni della contrapposizione tra Illuminismo e Romanticismo, della ragione contro le ragioni della sapienza.
Forse esiste un luogo dove il vento che strattona da una parte e dall’altra si placa. Credo sia lo spazio indecidibile della soglia, lì dove si è già nel logos, ma si è ancora nel mito, dove il filosofo si ricorda del sapiente, dove lo scienziato riconosce Dioniso nelle proprie parole e non se ne turba. Si può sorridere davanti alla contraddizione e accoglierla come un racconto dell’indicibile, il racconto che, più di ogni altro, l’umanità non può sottrarsi dal provare a narrare.
Questa mostra intende essere un esercizio di equilibrio sulla soglia. E le opere che vi sono presentate sono, in modo diverso, visioni sulla soglia. Tanto più che le opere, a differenza di queste righe, appartengono alla dimensione dell’immagine e non della parola che ha scelto il suo campo prima ancora di essere pronunciata, per il marchio che porta in sé, iscritto in quel logos che altro non vuol dire se non parola. Di immagini è intessuto il mito, ma anche il discorso del filosofo, non meno di quello dello scienziato. L’immagine può ancora esercitare il privilegio di non decidere, di abbracciare la contraddizione. Il sottile spazio disegnato tra due cardini, l’addensarsi di senso tra due diversi elementi, le si addicono.
Forse per questo è venuto naturale punteggiare il percorso espositivo attraverso il ritmo del due. Talvolta si tratta di veri e propri dittici, come Serie imperiale di Favelli o I can’t hear you di Baruzzi, ma per lo più sono coppie di opere che si andavano cercando l’un l’altra, in alcuni casi persino a dispetto dei tentativi di provare a scardinare il riemergere dello schema binario. Due sono le tele di Bertolo che accolgono il visitatore nello spazio, due le sculture di vetro di Perrone, le tele azzurre di Baruzzi, le torri Military Decò di Favelli e così via. La contraddizione vuole il due. L’immagine della soglia lo esige. Guardare le opere richiamarsi nel percorso è stato come guardare quel loro spazio di vibrazione interno, quel fremito di senso non placato tra i loro elementi inconciliabili, espandersi nella mostra.
Credo di aver cercato quel potere che le opere hanno di creare campi di forza tra di loro, come se un’immagine dovesse risorgere in più punti, in filigrana nello spazio. L’immagine della soglia per eccellenza che si trova con poche variazioni in ogni cultura: le rocce delle Simplegadi che scivolano sul mare azzurro e si chiudono a rendere pericoloso il passaggio di chiunque tenti di andare oltre. Cozzano persino, una contro l’altra, come vuole la legge della contraddizione, ma l’apertura sottile e fuggevole che offrono è quella dell’impossibile di Simone Weil, l’impenetrabile assoluto. C’è un dettaglio in quell’antica immagine che non posso rinunciare a ricordare. L’incanto di quello spazio incorniciato dagli scogli, diviso in due tra cielo e mare, riverbera un colore che è l’unione degli opposti. Quelle rocce attraverso cui dovevano passare gli Argonauti erano chiamate le Blu. Il colore dell’oscurità in Grecia. Un blu luminoso, smaltato. Per ottenerlo – dice Platone – andavano mescolati gli opposti: il nero e il bianco, ma andava aggiunto anche il “lucente”, il lamprón.
Dimenticando e ricordando quel colore metafisico, fatto di buio e luce insieme, la mostra accoglie nei suoi spazi iniziali un persistente riverbero di blu: nel lontano punto di fuga della Veronica di Bertolo che si raggiunge attraversando le spire vibrate d’azzurro del drago che Perrone ha steso a terra, passando tra due opere di Baruzzi di un azzurro abissale, che si fronteggiano a destra e a sinistra dello spazio. Il blu torna ad addensarsi in un Terzo paesaggio di Bertolo e finisce sprofondando nella parete dove traguarda l’aula centrale, nell’inchiostro denso del dittico blu e viola di Serie Imperiale di Favelli.
