Quando si incontra Paola Anziché (Milano, 1975) colpiscono subito i modi delicati, flessi all’ascolto dell’interlocutore, rispettandone i silenzi e le pause, e la fermezza di esposizione dei concetti cari alla sua poetica, trasparenti e nitidi. Si delinea, in un lampo d’empatia, un’artista accordata al valore della natura, dell’unione tra società e singolo e dell’intreccio emotivo con il visitatore/osservatore, invitato a partecipare a un processo scientifico e creativo costantemente in fieri. In occasione della mostra La terra suona presso Quartz Studio a Torino, ho avuto con l’artista una conversazione sulle ricerche, sulle esperienze e sulle scelte stilistiche che hanno costituito il textus delle sue opere.
Federica Maria Giallombardo: Passando in rassegna tutto il tuo percorso artistico, ma soffermandosi in particolare sugli ultimi anni, affascina la tecnica-non-tecnica con cui ti approcci agli elementi. Il materiale utilizzato giunge a te in divenire dalla natura, senza alterazioni tecnologiche. La delicatezza con la quale lavori le fibre naturali rispettandone le caratteristiche non è solamente pratica di trattare le componenti del significante, ma è altresì un toccare con mano e veicolare i punti salienti del significato.
Paola Anziché: Ogni materiale guida la maniera di lavorarlo. «Vedere con le mani» è l’espressione che uso per descrivere la mia ricerca, in cui ogni progetto diventa una scultura creata attraverso la sperimentazione di diverse tecniche di tessitura e intreccio. La preparazione alla pratica manuale prevede la ricerca di testi e immagini che, nel tempo, sono diventati un vero e proprio archivio personale. L’interesse per gli aspetti gestuali dell’intreccio e della tessitura nasce dall’idea di riprodurre l’esperienza del gesto che si sviluppa di volta in volta attraverso la consapevolezza dell’azione delle mani, partendo da movimenti spesso ripetitivi. I materiali, selezionati per le loro caratteristiche fisiche, accompagnano le scelte progettuali e operative. Come ha sottolineato il curatore e scrittore americano Glenn Adamson in Thinking through Craft (2007), la manualità costituisce sempre un processo, un modus operandi, un approccio operativo che si esprime non solo attraverso oggetti statici (le opere), ma anche su un piano più ideativo, concettuale.
FMG: Si può affermare che la tua tecnica, e perciò la tua poetica, è attenta anche alle tematiche di sensibilizzazione ecologica? Che vi sia un’etica in tal senso?
PA: I tempi che viviamo richiedono cambiamenti radicali verso un’esistenza non solo più sostenibile, bensì sempre più in relazione con l’organico in ogni sua forma. La mia ricerca prevede, nel farsi, una connessione complessa e articolata dell’uomo ai materiali, prevalentemente naturali, sollecitando ogni volta una riflessione sul ruolo che questi attivano nella sfera sociale, culturale, economica ed ecologica.
FMG: Nelle tue opere la materia è essa stessa significato. Penso al tessuto in quanto textus – parola latina dalla quale derivano i termini italiani «testo» e «tessuto», narrazione e racconto della storia dell’uomo prima ancora della storia dell’arte. Il gesto antico e paziente del ricamo porta con sé il potere evocativo d’ogni racconto ed espressione, generando una trama sia visiva che emotiva.
PA: Sono interessata alla forma in cui il sapere, associato al gesto ripetitivo del lavoro manuale, è stato consapevolmente recuperato e reinterpretato da alcuni artisti visivi, in opposizione al crescente processo d’industrializzazione del secondo dopoguerra. La mia ricerca artistica indaga le forme in cui l’identità culturale si manifesta attraverso il tessuto e le diverse modalità di tessitura. Nella pratica plastico-scultorea che ho sviluppato, realizzando sculture morbide e tattili, l’intreccio viene rielaborato di volta in volta attraverso un processo personale che parte da uno studio dei materiali e delle loro peculiarità, cercando strade inedite di composizione. In questo senso, è necessario comprendere la funzione trasformativa che, attraverso l’esperienza fisica e materiale, integra competenze e abilità specifiche per produrre nuovi risultati, aldilà della consueta dicotomia tra l’aspetto ottico (puramente visivo) delle belle arti e il carattere aptico (tattile e sensuale) della pratica. Mi interessano soprattutto quelle procedure attraverso cui artisti e artiste si riappropriano di tecniche che possano reinventare con la libertà dell’amateur.
FMG: Penso anche all’idea di intreccio che si ripercuote nel gesto fisico di «legare» le strisce di tessuto tra loro e che al contempo echeggia l’intersecazione emotiva tra la tua vita e il progredire della Storia. È l’idea di trama che avvicina la testimonianza fisica dell’opera al vissuto personale. Il filo – del discorso, della memoria – segue e segna la biografia di ognuno, annodandosi e ricamando spazi, legami e concatenazioni a volte eccezionali e a volte reiterati e triti da una sorta di mitologia, nella quale le figure vivono molte vite e attraversano molte morti e dove sono compresenti e risuonano altre esistenze.
