Tucci Russo. Un racconto condiviso

Antonio Tucci Russo è stato per me una figura di formazione, come la lettura in età giovanile di certi romanzi di Hermann Hesse. Mi ritrovo oggi, in età matura, e dopo la scomparsa il 21 aprile del 2023, o meglio dire, la diversa presenza di Tucci, a presentarmi.
È una cosa che ho già detto in diversa occasione: mi chiamo Elisabetta Di Grazia, ma chi mi si rivolge mi identifica come Lisa Tucci Russo. A parte una leggera e spontanea confusione nel dire come mi chiamo, il tutto mi piace: Lisa, sono sempre stata chiamata così, a parte mia madre che mi chiamava Lisi viste le origini austriache, Tucci, ad indicare un insieme, sia personale che professionale, e Russo, il cognome di Tucci. Tucci altro non era che il diminutivo di Antonio, che nel tempo è diventato quasi un doppio cognome che ha identificato anche il nome della galleria, per cui quando ci si rivolge a me come Lisa Tucci Russo mi sento perfettamente a mio agio.
Ho conosciuto Tucci quando avevo 17 anni e mi ha involontariamente lasciato dopo 50 anni di esperienze condivise e di cui, giorno dopo giorno, seguo il percorso spontaneo: “gli artisti, Tucci, Lisa: un insieme”. Ringrazio soprattutto gli artisti di essere al mio fianco e di permettermi questa continuità che intendo soprattutto come una continuità di pensiero/pensieri e realtà che lasciano tracce.
Il testo che segue è la sintesi di una serata molto gradevole e rilassata che si è svolta in galleria a Torre Pellice con presenze della comunità del luogo nel 2019. Tucci ha raccontato anche parti del suo vissuto nella Torino degli anni ’60, prima come poeta e poi come figura a fianco degli artisti. Luca Motto, giovane critico e curatore attivo anche a Torre Pellice per la sua collaborazione con la GAM del luogo, ha posto le domande in modo discreto e sensibile e, a mio giudizio, ha ricevuto le giuste risposte. LISA TUCCI RUSSO

Elisabetta Di Grazia: Questa serata è pensata per raccontare la nostra storia, che nasce nel 1974. Io giovanissima e lui per fortuna più maturo, quindi ha potuto insegnarmi delle cose. Stiamo insieme da allora. Ci siamo conosciuti mentre io stavo preparando la maturità. Tucci era in un momento di cambiamento, stava prendendo decisioni personali, tra cui quella di aprire un proprio spazio. Avevamo chiaramente posizioni diverse, ma l’ho seguito passo passo fino a oggi… ed è andata bene a entrambi.

Tucci Russo: Abbiamo condiviso in maniera paritaria la nostra vita. Nessuno fa le cose mai da solo, non esiste l’io assoluto – come purtroppo in questo periodo assistiamo sul piano politico. Lo abbiamo fatto con grande passione, con grande fede, pur nelle difficoltà che ci hanno accompagnato in questi anni. Le cose non sono mai state facili, quello che vedete è il frutto del nostro lavoro. Non sono entrati capitali da nessuna parte, se non quelli che ci siamo procurati lavorando. Insomma, questa è la storia.

Luca Motto: Vogliamo iniziare dall’inizio?

TR: Da dove vuoi.

LM: Allora, Tucci nasce a Carema da genitori catanesi… Quando giungi a Torino ed entri in contatto con l’ambiente culturale della città?

TR: Beh, da ragazzino, con i miei vivevamo nel quartiere di piazza Rivoli e io sono sempre stato molto stradaiolo. Nella strada, in quegli anni, si facevano degli incontri straordinari. Ho trovato dei compagni di strada e amici che vivevano nei quartieri a fianco, tra cui Paolo Mussat Sartor, Renato Ferraro. Con questi amici abbiamo creato un gruppo che si ritrovava, non dico quotidianamente ma sovente, per discutere i problemi della cultura e della politica. Nel gruppo c’era anche Giulio Sapelli, che avrebbe potuto essere il nostro Presidente del Consiglio, ma ha rifiutato, diventando un noto economista e docente di economia all’università di Trieste.
Con questi amici ci siamo iscritti al secondo circolo Gramsci, a Torino, che aveva sede in via Monte di Pietà, un luogo di ritrovo di intellettuali giovani che parlavano di cultura, ma animavano molto la politica. Qui faccio una serie di incontri molto interessanti, tra cui Gianni Milano, col quale cominciamo a intrattenerci sui problemi della poesia oltre che su quelli della politica.
Con il tempo in questo luogo nascerà un accordo con altri personaggi che si occupavano di poesia, come Vasco Are, che avevo trovato seduto in un bar a scrivere e bere. Un personaggio curioso e molto interessante. Gianni Milano aveva incontrato un altro giovane poeta, che per altro poi venne anche qui a Torre Pellice, Paolo Cerrato, il quale purtroppo non è più tra noi.
Con questi amici nel 1967 si pensò di fondare una casa editrice, alla quale demmo il nome di Pithecanthropus, ossia il primo uomo eretto che appare sulla Terra.
Gianni Milano aveva già conosciuto Fernanda Pivano, alla quale chiedemmo un benestare. Certo, per noi era un mito, una grande traduttrice, amica dei grandi scrittori, tra cui Hemingway, e soprattutto era colei che ci aveva portato tutta la nuova avanguardia americana, tutto l’underground dei poeti, da Ginsberg, a Gregory Corso, a Kerouac e così via.
A Torino c’era allora una libreria che si chiamava Hellas, diretta da Angelo Pezzana, che poi è stato fondatore del FUORI e allo stesso tempo, insieme a Guido Accornero, fondatore del Salone del Libro. Pezzana ci diede una mano, amava le nostre poesie, ci aiutò nella veste grafica e pensò di realizzare dei piccoli quadernetti con un’etichetta, come si faceva alla scuola elementare, con il nostro nome e il titolo delle poesie. Vennero distribuiti da lui e nello stesso tempo li portammo nelle gallerie d’arte, come Sperone, che era un punto di luce in quegli anni; li portammo all’Unione Culturale, insomma, fummo distribuiti in questo cuore cittadino che era quello che noi frequentavamo spesso.
Questo è stato il nostro ingresso nella situazione di Torino, che in quegli anni non era solo la città operaia. Nel cuore cittadino c’era un fermento intellettuale e avevamo due eccellenze di case editrici che erano Einaudi e Boringhieri. E poi c’era un altro punto di luce meraviglioso rappresentato appunto dall’Unione Culturale, fondata dal meraviglioso intellettuale Franco Antonicelli. Per parecchi anni il curatore è stato Edoardo Fadini, altro grande intellettuale, amante del teatro, che portò delle cose straordinarie in questa sede, come ad esempio il Living Theatre. Attraverso di lui Torino ebbe la possibilità di ospitare personaggi che in questa città affonderanno le loro radici, si sentivano a casa in questo cuore urbano che aveva due bar, uno era il Caffè Mulassano, l’altro era il bar dell’Unione Culturale, dove si ritrovavano tutti, anche gli artisti, da Mario Merz, ad Anselmo, a Zorio.
Diciamo che si era creata una situazione energetica molto interessante. Questo è il momento veramente cool della città. Non ci sono solo questi luoghi. Va ricordata, per dovere storico, anche la Galleria Notizie di Luciano Pistoi, che forniva informazioni straordinarie sugli anni Cinquanta e Sessanta, mostrando la prima grande astrazione americana e portando alla luce i lavori di Fontana, Manzoni, Castellani, oltre che esponendo i primi lavori di Giulio Paolini e di Luciano Fabro. Nella stessa area centrale c’era un altro luogo, la Galleria Martano, che presentava le tendenze degli anni Cinquanta, la pittura geometrica, la pittura analitica, facendo un lavoro ottimo e importante.
Parecchie notti le passavamo, inoltre, in un altro luogo incredibile, lo Swing Club, in via Botero, dove arrivavano i grandi jazzisti. Era un locale che rimaneva aperto fino alle sei del mattino. Dunque parlavamo di poesia, di politica e ascoltavamo la musica.