Il rapporto con il due non esiste solo nella simultaneità degli elementi. Il possibile impossibile che sorge tra i contrari e gli opposti è per sua natura uno spazio di memoria. Nulla che accampi una duplicità di senso nell’ordine dello spazio potrà sottrarsi dall’abitare l’ambiguità del tempo.
Ogni rappresentazione che giunge a noi, nell’incontro con l’opera, è un sopravvenire da un fondo remoto. È un ripresentarsi, mai assoluto, mai irrelato, mai pienamente dimentico del museo, e sempre parte di diverse serie di concatenazioni dell’apparire, anche quando gli anelli si frangono e i collegamenti sembrano perduti.
A unire gli artisti di questa esposizione è la capacità non solo di tenere all’interno delle loro opere lo spazio che separa e unisce più rappresentazioni, ma anche di riconoscere il loro sovrapporsi nel tempo, di accogliere il cono d’ombra da cui provengono nel corpo stesso dell’opera e, così facendo, svelare l’inesauribilità dell’immagine. Un’inesauribilità, però, che non è soltanto un dono, una ricchezza. Ha in sé anche la consapevolezza della perdita. A ogni apparire qualcosa si chiarifica e qualcosa recede nel fondo, sparisce nel buio. A ogni rappresentazione ne segue sempre un’altra, proprio perché qualcosa è andato perduto. E ogni successivo mostrarsi è un’unione di nuova chiarezza e di nuova oscurità. Tenere in equilibrio due rappresentazioni è il contrario del desiderio di sciogliere un enigma. Vuol dire dare respiro all’ambiguità perché possano unirsi e reagire due o più illuminazioni e due o più perdite insieme. Accogliere un’univoca rappresentazione offre il rassicurante piacere delle dichiarazioni, ma significa dimenticarsi dell’ombra delle cose e dell’eco che segue il suono a tentare il vuoto del silenzio.
L’ombra attraversa l’intero lavoro di Barocco, non solo come chiaroscuro dell’immaginazione ma come luogo in cui la forma rifugge dalla compiutezza. L’ombra affiora sulle superfici di Favelli, nei segni lasciati da parti asportate, perdute. Così come da un buio fitto emergono alcuni suoi disegni di pubblicità, di pagine di giornali, di biglietti aerei che portano in loro una cupa tragicità del tempo. Un’ombra densa riempie le voragini scavate nella terra dei Pensatori di buchi di Perrone e gli occhi della sua Vittoria. Ma l’ombra che riguarda tutti e cinque gli artisti è quella dell’eterno ritorno delle immagini, del loro continuo risorgere. Per questo ho voluto che, come un filo sotterraneo, si dipanasse nella mostra la memoria del ’900. Tutti loro, in momenti diversi del loro percorso, hanno guardato ad artisti della prima metà del secolo scorso.
Credo che lo spazio di senso che vibra tra le molteplici immagini di una medesima opera sia affine allo spazio di senso che vibra tra l’opera e le diverse opere che l’hanno preceduta a cui è legata per affinità o rapporto diretto. Quale può essere nella natura di un’opera il due più contraddittorio e più risonante di tutti, se non quello di essere copia, eco, variazione, memoria di una diversa opera? E come accogliere e risolvere il due di un secondo artista, un’inconciliabile duplice autorialità? Nel guardare, nel lasciar rinascere, nel permettere la riemersione dell’immagine dal fondo, se qualcosa si tramanda e qualcosa va perduto, qualcosa rimane anche inconfondibilmente identico a se stesso e qualcosa si stempera, muta nel contatto con l’altro. Credo abbia ragione Colli quando dice che la rappresentazione è un rapporto tra due termini, instabili, cangianti, trasformantisi uno nell’altro, così che quanto in una rappresentazione è soggetto, diventa oggetto in un’altra.6 A tratti l’io si specchia in un diverso sé, creando una concatenazione di riflessi che intreccia le immagini e i loro autori in una doppia spirale.