PA: I tessuti sono sempre stati usati per vestirsi, abitare lo spazio e costruire. Queste esigenze si ritrovano in molti e differenti contesti e fanno parte della storia dell’umanità e dei suoi insediamenti. In questo senso, ad esempio, l’architetto tedesco Gottfried Semper, in Lo Stile (1860-62), teorizza «le origini tessili dell’architettura», affermando che «l’inizio della costruzione coincide con l’inizio della tessitura». È importante ricordare che oggetti e prodotti intrecciati hanno accompagnato la storia dell’umanità sin dall’antichità. Molti oggetti usati quotidianamente, in una varietà di contesti culturali, sono stati realizzati a mano con fibre naturali intrecciate come macramè, vimini, stuoie di foglie di palma, tende in legno abitabili e trasportabili come le iurte mongole. I miei lavori sono in parte legati al pensiero di Semper, ma aprono anche riflessioni legate al corpo e al paesaggio.
FMG: Mi soffermo sul concetto di artigianato, o meglio sulla distinzione tra «artigiano» e «artista», di cui ho studiato la genesi e pubblicato studi di filologia e critica dantesca. Dante irradia gerarchizzazioni, definizioni e riflessioni sull’arte in tutta la Commedia, è infatti all’interno del poema che viene coniato il termine «artista» – la prima occorrenza si trova in Par. XIII (vv. 73-78) – punto di congiunzione semantica tra «artefice» e «artigiano» (entrambi derivati da artifex). Il termine, cristallizzato definitivamente nell’uso della lingua italiana, segna un divario tra chi instilla nella materia, attraverso l’ingegno, la scintilla creatrice di Dio amplificando la sostanza intrinseca della materia stessa, e chi produce oggetti di mera utilità pratica. Si instaura insomma una gerarchia tra l’artista, nobile ideatore, e l’artigiano, cioè colui che esercita una professione ordinaria.
PA: La riflessione sulle tecniche artigianali all’interno dell’arte visiva contemporanea continua negli anni a evolvere con il conseguente superamento della tradizionale distinzione fra arti decorative e prodotti artistici, peraltro preconizzata già a metà Ottocento dall’inglese William Morris (1834-1896) che coniò il termine handcraftsman, ovvero lavoratore manuale, artigiano-artista. Come ricordato in un importante saggio dal filosofo americano Larry Shiner ne L’invenzione dell’arte. Una storia culturale (2001), «Non vi è alcuna differenza essenziale tra l’artista e l’artigiano, l’artista è un artigiano elevato a una potenza superiore». La lettura dei fondamentali saggi Architecture without architects e The prodigious builders dell’architetto austro americano Bernard Rudofsky (1905-1988) mi ha inoltre portato a riflettere su diverse tematiche legate alla sostenibilità e all’eco-compatibilità, temi estremamente attuali e legati a una riscoperta del significato più profondo dei luoghi in cui viviamo.
FMG: Il «significato più profondo dei luoghi in cui viviamo» è riferibile anche agli spazi psicologici, intendo quei paesaggi dell’anima evocati attraverso il coinvolgimento dei sensi dello «spettatore» nelle tue installazioni. È una relazione intensa quella che si stabilisce tra l’osservatore – il suo corpo e le sue reazioni emotive – e le tue opere.
PA: Il mio lavoro, all’inizio, era fortemente performativo, spesso sviluppato in collaborazione con danzatrici, in una fase che ha avuto inizio a Francoforte sul Meno, in Germania. Nel 2005, infatti, lavoravo presso Das Tat, centro per la produzione di danza contemporanea che ospitava la compagnia del coreografo americano William Forsythe. La mia pratica è diventata più esplicitamente ambientale in occasione delle mostre presso la Fondazione Remotti (2009) e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (2010) e della performance alla Fondazione Merz (2009). In tutte e tre le occasioni lo spettatore poteva interagire con l’opera. Nel 2012, mentre stavo studiando i lavori degli anni Settanta dell’artista brasiliana Lygia Clark (Belo Horizonte, 1920 – Rio de Janeiro, 1988), ho realizzato un film sulle sue lezioni a Parigi e, da quel momento, ho iniziato a concentrarmi anche sull’aspetto sensoriale e relazionale del lavoro. Oggi, nella mia ricerca, uso materiali organici come bucce d’arancia, cera d’api, lane e fibre naturali e ho deliberatamente messo l’accento sulla fisicità dei fruitori.