 

Tucci Russo, Maurizio Mochetti, Giulio Paolini, 1970, Palazzo Pretorio, Prato. Foto © Paolo Mussat Sartor
Tucci Russo, Maurizio Mochetti, Giulio Paolini, 1970, Palazzo Pretorio, Prato. Foto © Paolo Mussat Sartor

 

LM: Ci hai parlato del Caffè Mulassano, dell’Unione Culturale, di questi luoghi in cui hai conosciuto vari personaggi, ma quali sono gli artisti torinesi con i quali entri subito in contatto, anche prima del lavoro con la galleria Sperone?

TR: Gli artisti con cui sono entrato prima in contatto sono stati Mario e Marisa Merz, che tra l’altro ospitavano spesso il gruppo del Living Theatre, che andava a casa loro, erano molto amici. Con loro condividevamo molto, le poesie che io scrivevo, la loro arte, di cui parlavamo spesso. Questa casa di Mario e Marisa Merz era collocata quasi sulle rive del Po, era una casa sempre aperta, in cui non sapevi mai se quello che trovavi sul tavolo erano opere d’arte o cose che si potevano mangiare; una casa molto disordinata ma estremamente affascinante, dove c’era un via vai incredibile.
Ecco, loro sono stati i primi, insieme a Zorio – del quale non ho mai fatto mostre ma che ho sempre ritenuto un artista estremamente interessante – e poi Giovanni Anselmo.
Dimenticavo: un altro artista con cui abbiamo avuto un ottimo rapporto e anche una buona collaborazione insieme a Gianni Milano e Vasco Are è stato Michelangelo Pistoletto. In quegli anni aveva aperto lo studio ai giovani poeti, ai giovani filmaker. Da lui passammo delle serate molto piacevoli. In quel periodo Michelangelo stava cominciando a lavorare su una certa idea di teatro di strada, alla quale aveva partecipato anche Gianni Milano… Insieme frequentavamo un altro punto di luce della città che era il Piper, una discoteca messa in piedi da Pietro Derossi, che lo aveva realizzato come tesi di laurea in architettura. Era un posto molto interessante. Una serata organizzata da Pistoletto alla quale collaborammo fu per una performance che si intitolava Cocapicco e Vestitorito, in cui Pistoletto vestiva la sua compagna Maria con 100 metri di nylon, creando un vestito da sposa che da una scala scendeva sul pavimento, mentre io, Gianni Milano, Vasco Are e tanti altri creavamo una sorta di piccolo paesaggio con delle torce accese sul pavimento. Ci fu un buon rapporto con Pistoletto, poi a un certo punto io smisi di collaborare sul piano del teatro perché non condividevo certe posizioni, però fu un’esperienza estremamente interessante. Tornando al Piper, un altro evento bellissimo fu una serata in cui Carmelo Bene leggeva brani di Majakovskij. Fu eccezionale, Carmelo Bene era un personaggio incredibile, lo si poteva incontrare proprio al bar dell’Unione Culturale perché stava preparando uno spettacolo. Era eccezionale, un uomo non facile, spesso anche ubriaco, ma questo avveniva un po’ per tutti gli artisti.
Sicuramente dimentico molte cose, perché ne sono successe tante. Fra gli anni Sessanta e i Settanta c’è un rivolgimento sociale molto significativo in tutti i linguaggi, nel teatro, nella letteratura, nella musica. Diciamo che le arti hanno in qualche modo precorso quello che poi accadrà nel ’68. Tra gli artisti si esprimeva una forte denuncia, che veniva fuori in modo non direttamente politico ma era contenuta all’interno della loro creatività. Questa cosa era molto, molto, molto interessante.
Torniamo a Sperone, con il quale andrò a lavorare dopo il ’68. La sua galleria faceva da tramite con gli Stati Uniti, perché Gian Enzo aveva conosciuto due personaggi, Ileana Sonnabend e Leo Castelli – che ho avuto l’opportunità di conoscere anch’io – che furono i veri promotori della Pop Art americana. Ileana Sonnabend promuoveva molto anche l’arte italiana. Nella prima sede, a Parigi, organizzò ad esempio la prima la mostra di Pistoletto e successivamente le mostre di altri italiani.
Ecco, questa città che vista dall’esterno poteva sembrare una città grigia, in cui la Fiat era dominante come immagine, all’interno pullulava di vita propria, con intellettuali anche di grande livello. Ecco, un’altra situazione straordinaria che mi viene in mente, con la quale ci sono state delle liaisons, è stata quella del Gruppo 63, che fu presente varie volte all’Unione Culturale. Ricordo i dibattiti con Sanguineti e gli altri…

LM: Giovanissimo inizi a lavorare come direttore della galleria di Gian Enzo Sperone. Vuoi raccontarci chi era Sperone? Cosa ha significato la sua attività per la Torino che dalla metà degli anni Cinquanta, come ricordavi, diventa anche una città internazionale?