Pur nella grande distanza dei percorsi individuali, per tutti e cinque gli artisti ricordare il ’900 nasce dalla necessità di lasciar affiorare un ricordo, di condividere un sentimento, un tono, un’atmosfera. Si tratta comunque di qualcosa di ben diverso da una molla citazionista. E forse non è facile spiegare la differenza se non, ancora, attraverso la consapevolezza della perdita e dell’insondabile spazio di profondità da cui quelle immagini riemergono. La citazione, chiusa tra le sue virgolette, può abitare un’opera, incastonarsi al suo interno, può portare il proprio chiuso contorno in un altro compiuto contorno. In questi artisti, invece, ogni affiorare comporta spesso anche una forma di cancellazione in un sovrapporsi che è concorde e discorde rispetto l’immagine originaria. Persino le diverse versioni della Vittoria di Perrone, che nascono come copie esatte della Vittoria di Adolfo Wildt, devono lasciar andare la forza retorica dell’originale per accogliere nel medesimo profilo, nelle stesse forme, gli opposti stati d’animo della tragicità e dell’ironia.
Alcuni riferimenti si sovrappongono. Morandi è una presenza importante in Favelli, come ci sarà spazio per dire, ma anche in Barocco, seppur in modo molto diverso e mescolato, nelle atmosfere metafisiche, a de Chirico. De Pisis traccia un ponte tra le marine di Bertolo e le fotografie di Baruzzi e tuttavia né le Marine Depisisiane dipinte da Bertolo sono riferimenti a opere specifiche del maestro, né, tantomeno, lo sono le fotografie di Baruzzi. Entrambi gli artisti sembrano piuttosto ritrovare, nella bipartizione dello spazio orizzontale, quel diverso gradiente concettuale del piano ravvicinato rispetto all’orizzonte. Così che l’assorta densità delle nature morte con cui de Pisis ingombrava il primo tratto delle sue spiagge riemerge in queste opere come qualità di spazio, come forma di concentrazione e di differenza dell’essere, più che come rappresentazione. Lì dove in de Pisis comparivano, sconcertanti e fuori scala, frutti, pesci e conchiglie, in queste foto di Baruzzi appaiono alcune sue tele, ospiti difformi dello spazio aperto, così come appaiono le macchie e le pennellate di Bertolo che, poste al di qua della linea del mare, mostrano l’al di qua della pittura, la realtà tangibile del segno che contraddice l’illusione dell’orizzonte dipinto.
Quando si pensa alla natura riaffiorante delle immagini, al loro costante risalire dal fondo della memoria, ciò che accadde nella prima metà del ’900 si presenta come un riferimento ineludibile. Dopo la cesura delle avanguardie, qualcosa andava riannodato. Un’esigenza che per lo più riguardò artisti che avevano operato il primo, storico distacco. Oppure artisti che, nella seconda parte del secolo, avrebbero compiuto un nuovo taglio, un nuovo allontanamento dalla continuità. Molti dei maestri dello scorso secolo presentano una biografia artistica spezzata a metà: prima rivoluzionaria – futurista, fauvista, cubista – poi improntata a una nuova classicità, a un nuovo ordine. Altri nacquero radicati nella consapevolezza della storia passata e poi si trovarono a voltare pagina, quasi d’improvviso, come in una conversione, per abbracciare l’Informale o l’Astrattismo, da figurativi che erano. Ma a ben guardare, le contraddizioni di quel secolo furono anche sincroniche perché ogni immagine sorgeva libera, per se stessa, avulsa dal fluire del tempo, persino in modo incongruente. Nell’arco di pochissimi anni, gli artisti si riservarono la possibilità di fondare la propria estetica su Giotto, sul Quattrocento, su Piero della Francesca, ma anche sulla lezione di Caravaggio, mentre nascevano seicentismi e ritorni all’Ottocento. E a considerare tutto questo nel suo insieme viene da pensare con Gertrude Stein che quello fu uno splendido periodo storico, molto più splendido di qualsiasi altro dove tutto sia apparso conseguente.