FMG: Le materie che utilizzi divengono connettori, veicolatori di un’esperienza che è fisica a tutto tondo, visiva in primis, ma a volte anche olfattiva e sonora. Hai proposto al pubblico una vera e propria dimensione immersiva, non solo secondo una declinazione relazionale, ma anche generando situazioni metamorfiche.
PA: La relazione tra corpo e opera è una costante del mio lavoro. Scelgo spesso di mettere il fruitore a distanza intima con il lavoro, in modo che il lavoro possa lasciare la memoria di un’esperienza. Il visitatore deve attraversare, scavalcare, appoggiarsi, toccare. Soprattutto nei primi tempi mi interessava quasi catturare fisicamente lo spettatore, intrappolarlo attraverso dispositivi che superavano la consueta distinzione tra spettatore e performer. Uno dei lavori più impegnativi che ho realizzato per la Fondazione Merz, Aggrovigliamenti (2009), nasceva da una riflessione che era anche un omaggio a una «proposizione» di Lygia Clark, trasformata in un paesaggio morbido ed elastico. Per comprendere il lavoro bisognava immergersi e partecipare a un’azione collettiva. All’inizio l’installazione di elastici annodati era in uno stato di quiete, ma via via che il numero dei partecipanti cresceva e le loro azioni e reazioni si sommavano, si sviluppavano una serie di onde e di movimenti, arrivando a trasmettere un senso fisico di coinvolgimento che è sopravvissuto nella memoria di coloro che ne hanno fatto esperienza.
FMG: In tal senso si parla spesso di «lavori sensoriali» per le tue opere.
PA: I miei lavori «sensoriali» nascono in parte dall’attenta osservazione della natura, del mondo vegetale. Tutto è sensoriale in natura e la nostra memoria genera conseguentemente ricordi e sensazioni. Una passeggiata in un bosco, ad esempio, stimola fortemente i nostri sensi. Inoltre gli oggetti sensoriali appartengono a un bagaglio di storie che sono al centro del mio lavoro e rappresentano un punto di evoluzione dalla mia esperienza performativa vissuta in Germania quando, lavorando a contatto con il mondo del teatro, ho collaborato con dei danzatori. Mi interessava far interpretare i miei lavori a delle danzatrici, ideavo dei teatri viventi con delle brevi coreografie, dei passaggi e dei movimenti che animavano le sculture. Conclusa questa fase, ho pensato a come avrei potuto continuare la mia ricerca scultorea senza danzatori e a come la scultura potesse vivere anche senza il performer, come potesse ricordare una presenza o stimolare lo spettatore a un’interazione, come in un dispositivo. Così le mie sculture si sono trasformate gradualmente in oggetti sensoriali. Esse comunicano, esprimono, creano attraverso un contatto con lo spettatore. Negli ultimi anni sono passata da dispositivi performativi piuttosto condizionanti (Spaziando, 2010; Aggrovigliamenti, 2009) a lavori che coinvolgono l’osservatore avvolgendolo in una sorta di soft-touch (Fibre Naturali, 2016; I ritratti di Baku, 2014).
FMG: Ciò si evince perfettamente nell’installazione realizzata da Quartz a Torino. Si può intuire un’attenzione all’aspetto «terapeutico» dell’esperienza che effettivamente «travolge» i sensi del visitatore, generando una bolla spaziale meditativa che calma.
PA: Nel progetto La terra suona il lavoro mette lo spettatore a confronto con se stesso, con la propria percezione soggettiva e con il proprio comportamento nello spazio. Il visitatore è invitato a camminare senza scarpe sul tappeto-alveare, quindi a entrare fisicamente nell’opera. Entrando nell’opera-ambiente si percepisce un profumo persistente, quello della cera d’api che si sprigiona dalla rete che si espande nello spazio dall’alto, una sorta di calligrafia sospesa, in cui si intrecciano strisce di tessuti colorati, imbevuti di cera d’api. La cera d’api ha un effetto calmante. L’odore della cera d’api stimola il sistema nervoso e percettivo del nostro corpo e influenza il nostro umore. Il lavoro ti mette in uno stato d’ascolto, ma è anche un dispositivo, perché stimola la creazione di immagini e ricordi personali.
FMG: Hai accennato anche al progresso sociale umano (la rivoluzione industriale come sistema ordinato, ma spersonalizzante) e all’organizzazione perfetta delle api, modello virtuoso di produzione collaborativa con la natura, fondamentale per l’ecosistema.