TR: Quella di Sperone è stata in assoluto la prima galleria in Italia a portare le opere dell’arte americana precedenti alla Pop. Ricordiamoci che, quando ancora non aveva aperto la sua galleria, attraverso Ileana Sonnabend e Leo Castelli organizzò la prima mostra di Lichtenstein, nel ’66, alla galleria Il punto. Una novità assoluta. Poi, nella sede che aprì in via Cesare Battisti, dove io l’ho realmente conosciuto bene, cominciò a portare le opere di Rauschenberg, i primi Jasper Johns, insomma, la Pop Art e poi il primo Minimalismo americano. Per esempio, espose le prime opere di Turrell, di Flavin. Uno dei collezionisti che acquistò molte opere di artisti americani fu Giuseppe Panza di Biumo, la cui unica sua carenza fu che non comprò mai l’arte italiana, perché ormai si era indirizzato verso quell’ambito geografico. Devo dire che successivamente, quando frequentò la mia galleria di Corso Tassoni, mi confessò che aveva fatto un errore a non occuparsi degli italiani, ma a quel punto era troppo tardi, non poteva tornare indietro.

 

Ugo Mulas, Gian Enzo Sperone, Tucci Russo, 1971, Galleria Sperone, Torino. Foto © Paolo Mussat Sartor
Ugo Mulas, Gian Enzo Sperone, Tucci Russo, 1971, Galleria Sperone, Torino. Foto © Paolo Mussat Sartor

 

LM: La tua esperienza presso Sperone si conclude nel 1974, quando decidi di aprire la tua galleria, sempre a Torino, in via Calandra, un grande spazio di circa 250 mq. Inauguri con una mostra di Pier Paolo Calzolari. Vuoi raccontarci di questo passaggio dalla fine del lavoro con Sperone all’inizio della tua attività autonoma?

TR: Sì, certo, ma prima vorrei fare una premessa. Gli anni vissuti con Sperone non solo mi hanno permesso di conoscere dei colleghi straordinari come Castelli e Sonnabend, che anche mia moglie ha avuto l’occasione di conoscere in una visita che facemmo a New York a entrambi, ma potei conoscere anche altri colleghi straordinari del panorama europeo, ad esempio Konrad Fischer, che è stato uno dei galleristi tedeschi più importanti in assoluto in Europa, che ha fatto un lavoro meraviglioso, soprattutto, ma non solo, sull’arte concettuale, sulla Minimal, portando i lavori di Carl Andre ad esempio. Sperone inaugurò la sede in corso San Maurizio proprio con una mostra di Andre.
Attraverso l’arte in questa città si era creato un rapporto con l’Europa che andava oltre le frontiere, era libero, totale. Dal 1968 al 1974 arrivano a Torino personaggi eccezionali che diventeranno i capisaldi dell’arte contemporanea in Europa. Dicevo della prima mostra di Carl Andre, che realizza le sue sculture calpestabili, ma penso anche a Gilbert & George, che fanno una performance meravigliosa nel 1970 alla GAM, in occasione della mostra, curata allora da Germano Celant, Conceptual Art, Arte Povera, Land Art, dove i due inglesi, vestiti da dandy e con la faccia dipinta d’oro, cantano una canzone decadente diventando scultura. Ricordo Bruce Nauman, che fu molto vicino alla cultura europea. Io rimasi veramente impressionato da lui; uno dei primi lavori che vidi era una sorta di ologramma, una lastra che veniva attraversata da un laser, e nella tridimensionalità dello spazio vedevi il corpo dell’artista nel vuoto. Era un’immagine impressionante, che suscitava un senso di morte, però era anche qualcosa di metafisico, non so come dire… Insieme a lui, successivamente, arrivarono artisti come Richard Long, che nel 1970 fa la sua prima mostra a Torino utilizzando il fango sul pavimento. È con Long che, anni dopo, aprimmo la galleria qui a Torre Pellice, proprio per omaggiare la vallata, perché lui è un artista che ha il mondo come studio, attraversa deserti, gallerie, musei con lo stesso sistema, senza creare differenze, utilizzando i materiali che trova lungo il percorso, legni, fango, pietre, lasciando tracce in deserti che nessuno mai vedrà, e che poi documenta con la macchina fotografica.
In anni insospettabili, dunque, arrivano in città queste avanguardie che modificano il nostro modo di intendere l’arte. Già gli anni ’60 hanno rappresentato una rottura, Fontana è uno dei primi artisti concettuali, Manzoni lo stesso, per non parlare del primo minimalista italiano che è Lo Savio, che a Roma fece le sue prime mostre alla galleria di Liverani, La Salita.
Ecco, questa è una Torino forse poco conosciuta, della quale si è parlato ancora poco. Non esiste una letteratura esaustiva su quegli anni che per me sono stati un’università a cielo aperto, non in senso teorico ma in senso pratico. Quando lavori a contatto con gli artisti e realizzi le mostre, non solo conosci l’uomo, ma conosci il suo lavoro in maniera diretta, il che mi ha permesso, diciamo, di raggiungere dentro di me una sorta di maturità che poi ha dettato le linee guida per gli anni successivi.

LM: È anche importante ribadire il concetto di gallerista. Io vi definirei “galleristi che seguono un progetto culturale”, per differenziarvi da quello che non siete, cioè dei puri e semplici mercanti d’arte. Vuoi dare una definizione di questi due termini?