È come se una volta attuato il taglio, lo stesso della nostra astratta linea – rappresentazione della continuità – non ci fosse più modo di riassorbire la contraddizione che nasce nel crearsi del due: lo spazio invalicabile tra un punto e quello accanto non imbroglia solo i nostri passi sul foglio bianco della geometria, ma complica la considerazione del tempo. Così dall’inizio del ’900 a oggi l’arte non è più sfuggita all’esigenza di procedere per impulsi contrari, per allontanamenti e ricongiungimenti col filo della storia. Senza dimenticare che quel taglio delle avanguardie, certo eclatante, imparagonabile, non era in fondo il primo. In passato già diversi oblii avevano aperto vuoti e diverse reminiscenze avevano provato a colmare lacune, anche di interi secoli.
L’affiorare delle immagini dal fondo del tempo o da uno spazio altro, riguarda tutti gli artisti dell’esposizione. C’è una vera e propria tensione verso la superficie, una continua spinta in emersione leggibile nelle opere della mostra. Penso all’apparire incompiuto delle immagini dal fondo nei due dipinti di Bertolo che accolgono il visitatore, google+search+images+goya&disaster_of_war e google+search+images+refugees+boats; all’affiorare del disegno sulla superficie del gesso nelle opere di Barocco; al risalire da una profondità acquea delle linee e delle pennellate di Baruzzi; al farsi corpo, in rilievo, delle immagini mentali di Perrone sulla superficie delle sue sculture; al riemergere di marchi e scritte che si intravvedono sotto il risplendere dell’oro in Favelli e sotto il vapore celeste in Barocco.
Questo moto che nasce dalla profondità porta con sé, in alcuni di loro, un immaginario di fondi, di retri, di parti nascoste che si mostrano. Mi riferisco ai retri degli specchi di Favelli, in Estate 1978, raschiati ed esposti alla luce come se potessero mostrare tutte insieme le infinite immagini che sono trascorse sulla loro superficie nel tempo: il mondo familiare che vi si raddoppiava dentro, i volti e il loro invecchiare, il mutare delle stagioni e degli abiti. Penso ai fondi delle sue scatole di latta tagliate e pressate in Riflessi borghesi (Angeli), specchi anch’essi, più offuscati ancora, ma specchi a cui, prima del taglio di Favelli, ci si poteva affacciare solo affondando lo sguardo nell’interno di una scatola o rovesciandola, guardandola da sotto, come fosse la memoria stessa, fattasi contenitore, da osservare all’inverso. Molti retri appaiono tra le opere di Bertolo, e anche della sua Veronica è impossibile dire se il blu profondo che ci si offre allo sguardo sia il recto, il mostrarsi dell’immagine, o piuttosto il panno girato, per proteggerla. E cosa dire della bellezza dei retri delle sculture di Perrone, il loro secondo volto, liscio, liquido, incandescente. Mi piace pensare che qualche visitatore li scopra soltanto uscendo, che dopo essersi soffermato sul fronte delle opere, con le loro immagini, all’inizio del percorso, si ritrovi a notare la diversa trasparenza che vi si nasconde dietro, più tardi, tornando sui suoi passi, e provi a ricomporre in sé la doppia contraddittoria natura di quei volumi.
Ogni riemergere è anche una perdita, si è detto. Lo mostrano, con dolorosa evidenza, le opere che contemplano il gesto della cancellazione. Si tratta di un doppio movimento contraddittorio: quando un artista cancella qualcosa significa che lo ha reso presente per poi negarlo, ma anche, per quanto strano possa sembrare, lo cancella per ribadirne il senso, per dargli una diversa forza.