PA: All’interno di un alveare si può riscontrare come ogni azione sia perfettamente organizzata e sincronizzata. Il lavoro delle api è costantemente mirato a creare un benessere comune, obiettivo che è raggiungibile solo al prezzo di una subordinazione di tutte le creature viventi partecipanti, artefici di uno straordinario lavoro di coordinazione in cui ogni ruolo è definito. Ogni ape, infatti, a seconda dell’età che ha, esegue un compito (che è anche ruolo), senza prevaricare le altre, bensì sviluppando una forma di cooperazione collettiva, attraverso cui il lavoro di ciascuna risulta indispensabile per ogni altra componente. Le api sono infatti definite insetti sociali e nella loro efficiente organizzazione persino la forma esagonale delle celle dell’alveare risponde a precisi criteri in cui per esempio una specifica quantità di cera è sufficiente a costruirne le pareti. Dalla mia fascinazione per tale sistema organizzato, ho sviluppato una modalità di lavoro con la tessitura, in cui gli intrecci di tessuto cerato ricordano una sorta di scrittura simile al volo delle api.
FMG: Riguardo alla tua ricerca, al lavoro progettuale, mi interessano due aspetti complementari, rari nel contemporaneo per la nitidezza che gli conferisci. Il primo abbraccia lo studio nelle università e le pubblicazioni scientifiche (di psicologia, sociologia, biologia e ovviamente di storia e critica d’arte), il secondo è uno sguardo ai modelli pregressi, al ritorno al primitivo, scevro dalle influenze poveriste.
PA: Alcuni tra i miei riferimenti sono architetti, paesaggisti, botanici e naturalmente artisti, figure a cui mi sono interessata e che hanno fatto della loro vita una ricerca continua, sperimentando costantemente le proprie modalità di lavoro. Due figure per me fondamentali sono stati gli americani Anna Halprin (1920-2021) e Lawrence Halprin (1916-2009), lei danzatrice e lui architetto paesaggista. I due hanno vissuto dapprima in Israele, all’epoca dei primi Kibbutz, poi hanno portato la loro esperienza di vita di comunità in California con progetti di architettura collettiva sviluppati tra la fine dagli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Tra le artiste che hanno ispirato le mie ricerche c’è la anche brasiliana Lygia Clark. Le immagini di archivio delle sue lezioni alla Sorbona di Parigi (1968-1975) sono state infatti lo spunto per la realizzazione di un video di interviste e di documentazione sull’artista che è risultato decisivo per lo sviluppo del mio lavoro. Lina Bo Bardi (1914-1992), architetto italiano trasferitasi in Brasile subito dopo la seconda guerra mondiale, mi ha invece affascinata per la sua spiccata sensibilità nel reinterpretare la cultura materiale del nord-est del Brasile. In generale mi interessano soprattutto le esperienze sviluppatesi negli anni Settanta, che personalmente considero di grande ispirazione, in larga parte da riscoprire e valorizzare, essendo stato un periodo storico ricco di anticipazioni.
FMG: Oltre allo studio teorico, indispensabile è parlare delle tue esperienze dirette, i viaggi, il rapporto con figure di altri settori. Penso alle tue residenze in Sud e Centro America e al dialogo nato con artiste donne contemporanee, ai colori di paesaggi qui opachi e lì vivacizzati da luci intense od oscurati da notturni silenzi. Non ricordo dove nel mondo, ma rammento anche lo studio delle tecniche di lavorazioni della lana e della canapa.
PA: Nel 2021 sono stata invitata, insieme all’architetto Anna Filippi, presso la Fondazione La Nueva Fàbrica ad Antigua, in Guatemala. Durante questa residenza abbiamo affrontato diversi ambiti di ricerca come la tessitura Maya e la tintura naturale di fibre naturali. Andando a ritroso nel tempo, nel 2017 ho partecipato alla residenza Kiosko, a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, dove ho potuto studiare le tecniche d’intreccio andino e indigeno di alcuni gruppi etnici emigrati nei centri urbani. Nel 2015, a Helsinki, ho partecipato al programma di residenza di HIAP, in cui ho studiato le origini dei tappeti lapponi e mi sono avvicinata alle influenze dei tappeti tradizionali realizzati dalla popolazione indigena Sami. Sempre nel 2015 sono stata invitata per una residenza dal Centro d’arte Yarat di Baku, in Azerbaigian. In quella occasione ho avuto la possibilità di approfondire le tecniche di tessitura locali tradizionali nei luoghi dell’antica via della seta. A Baku, cercando i tessuti che descrivessero l’identità della città e la sua storia, ho iniziato a occuparmi della lana attraverso il tappeto, elemento identitario della cultura di quel popolo.
FMG: Una curiosità, per concludere. Come pensi al futuro della tua ricerca?
PA: Non posso prevedere il futuro, ma mi auguro che sia ricco di esperienze interessanti. Il prossimo progetto concreto invece sarà negli Emirati Arabi Uniti. Si tratterà di un’indagine sulle tracce archeologiche lasciate dalle antiche culture nomadi che si concluderà con una mostra personale.
Aprile 2022