TR: Mah, guarda, io ti spiego la ragione per cui noi abbiamo aperto la galleria. Alla fine del ’74, Sperone, che aveva fatto un percorso di straordinaria qualità, era arrivato a lavorare con 35 artisti, per cui era stato obbligato in qualche modo a trasformarsi in un mercante. Questo è quello che io non ho voluto fare fino a oggi ed è una delle ragioni di dissenso che ebbi con lui. Bisogna anche dire che in quegli anni la galleria di Sperone veniva utilizzata dagli artisti italiani non tanto per fare delle mostre, piuttosto, quando realizzavano un’opera, la portavano lì e veniva esposta. Voglio dire, c’era l’abitudine di parlare e di vedere continuamente queste opere, ma senza realizzare delle vere e proprie mostre. Si fece qualche mostra di Anselmo, qualche mostra di Merz, ma non in maniera continuativa. La maggior parte degli artisti che sposano lo Sperone di quegli anni sono in prevalenza stranieri. Io nel ’74 esco da quella galleria perché voglio ricostruire un tessuto italiano ricominciando da certi artisti, come ad esempio Calzolari, che è stato il primo che ho esposto. Perché Calzolari? Beh, la scelta è un po’ legata al mio sentirmi poeta (oggi purtroppo non pratico più la poesia, perché la poesia ha bisogno di silenzio e di un rapporto reale con la carta; non puoi tradire questa cosa). Nel lavoro di Calzolari, in quegli anni, riscontravo una sua sensibilità; quest’idea di presentare l’effimero attraverso delle sculture ghiaccianti, in cui l’opera era il ghiaccio che il motore del frigorifero, una volta messo in azione, ti faceva vedere, e che quando era spento era una semplice struttura, era molto interessante. In Calzolari c’era anche un atteggiamento performativo che dava alle opere una vitalità che le metteva in movimento. L’opera dialogava con quello che avveniva all’interno dello spazio grazie ai personaggi che vi si muovevano. Calzolari mi sembrava un artista completo in questo senso.

 

Pier Paolo Calzolari, Luogo, Persona, Tempo, ognuno dei quali influisce sull’altro, 22 febbraio 1977, veduta della mostra, Galleria Tucci Russo, Torino. Foto © Paolo Mussat Sartor
Pier Paolo Calzolari, Luogo, Persona, Tempo, ognuno dei quali influisce sull’altro, 22 febbraio 1977, veduta della mostra, Galleria Tucci Russo, Torino. Foto © Paolo Mussat Sartor

 

LM: Un anno dopo l’apertura della galleria in via Calandra, ti sposti in una seconda sede, presso il Mulino Feyles, nella zona di San Donato. Quali sono gli artisti che esponi per primi?

TR: Dunque, nella sede di via Calandra siamo stati quattro mesi, in cui a Calzolari si sono successi rapidamente altri due artisti che si collocavano tra gli anni ’70 e la nuova generazione. Facciamo la prima mostra di Marco Bagnoli, che mi era stato presentato da Calzolari, il quale in quegli anni viveva a Milano e frequentava i giovani artisti. Bagnoli era un toscano, amico di Remo Salvadori, ed ecco che nasce un rapporto. Bagnoli raccoglie l’eredità di quella concettualità di cui parlavo prima, che viene fuori dall’arte americana, vista però anche attraverso un atteggiamento direi filosofico. La mostra racconta la storia di un sogno. Una ragazza fa un sogno che viene narrato sulla porta della galleria, che è semichiusa e all’interno ci sono delle opere che costituiscono lo spazio e il tempo del sogno. Una seconda versione venne poi realizzata a Pescara nella galleria di Lucrezia de Domizio, che stava lavorando molto con Joseph Beuys e altri.
Poi arriviamo in Corso Tassoni, grazie alla segnalazione di un nostro amico. Un posto meraviglioso, un mulino industriale. Lì facciamo, tra le altre, anche la prima mostra di Sandro Chia. Anche Chia è toscano, era amico di Bagnoli, e io lo conosco sempre grazie a loro. In quel momento aveva già esposto nella galleria di Liverani a Roma.
Quindi noi abbiamo iniziato a fare un lavoro partendo da una situazione più conclamata, quale era quella di Calzolari, ma immettendo rapidamente la nuova generazione.
Nel frattempo a fianco della galleria si libera uno spazio che indico subito a Mario Merz e lui lo prende. Uno spazio bellissimo, di 250 mq. Io e Mario ci vedevamo quotidianamente, ci fu un “matrimonio” che durò 15 anni. La seconda mostra che realizziamo fu proprio la personale di Mario Merz, nel 1976, la famosa mostra del tavolo a spirale con le fascine e la frutta messa in maniera tale che potesse essere quasi numerata, e insieme c’era la serie dei pacchi di giornali. Erano i giornali avanzati che dovevano andare al macero, ma che costituivano ancora un fiume di informazioni. Merz aveva intervallato un pacco con l’altro utilizzando la famosa serie di Fibonacci, il matematico pisano che nel 1202 aveva scoperto questa progressione utilizzata in biologia. Ma Merz la utilizza sia in senso matematico che in senso poetico, ovviamente. La realizzazione di quest’opera io la vedevo e la leggevo come una natura morta, che si esprimeva attraverso un fiume di informazioni coagulate in questi giornali bloccati e illuminati dalle luci al neon e il profumo di frutta che si sentiva entrando nella galleria.
Successe poi una cosa piuttosto interessante. Come dicevo, la galleria era confinante con lo studio di Merz e in occasione di questa mostra facemmo in modo che ci fosse una continuità di passaggio tra la galleria e lo studio. Erano diventati una stessa cosa, una stessa immagine, un tutt’uno. Mario appende le prime tele meravigliose, giganti, di 4 metri per 3, alle travi dello studio, in cui appaiono le prime spirali con le lumache con la serie di Fibonacci. Non dimentichiamoci che lui nasceva come pittore astratto-informale negli anni Cinquanta… (E infatti, a un certo punto, in un secondo momento, tornerà a considerare la pittura quando negli anni Ottanta artisti come Sandro Chia, Enzo Cucchi – di cui faremo una mostra nel ’79 – cominceranno ad affrontare la pittura in modo diretto, facendo un attraversamento che si appoggiava un po’ alle radici ideologiche dell’Arte Povera, o dell’arte concettuale, per poi abbandonarle e passare tout court a una pittura che aprirà anche le porte del mercato in generale).