Una delle cancellazioni più evidenti in mostra è, in realtà, una cancellazione trovata. Sono le scritte stampigliate sui francobolli di Serie Imperiale di Favelli. Anch’esse hanno l’inaspettato potere di rendere più profondo il riverbero della storia sul volto di Vittorio Emanuele e di inserirne l’immagine in una catena di rappresentazioni destinate a emergere nel tempo, ognuna a dispetto della precedente.
Sono scritte quelle due cancellazioni di Favelli e ad altre scritte si applicano le cancellazioni di Barocco e di Bertolo. Anche questa, in fondo, è un’azione duplice e contraddittoria: la parola, col suo diverso statuto, entra nel campo dell’immagine, ma la sua parziale cancellazione ne sfuma i bordi, diluisce la nitidezza dei caratteri, la trasforma così in pittura, in disegno, riducendo la differenza di cui è portatrice.
Barocco rende evidente la sua scritta incisa nella scultura Senza Titolo, del 2018, cancellandola con un passaggio di grafite, ma nel farlo la esalta, fa di essa una scrittura d’ombra ed è in quell’ombra che il senso delle parole si dischiude. Nelle tele L’ospite ingrato e La religione del mio tempo Bertolo ha dipinto, come fossero stampati, i titoli e gli autori a cui le opere si riferiscono, ma poi vi ha sovrapposto alcuni segni di pittura spray. Ma la sua negazione che più risuona, quella che colpisce al cuore, è il mostrarsi, in una delle due tele, dell’immagine della cancellazione del tutto, della cancellazione del cosmo intero e di ogni aspetto della vita. La scritta quasi non dà a vedere di essere lì. A un osservatore distratto potrebbe sembrare poco più di una lunga macchia rossa al fondo dell’Ospite ingrato. Ma è in realtà un secondo titolo fortiniano, Composita solvantur, quello che sparisce quasi del tutto in una tenue nuvola rossa e non credo che altra scritta potrebbe esprimere con più intensità di questa il proprio significato nel venir meno.
In tutte le opere in mostra si impone qualche diversa forma di sovrapposizione, una visione su livelli molteplici, persino sinestetici, quando anche il suono viene a sommarsi nello spazio dell’opera. Un suono concreto, presente, come nel caso di Baruzzi, oppure evocato dalle immagini, come accade in Perrone e in Barocco, o attraverso la sua assenza, nel silenzio che avvolge molte opere di Favelli e che pare generarsi, tra strato e strato, in quelle di Bertolo.
Di molteplici forme di sovrapposizione e compresenza sono intessute tutte queste opere a tal punto che non è possibile darne conto in queste righe introduttive. È necessario invece lasciare spazio a letture del lavoro di ciascun artista perché non si terrebbe fede alle premesse di questa mostra se non si riconoscesse che ogni discorso generale che prova a tracciare legami tra le opere, può essere contraddetto dai legami che le riconducono all’unitario percorso del singolo artista. Anche le mie parole sono una rappresentazione: un presentare nuovamente il senso di queste opere. Come tali sono destinate a produrre nuova chiarezza, ma anche nuova oscurità: una piccola o grande perdita della totalità di significati inscritti nella complessa materia che trattano.
Sul principio di contraddizione è un progetto collettivo, ma intende lasciar emergere le voci personali degli artisti perché è alla diversità di quelle voci e alla profondità della loro eco in me che devo il pensiero, le ragioni e la necessità di questa mostra.
Maggio 2021
1. S. Weil, Quaderni, Adelphi, Milano, 1982.
2. G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano, 1969, p. 42.
3. A. Aguirre, Cosmological Koans: A Journey to the Heart of Physical Reality, W. W. Norton & Co, New York, 2019, p. 317, cit. in C. Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano, 2020, p. 92.
4. C. Rovelli, ibidem, pp. 162-163.
5. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 1975, pp. 86-87.
6. G. Colli, op. cit., 1969.