 

Una veduta della mostra di Sandro Chia La spada e il culo, 10 maggio 1976, Galleria Tucci Russo, Torino. Foto © Paolo Mussat Sartor
Una veduta della mostra di Sandro Chia La spada e il culo, 10 maggio 1976, Galleria Tucci Russo, Torino. Foto © Paolo Mussat Sartor

 

LM: Fin qui abbiamo parlato anche dei grandi spazi che hanno caratterizzato, e caratterizzano tutt’ora, le tue gallerie. Nel tuo indirizzo culturale di gallerista, quanto conta lo spazio in dialogo con l’opera? Penso sia un aspetto fondamentale del tuo lavoro.

TR: Sì, lo spazio è molto importante. Proprio in quegli anni lo spazio della galleria assume una dimensione diversa. Questo ce l’hanno insegnato in parte gli artisti americani, che dallo studio tradizionale romantico entrano dentro gli spazi industriali di New York, andando nelle parti fatiscenti e drammatiche della città, che rimettono in funzione dandogli un’energia. I grandi spazi industriali della Bowery, a New York, dove c’erano gli alcolizzati, diventano gli spazi degli studi degli artisti. Questo dà allo studio una dimensione diversa, che risiede proprio nello spazio e che porterà anche a un cambiamento nella funzione stessa del lavoro dell’artista. La galleria si adeguerà a questo. Noi siamo stati tra i primi a farlo, già nello spazio di Sperone di corso San Maurizio, che non era gigantesco, ma era già uno spazio di 200 mq, un primo piano, una sorta di loft, per intendersi. Con il Mulino Feyles abbiamo ampliato questo aspetto, che è diventato veramente importante. Ed è accaduta, in quegli anni, una cosa interessante, ossia che gli artisti, a proposito proprio dello spazio, avevano ingaggiato una sorta di competizione nel lavoro, per cui se qualcuno faceva un certo tipo di progettazione nello spazio della galleria, l’altro rispondeva utilizzando lo spazio in una maniera differente, dialogando, quindi, proprio sulla progettazione. È stato molto, molto interessante.
Forse oggi questi grandi spazi, che sì sono comunque utili e straordinari, sono meno centrali. L’arte è anche cambiata molto, il mercato è diventato preponderante rispetto alla sorgente naturale e creativa che c’era in quegli anni e che non aveva problemi di confrontarsi col mercato. Gli artisti avevano veramente una spontaneità nel fare il lavoro, nasceva dell’arte che era proprio trasparente. Questo era molto importante. Nel corso del tempo le cose si sono modificate, hanno preso un’altra piega. Forse l’arte oggi ha bisogno di essere raccolta in spazi più piccoli, più intimi, c’è bisogno di confrontarsi di più con l’intimità. Questo non vuol dire che noi abbandoneremo gli spazi di Torre Pellice, nei quali continueremo a operare, ma, diciamo, questi spazi obbligano l’artista a una certa musealità.

EDG: Negli anni Settanta, quando gli artisti avevano questa esigenza di spazio per poter dar forma al loro immaginario ed esprimere la propria sensibilità, di fatto non esistevano musei per l’arte contemporanea, quindi è chiaro che la figura del privato, del gallerista, si sostituiva all’istituzione, che socialmente mancava. In effetti, il Castello di Rivoli si è inaugurato più tardi, nel 1984, quando tutta la storia legata all’Arte Povera a Torino si era già concretizzata. È un dato sociale da tenere presente, che spiega perché dei privati si mettono a cercare degli spazi giganteschi per fare delle mostre che spesso erano anche invendibili. Era proprio il desiderio di poter dare un’idea di quello che l’artista poteva fare. Tutte queste esigenze nel tempo si sono affievolite, perché i musei hanno iniziato a occuparsi anche di arte contemporanea e tutto il sistema dell’arte è cambiato. Però, diciamo, l’idea dello spazio effettivamente fa parte di tutta la nostra storia, e questo di Torre Pellice tiene fede agli inizi.

TR: Quello che dice Lisa è molto vero, sono stati i galleristi in Italia a promuovere l’arte, non i musei. I musei sono arrivati in seconda battuta, anche perché tendevano a rappresentare il moderno. Va detto con molta onestà che l’unica che si preoccupò di acquistare, oltre al moderno, anche quello che stava accadendo nella contemporaneità fu la famosa Palma Bucarelli, alla Galleria Nazionale di Roma, che ricordo come una donna molto illuminata, affascinante. Venne da Sperone e cominciò col comperare, per esempio, un lavoro di Zorio, perché aveva capito che stava succedendo qualcosa di importante nel sistema. Gli altri arrivano dopo, perché ci sono delle gallerie – che per dovere storico bisogna citare, come la galleria L’Attico di Fabio Sargentini, a Roma – che hanno fatto un lavoro davvero importante. Non solo L’Attico ha presentato mostre come quella famosa dei cavalli di Kounellis, ma propose anche tutta quella parte di artisti come Smithson e poi i danzatori americani, cose davvero interessanti. Inoltre, è stata la galleria di Gino De Dominicis, il quale era partito da operazioni di tipo performativo e metafisico che a un certo punto abbandonerà per entrare in una pittura di tipo alchemico metafisico, citando De Chirico, guardando un po’ a tutto quel panorama surreale. A Napoli, invece, Lucio Amelio aprirà la Modern Art Agency, che porterà l’arte italiana, ma anche Beuys, anche Warhol, in un sud dove c’era un deserto di informazioni, dove non c’era nulla.
Queste cose vanno ricordate, perché ci sono stati personaggi che si sono battuti con grande fede. Quello che noi abbiamo vissuto in quegli anni è stata una stagione di fede assoluta. Ci siamo battuti in questo senso, non ci siamo mai preoccupati dell’aspetto mercantile del problema, e come noi anche le altre gallerie che in quegli anni venivano alla luce. Si facevano le mostre accettando progetti che erano praticamente invendibili. Poi, certo, quando ci sono dei personaggi illuminati, dei collezionisti illuminati che ne capiscono l’importanza, l’utopia si può anche vendere. Difatti la mostra di Merz con il tavolo con la frutta la vendetti, perché Merz mi diede l’opportunità di farlo, ossia di venderla in maniera separata, cioè di vendere il tavolo con la frutta e la scultura dei giornali. E infatti un’opera fu venduta a un collezionista francese, un banchiere, e l’altra fu venduta a uno straordinario collezionista belga che fu il primo collezionista che venne a trovarmi nella sede di Corso Tassoni. Era il presidente della Fondazione Annick and Anton Herbert, ancora attiva oggi a Gand con una collezione bellissima. Successivamente comprò l’intera mostra di Anselmo. D’altronde, il Belgio va citato come paese di eccellenza nel collezionismo, perché è un paese con una borghesia altamente illuminata, con personaggi che amano e seguono l’arte con molta attenzione. Quando ti incontri con questo tipo di personaggi che danno all’arte l’importanza dovuta e che comprano le opere per l’amore dell’arte… è  chiaro che poi nel tempo capitalizzeranno anche, come è giusto che sia, ma in quegli anni lì non era quello il motore primario.
Anche questo va detto, ossia che la figura del collezionista è cambiata. Torino ha avuto dei collezionisti estremamente interessanti. Io citerei, ad esempio, Laura e Corrado Levi, che sono stati veramente due personaggi straordinari, che hanno cominciato a comperare le prime opere dell’Arte Povera, hanno comprato l’arte americana e così via, e lo facevano con una passione vera. Corrado Levi è stato insegnante al Politecnico di Milano, dove invitava gli artisti a parlare del loro lavoro, quindi un collezionista che aveva veramente un cordone ombelicale con quello che succedeva nell’arte.
Quello è stato un momento sostanziale, in cui i privati si sono assunti il piacere, pur nelle difficoltà, di promuovere l’arte. Solo dopo sono arrivate le istituzioni. Che ben vengano e con le quali siamo contenti di collaborare.

 

Giovanni Anselmo, Mentre l’ago magnetico si orienta e oltremare verso mezzogiorno e verso mezzanotte appare, 13 maggio 2012, veduta della mostra, Galleria Tucci Russo, Torre Pellice. Foto © Paolo Mussat Sartor
Giovanni Anselmo, Mentre l’ago magnetico si orienta e oltremare verso mezzogiorno e verso mezzanotte appare, 13 maggio 2012, veduta della mostra, Galleria Tucci Russo, Torre Pellice. Foto © Paolo Mussat Sartor

 

LM: Hai parlato di opere invendibili e del collezionismo. Diciamo che nel periodo dell’Arte Povera forse una parte dei collezionisti non così illuminati aveva più difficoltà ad acquistare questo tipo di opere a causa delle dimensioni.

TR: Sì, non erano opere che si potevano ospitare in un salotto.

LM: Poi arriva il periodo della Transavanguardia, si torna alla pittura, e l’opera torna a essere più facilmente acquistabile. Molti galleristi o mercanti d’arte cavalcano quest’onda, ma tu rimani fedele alla tua linea culturale.

TR: Proprio in quegli anni lì, Lisa entra a lavorare con me in galleria e a essere molto collaborativa. Ci siamo resi conto che questi artisti stavano facendo un attraversamento, ma per arrivare dove? L’idea della performance, della mostra, che era costruita con vari elementi, si stava riducendo a che cosa? Alla mera dimensione del quadro? Che, per carità, è importante, ma che dal mercato è recepita immediatamente come qualcosa che è facilmente collocabile, che entra nelle case più facilmente. Ora, se da un lato noi abbiamo fatto le prime mostre di Cucchi e di Chia, mi ricordo che nel ’79, dopo la seconda mostra di Sandro Chia, andai a Roma per comprare da lui degli acquerelli e lui mi disse: «Se vuoi comprarli, adesso ci sono questi mercanti che arrivano da qui, da lì eccetera, che mi danno un sacco di soldi». E io gli dissi: «Guarda, io non sono per niente d’accordo. Tu sei un artista o un industriale? Io non posso, dall’oggi al domani, triplicare il prezzo perché tu hai questi signori che hanno capito che stanno facendo degli affari con il tuo lavoro». E così ho rotto i miei rapporti con quel tipo di sistema.

EDG: C’è stato anche un discorso più complesso rispetto a quegli artisti. Ricordo benissimo quando hai fatto le mostre di Sandro Chia, di Enzo Cucchi, rispettivamente nel ’76, ’78 e nel ’79; erano mostre in cui anche loro avevano l’idea dell’installazione. Solo che dopo, negli anni Ottanta, è come se avessero attraversato l’avanguardia per farsi conoscere e poi avessero fatto un salto indietro sul sistema della pittura, con tutti i vantaggi che ne conseguivano. Il punto di rottura è stato ideologico.

TR: Sì, è stato ideologico. Però voglio dire questo, che spiega come loro già tendenzialmente corressero su un binario che era quello di vendere bene le cose. Per la mostra di Cucchi, lo andai a trovare perché avevo visto le sue opere a Bologna da Mario Diacono. Aveva fatto un’installazione che mi era piaciuta, perché non c’era solo la pittura, era organizzata in maniera molto organica. Io volevo ripetere una cosa analoga, ma quando andai a trovarlo nel suo studio, mi disse che voleva fare una mostra solo di quadri. Io gli dissi che mi sarebbe piaciuto se avesse fatto qualcosa di più organico. Voglio dire, la pittura va bene, ma vorrei che tu ti giocassi la mostra, un po’ come l’hai giocata da Mario Diacono. Dopo varie insistenze è nata la mostra, dove lui mise la pittura, ma allo stesso tempo fece un grande quadro, di circa 5 x 3 m, da cui veniva fuori una ceramica rossa in cui era dipinto un gallo. Sul pavimento con una scopa aveva dipinto una sorta di triangolo che andava a confluire e a toccare due zanne di cartapesta gialle che venivano fuori dalla parete opposta dello spazio. Ne risultò una mostra che aveva un processo molto più organico. Successivamente ho capito che c’era qualcosa che non funzionava, non volevo entrare in questo contesto, che stava diventando molto aggressivo. A un certo punto, furbescamente, Achille Bonito Oliva si impossessa di questa situazione nuova e organizza una mostra a Genazzano, dove insieme a Cucchi, Chia, Clemente, De Maria mette gli artisti dell’Arte Povera, perché voleva che ci fosse un supporto ideologico all’interno. Come a dire: quella situazione nuova nasceva supportata anche da un’identità forte quale era quella venuta fuori in quegli anni con l’Arte Povera.
Così io mi sono allontanato, e per far capire che c’erano delle posizioni diverse faccio due mostre che vogliono rispondere a questa situazione. La prima è una personale di Salvatore Scarpitta, che aveva lavorato con Plinio De Martiis a Roma e che poi abbandonerà l’Italia per andare a New York e lavorare con Leo Castelli. I quadri bendati di Scarpitta avevano delle tensioni all’interno, sostanzialmente stavano tra la pittura e la scultura, evocavano tutto un panorama degli anni ’60 che poteva ricordare anche un po’ le tele piegate di Manzoni.

EDG: Queste due mostre per noi erano un po’ anomale, però era come dare un esempio di quello che noi pensavamo dovesse essere la pittura, una sorta di risposta alla situazione rappresentata dalla Transavanguardia, che comunque, essendo allora preponderante e pesante sul mercato, ci ha dato poi un input per aprirci a una situazione internazionale, ad artisti come Richard Long, Tony Cragg…

TR: Sì, esatto, la mostra di Scarpitta era un modo di dare un certo tipo di identità alla pittura e alla scultura allo stesso tempo, perché in Scarpitta ci sono i due elementi. Lui poi fece anche sculture bellissime, per esempio le slitte degli indiani. Quando venne a Torino, ci raccontò delle cose anche molto interessanti sul clima americano. Come artista italiano era un po’ stritolato da questi giganti della Pop Art che lavoravano con Castelli, che toglievano spazio, i vari Rauschenberg, Johns, eccetera, che apparivano all’orizzonte in maniera veramente forte, molto sostenuti da Castelli.
La seconda mostra che facemmo, proprio per dire che la pittura era stata affrontata anche con tematiche forti, fu una personale di Mario Schifano. L’idea della mostra nacque da me, ma anche da Corrado Levi. Andammo a trovare Schifano, che era molto interessato a fare questa mostra da noi perché voleva rientrare in un certo tipo di panorama… Schifano era entrato in una fase difficile della sua vita, la droga era preponderante, produceva tantissimo. Ma siccome la pittura era nel suo DNA, anche quando faceva 50 quadri, erano straordinari, perché ce l’aveva dentro. La mostra fatta da noi fu giocata su 3/4 tematiche. Fu molto interessante. Un tema furono gli orti botanici; un altro tema venne fuori dall’immagine di Cézanne fotografato da Émile Bernard, che lui ripropose in una serie di 10 – adesso non ricordo con precisione, erano parecchi, forse 15 quadri di 1  x 1 m di cui aveva dipinto anche la cornice – in cui l’immagine di Cézanne cambiava progressivamente; un’altra serie era legata all’architettura, e un’altra ancora al balletto. Fu una mostra bellissima e fu firmata col nome suo e con quello della galleria, come a dire: questi quadri li ho fatti per Tucci Russo. Tra gli acquirenti ci furono l’amico Giulio Einaudi, che ne comprò una serie, il critico Paolo Fossati – che tra l’altro curava una preziosa collana per Einaudi – che comprò un orto botanico. Questa mostra era significante, era come dire: volete la pittura? Ecco, questa è la pittura.

LM: Allora, prima di passare a Torre Pellice, visto che hai nominato Giulio Einaudi: c’è un’affinità, secondo me, tra il suo lavoro nel campo dell’editoria con il tuo nel campo dell’arte. Einaudi si è sempre dichiarato un editore puro, che non si assoggettava alle leggi del mercato. Poi hai citato la collana curata da Paolo Fossati. Vuoi raccontarci dell’amicizia con Giulio Einaudi?

TR: Giulio Einaudi l’ho conosciuto da Sperone, perché sovente il sabato pomeriggio arrivava in galleria. Era un uomo curioso, voleva sapere quello che succedeva nell’arte, ci prendevamo una bottiglia di whisky, gli piaceva bere, bevendo, chiacchierando, gli raccontavamo quello che succedeva. Era un uomo innamorato della cultura in generale, un uomo di grandissima curiosità, che purtroppo non è stato sostenuto, ahimé, dalla sinistra italiana che, mi spiace dirlo, ha fatto tonnellate di errori, e li paghiamo. Insomma, era un uomo intelligente, sensibile, che amava le cose. Mi ricordo che proprio discutendo con lui e Sperone venne fuori la domanda: perché tu che segui così tanto le cose straordinarie della tua casa editrice, con scrittori così importanti ed eccezionali, non fai qualcosa per gli artisti? Non apri una collana con gli artisti? E fu così che incaricò proprio Paolo Fossati, il quale realizzò i primi libri, dedicati uno a Giulio Paolini, uno a Luciano Fabro, e il terzo a Giuseppe Penone. Poi la collana si chiuse, perché forse Fossati non aveva così tanto interesse nel portarla avanti, gli interessava di più essere presente in maniera più storica dentro le cose.
Con Einaudi ci siamo visti anche successivamente, ad esempio quando fui coinvolto dall’amico Guido Accornero, che fu uno dei fondatori del Salone del Libro, il quale ci chiese che gli artisti facessero dei manifesti per il Salone, e così nacquero due manifesti, uno di Mario Merz, bellissimo, l’altro di Daniel Buren. Nella seconda edizione del Salone del Libro, Einaudi volle festeggiare la casa editrice, l’anniversario della casa editrice, nella mia galleria di Corso Tassoni, ed era in corso la mostra di Richard Long. Vennero Giulio Carlo Argan e tutti gli scrittori. Per me fu un grande onore poterlo fare.
Quando, per le poesie pubblicate nel ’67, avemmo il processo con Gianni Milano e gli altri, Argan fu uno di quelli che si prese la briga di scrivere una lettera a nostro favore, insieme a Fernanda Pivano, Giordano Falzoni e altri.

LM: Dopo l’esperienza della galleria al Mulino Feyles, c’è un passaggio a un’altra galleria, in via Gattinara, che dura poco, poi c’è un periodo di crisi che è connesso alla guerra del Golfo, infine, il passaggio a Torre Pellice. Ci volete raccontare questo momento?

TR: Dunque, purtroppo nella sede di Corso Tassoni non siamo potuti restare, perché ci furono delle difficoltà con chi aveva comprato allora l’edificio, ci fu una causa, e alla fine decidemmo tutti di andarcene. Ci spiacque separarci da Mario Merz, che dovette trovare un altro studio. Noi, nel 1990, trovammo questa sede di via Gattinara, dove siamo stati per quasi quattro anni: un edificio industriale degli anni ’50 di 1000 mq. Aprimmo con un artista che vidi per la prima volta nel 1979 a Stoccarda, dove ero stato invitato per presentare gli artisti emergenti italiani da un mio collega tedesco che aveva fatto un’esposizione internazionale. Lì vidi il primo lavoro di Tony Cragg, erano dei frammenti di plastica messi sul pavimento. Mi piacquero e andai a cercarlo. Io invece portavo a Stoccarda Sandro Chia ed Enzo Cucchi, che poi passeranno a lavorare con Paul Maenz, che ha avuto una galleria a Colonia molto importante, dove ha fatto molte mostre con Giulio Paolini e via dicendo.
Abbiamo dunque aperto la nuova sede con Cragg ­– di cui avevo già fatto mostre al Mulino Feyles, la prima nel 1984, uno scultore estremamente eclettico, che ha utilizzato tutti i materiali. Alla sua mostra successe quella di Wim Delvoye, un altro artista degli anni ’80, belga, con il quale abbiamo realizzato una sola personale. Espose anche al Castello di Rivoli in una mostra la cui tematica era quella della decorazione barocca e gotica. Da noi aveva ricostruito in legno un cantiere di lavoro che aveva fatto realizzare in Thailandia da alcuni bravi artigiani. C’era una betoniera decorata con elementi ottocenteschi, c’erano i cavalletti, i mattoni sul pavimento… Alla mostra di Delvoye seguì quella di Maria Nordman, un’artista americana che invece utilizzava la luce; faceva parte di quel gruppo di americani del quale accennavo all’inizio. Lei viveva a Santa Monica.
Poi ci fu una mostra di Richard Long, ovviamente molto bella e successivamente un’altra dedicata a Thomas Schütte, che avevamo visto dal nostro collega Konrad Fischer e che avevamo già esposto, peraltro, in Corso Tassoni.
A un certo punto, arriva un momento di crisi internazionale, la guerra del Golfo paralizza l’economia in generale, si susseguono alcuni anni difficili. Così decidiamo di abbandonare Torino e di venire a Torre Pellice. Avevamo comprato una casa sulla collina di Luserna, dove viviamo tutt’ora piacevolmente. In tre mesi ristrutturiamo uno spazio al piano terra e inauguriamo con un progetto di Richard Long, che come dicevo per noi significava omaggiare la vallata, perché lui è un artista che lavora con la natura. Fu una mostra in cui il pubblico ci seguì, arrivarono 700 persone a Torre Pellice, fu un’inaugurazione meravigliosa.

 

Richard Long, veduta della mostra, Galleria Tucci Russo, Torre Pellice, 19 ottobre 2002. Foto © Enzo Ricci
Richard Long, veduta della mostra, Galleria Tucci Russo, Torre Pellice, 19 ottobre 2002. Foto © Enzo Ricci

 

LM: Essendovi trasferiti lontano dalla città, quanto conta per voi il rapporto con la natura? Penso che lo si possa intuire dagli artisti che rappresentate, tipo i citati Penone, Long o anche Christiane Löhr…

TR: Noi abbiamo imparato a conoscere meglio la natura da quando siamo arrivati qui, perché nella città ti confronti con le architetture e al massimo con gli alberi, coi parchi urbani. Quando sei qui cominci a capire cos’è veramente un albero, cos’è veramente la natura che ti sta attorno. Devo dire che vedere un cerbiatto – sotto la nostra casa ce n’è uno che passa quasi tutti i giorni ­– è una cosa meravigliosa. Cominci ad avere una coscienza molto più ampia del perché sei su questa faccia della terra, di ciò che la terra ti dà e che tu non potrai mai possedere. La terra ti permette la contemplazione, ma non il possesso, la terra non è di nessuno. La terra appartiene alla terra e fa quello che vuole lei, non quello che vogliamo noi. Questo l’abbiamo capito. Uno ci può vivere, abitare, ma lei, la terra, resterà sempre libera e sola in eterno, almeno se l’uomo non va a distruggerla con una guerra nucleare.

Luca Motto (rivolgendosi a Elisabetta Di Grazia): Volevi aggiungere qualcosa?

EDG: Semplicemente che questo trasferimento, che all’epoca non è stato una scelta facile, era un esperimento che nasceva in un momento in cui noi eravamo sicuri delle nostre scelte, ma profondamente in crisi come struttura per via di una contingenza internazionale. Quindi è stata una scelta difficile che ci siamo permessi di fare perché avevamo già vent’anni di lavoro alle spalle. Ricordo che Tucci disse: «Se devo chiudere la galleria deve dirmelo l’arte, non l’economia». Abbiamo fatto una scelta alternativa, che ci permettesse di portare avanti il lavoro fatto fino ad allora, ma in un contesto differente.

TR: Quello che dice Lisa è molto giusto. Noi siamo venuti a Torre Pellice in punta di piedi, portando le cose che ci appartenevano, ma le abbiamo messe anche a disposizione di tutti, non abbiamo invaso il campo. Abbiamo molto rispetto della storia di questo luogo. Perché l’arte oggi sembra maggioranza, ma in realtà l’arte è minoranza, come è minoranza la storia dei valdesi, che hanno sofferto. In questo senso, ci siamo sentiti paritari. Noi non abbiamo vissuto persecuzioni, per fortuna, ma possiamo capire qual è stata la storia di questo luogo meraviglioso che è conosciuto in tutto il mondo. Partecipando a molte fiere internazionali abbiamo capito che la storia di Torre Pellice è molto nota ovunque.
Recentemente abbiamo anche aperto una piccola sede a Torino, in via Davide Bertolotti, guarda caso nello stesso palazzo in cui è nato Guido Gozzano, cosa che mi fa molto piacere essendo stata proprio la poesia a portarmi all’arte.

(Torre Pellice, 10.07.2019)

Arte e Critica, n. 99, inverno – primavera 2023/2024, pp. 46-56.

Luca Motto
Luca Motto